La
Riserva speciale Dzanga-Sangha
è una riserva protetta,
situata nella regione di
Bayanga a sud e a sud-ovest
vicino alle frontiere del
Congo e del Camerun.
Si
estende su un territorio di
oltre 750.000 ettari ed è
stata creata nel 1990 grazie a
un finanziamento della Banca
Mondiale.
Molte
sono le possibilità di
escursioni: a piedi, in
macchina, in piroga. Oltre
alla flora e alla fauna
straordinarie, il parco è
interessante per le
popolazioni che lo abitano:
gli mbaka e i monzombo, i
pigmei aka, bayaka, bambénzélé
e bambinga.
La
riserva speciale di
Dzanga-Sangha abbonda di
vegetazione. Per arrivarci si
passa attraversa la foresta di
Ngotto, si attraversano
miriadi di corsi d’acqua
(uno con un traghettino, uno
con un ponte flottante e tutti
gli altri con i piccoli
ponticelli sommariamente
costruiti con assi di legno) e
si arriva al villaggio di
Bayanga, proprio accanto alle
strutture di accoglienza del
parco.
Le
case del villaggio sono
costruite quasi tutte in
legno. Il villaggio e le
strutture del parco sono lungo
il fiume, nel quale si trovano
gli ippopotami. Il parco
forestale si gira a piedi (ma
data l’abbondanza delle
piogge la passeggiata non è
agevole) oppure in piroga,
accompagnati dalle cordiali
guide pigmee. Si possono
incontrare scimmie (numerose
famiglie di gorilla sono però
difficili da avvistare),
qualche grosso erbivoro, molte
specie di uccelli e
soprattutto numerosi elefanti,
tutti puntuali
all’abbeverata del
pomeriggio alla grande salina.
Nella zona sono stati censiti
più di 2500 elefanti.

Sulle
mappe questa zona è segnata
in verde perché è
considerata una massa di
vegetazione compatta, una
salda barriera tra le
megalopoli in espansione e i
deserti che avanzano. Ma le
mappe mentono. Infatti
sorvolando la zona, appaiono
le lacerazioni che sfregiano
il tessuto fitto degli alberi.
Sono piccole strade dall'aria
innocua, piste in terra
battuta costruite per
catturare qualche briciola di
un tesoro naturale che
appariva infinito. Anno dopo
anno però si sono
moltiplicate fino a formare
una ragnatela.
Ogni
via ha generato grappoli di
case e attorno alle case si
sono allargate radure in cui
la protezione umida offerta
dal mantello verde ha ceduto
il passo alla morsa arida del
sole. Squarci che di tanto in
tanto si dilatano: sono
segherie che hanno rubato
altro spazio chiedendo
impianti di produzione
elettrica, che a loro volta
hanno bisogno di altre strade
per far passare i camion, i
materiali, gli operai.


Questi
operai spesso si trasformano
in disperati all'assalto della
foresta e con il passare del
tempo si sono procurati
un'arma e hanno cominciato a
cacciare di frodo. Una pila di
questi fucili, strumenti
artigianali confiscati ai
bracconieri, si trova nel
deposito delle eco guardie, 42
persone chiamate a sorvegliare
466 mila ettari di foresta. Il
risultato di questa missione
impossibile è evidenziato
dall'enorme catasta di zanne
sequestrate, una piccola parte
dell'avorio diretto ai mercati
clandestini.
E
i pericoli non sono legati
solo al bracconaggio, alla
pressione dell'industria del
legno si è aggiunta quella
delle società che cercano
ferro, oro, bauxite, diamanti,
petrolio. Nel mondo la fame di
materie prime aumenta e nella
partita si è inserita la Cina
con un crescendo
impressionante di
investimenti. Poi ci sono le
coltivazioni di olio di palma:
sono arrivate richieste per un
milione di ettari, un milione
di ettari di foresta da radere
a zero.
Assieme agli alberi rischia di
scomparire la cultura dei
bayaka, i pigmei che per
secoli hanno vissuto usando le
piante come dispensa e
farmacia. Tra le centinaia di
vegetali utilizzati dal popolo
delle foreste ci sono il kokò,
un'erba dal vago sapore di
fagioli; le liane che
contengono un'acqua simile a
quella distillata; il bossò,
una corteccia che si usa per
curare le carie; il mokata, un
viagra naturale.
Per cancellare questa enorme
ricchezza naturale basta poco:
con qualche colpo di machete e
mezz'ora di motosega si
trasformano in parquet alberi
secolari facendo salire il
conto delle emissioni serra.
La deforestazione è
responsabile del 13 per cento
dei gas che minacciano la
stabilità climatica - precisa
Riccardo Valentini, direttore
del Dipartimento scienze
forestali dell'università
della Tuscia - e il bacino del
Congo perde ogni anno 700 mila
ettari di verde.

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