Amantea (Borgo)
(Cosenza)
  
 
  


Amantea, splendido borgo calabrese non troppo distante da Cosenza e Catanzaro, ad appena una manciata di chilometri dall’altrettanto nevralgica città di Paola, è uno dei più bei gioielli della costa tirrenica.

Rinomata località balneare della costa tirrenica, Amantea è ricca di tradizioni culturali, manifestazioni, opere e monumenti di interesse storico artistico.  

Il territorio del comune di Amantea si estende su una superficie 29,46 km2 in direzione nord-sud parallelamente al mar Tirreno e presenta un profilo altimetrico compreso tra 0 e 439 metri sul livello del mare. I confini naturali del comune di Amantea sono delimitati a nord con Belmonte Calabro, a ovest dal mar Tirreno, a sud con Nocera Terinese in provincia di Catanzaro dal fiume Savuto, e infine a est da alcune cime della Catena Costiera con i comuni di CletoSerra d'Aiello e con l'ex-frazione di San Pietro in Amantea.

Nel Medioevo, era territorio amanteano anche il comune di Belmonte Calabro con le sue frazioni: la giurisdizione della Comunità di Amantea sul solo castello di Belmonte decadde solo con la fondazione del castello stesso, nel 1270 circa, su ordine di Carlo I d'Angiò per punire una ribellione degli abitanti di Amantea. In seguito, nel 1345 la Comunità di Amantea fece ricorso alla regina Giovanna I di Napoli perché sanzionasse il feudatario di Belmonte Pietro Salvacossa che si era appropriato di alcuni territori amanteani: con un decreto regionale del 27 maggio la regina delimitò quindi i confini amanteani per la prima volta. Fu solo nel 1811, in età napoleonica, che venne sancita de iure la divisione tra i territori di Belmonte e Amantea, che fino ad allora era esistita de facto.

Dal luglio 1937 l'ex-frazione di San Pietro in Amantea ottenne l'autonomia amministrativa che conserva: il comune di Amantea perse così un territorio montuoso di 10 km2 che andò a costituire il nuovo comune.  

Il territorio amanteano è solcato da diversi fiumi o torrenti provenienti dalla Catena Costiera dell'entroterra: tutti sono a carattere torrentizio. Possono dunque raggiungere anche una grande portata d'acqua in inverno ma in estate appaiono inesorabilmente in secca, salvo non ci siano grandi piogge che provocano spesso piene improvvise e dannose, oltre che pericolosissime.

I corsi d'acqua sono dunque, partendo da nord in direzione sud spostandosi lungo la statale tirrenica:

Fiume Catocastro, corso d'acqua originato da Monte Cocuzzo (1541 m s.l.m.) che scende per circa nove chilometri scavando una vallata attraverso il comune di Lago. Scorre parallelamente alla Strada Provinciale 278 Cosenza-Amantea.

Torrente Santa Maria, corso d'acqua a carattere torrentizio che attraversando la parte bassa della città con la sua foce delimita il Lungomare.

Torrente Calcato.

Torrente Colongi, corso d'acqua che scorre delimitando il limite meridionale estremo dell'abitato di Amantea. Conosciuto per le sconcertanti imprese di Marylou Ianni, sulla cui vita sarà girato un film burlesco.

Fiume Oliva, nasce sul monte Scudiero sulla Catena Costiera nei pressi di Potame. Sfocia, dopo 18 km, nel Mar Tirreno nella omonima frazione (Oliva) poco più a nord di Campora San Giovanni.

Torrente Rubano.

Torrente Torbido che delimita il confine tra la provincia di Cosenza e Catanzaro.

Nella località di Campora San Giovanni, frazione di Amantea, andrebbe localizzata l'antica Temesa, mentre Clampetia sarebbe collocabile nella piana di Amantea, l'unico sinus della costa tirrenica cosentina.

greci bizantini, quando conquistarono la Calabria, fondarono nell'area dell'attuale Amantea vecchia una cittadella fortificata chiamata Nepetia (Νεπετία).

Nepetia fu conquistata dagli arabi nel IX secolo, che la costituirono capitale di emirato e la ribattezzarono Al-Mantiah.

Quando, nell'885Niceforo Foca riconquistò la città, rimase il nome di Amantea.

La cittadina fu elevata a sede vescovile finché non venne accorpata, sul finire dell'XI secolo, alla diocesi di Tropea.

Fu tra le ultime roccaforti ribelli durante le sommosse del 1267-69 dovute alla discesa di Corradino di Svevia nel sud Italia contro il dominio di Carlo I d'Angiò, stabilitosi nel regno pochi anni prima dopo aver sconfitto e ucciso in battaglia a Benevento re Manfredi.

All'inizio dell'epoca moderna ebbe una zecca allestita da Francesco de Lauro, importante magistrato del Regno e signore di alcune terre calabresi.

Amantea non fu mai infeudata, se non per un breve e travagliato periodo alla metà del XVII secolo. La cittadina mantenne sempre lo status di città demaniale, con istituzioni proprie.
Come riporta Lorenzo Giustiniani nel suo Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, alla fine del XVIII secolo, la popolazione di Amantea ammontava a 2187 abitanti e si occupava principalmente di sericoltura, essendo il territorio circostante ricco di gelsi, utilizzati per l'allevamento di bachi da seta.

Amantea subirà l'occupazione francese prima nel 1799, poi nel 1807, la seconda volta dopo strenua resistenza agli invasori d'Oltralpe.

Amantea divenne, nel 1861, un comune del Regno d'Italia, dotata di molti uffici pubblici e scuole che ne hanno fatto il punto di riferimento del retrostante entroterra. Il 20 febbraio 1943 un bombardamento alleato colpì il Palazzo Del Giudice, sulla Via Indipendenza in prossimità della Chiesa di San Biagio. Una lapide sui ruderi ricorda le 26 vittime tra cui molti bambini. Nel dopoguerra Amantea ha conosciuto una forte espansione che l'ha portata fino a raggiungere il mare, facendone una nota località balneare e turistica. Pochi anni fa è stato inaugurato il porto turistico di Campora San Giovanni.

Monumenti e luoghi d'interesse

La città si presenta con una parte alta che ospita l'antico centro abitato arroccato su un colle roccioso e una parte bassa adagiata lungo la costa. Particolarmente suggestivi sono i vicoli e le stradine del borgo antico e passeggiando per le vie del centro storico si può notare il forte contrasto esistente tra i maestosi palazzi della nobiltà e le umili abitazioni del popolo. Amantea possiede tre anime, ciascuna delle quali ha un’identità forte e ben radicata. Il centro storico abbarbicato sulla rupe del castello; la zona pianeggiante, che trova nel Viale Margherita il suo principale punto di forza; infine, la Marina, che si sviluppa attorno al lungomare e a ridosso delle incantevoli spiagge, vanto e orgoglio degli amanteani. La città vecchia regala ai visitatori l’atmosfera propria di quei borghi incantati di una volta. Si snoda in mezzo a case ottocentesche e giardini affascinanti, lungo un percorso di vicoli e stradine acciottolate che favoriscono le passeggiate. Dall’alto il panorama è assolutamente incredibile e abbraccia in uno sguardo l’arco in pietra che affaccia sui tetti spioventi delle case poste ai piedi della rupe e l’orizzonte del Tirreno maestoso ed immenso.

La zona pianeggiante è quella più commerciale e maggiormente popolata, una città in miniatura vivace e ricca di servizi che è cosa assai rara lungo le coste calabresi. Sebbene questa zona sia più moderna rispetto al centro storico, il corso passa in mezzo a splendide case antiche con le ringhiere in ferro battuto e i comignoli che svettano nel cielo. Lungo il percorso che conduce a Piazza Commercio sono soliti esporre le proprie opere gli artisti autoctoni, sempre impegnati a rendere immortali sulle loro tele il castello, i vicoli e le spiagge di questo borgo così autentico. Durante l’estate il lungomare di Amantea è un continuo viavai di turisti. Nel corso del tempo la zona della Marina si è evoluta sino a diventare la vera attrazione di Amantea. Le spiagge non hanno nulla da invidiare a quelle di località ben più blasonate, mentre i locali disseminati sul lungomare della strada contribuiscono a vivacizzare la movida notturna. Qualche anno fa è stato inaugurato il porto turistico di Campora San Giovanni, punto di partenza dei battelli per le isole Eolie e ottima idea per escursioni di grande fascino.

Castello

ll castello di Amantea (già Regio castello di Amantea) è situato nel basso Tirreno cosentino. A dominio della strada costiera e della via per Cosenza che corre lungo la valle del fiume Catocastro, fu in passato un'importante piazzaforte sotto i bizantini, gli arabi, i normanni, gli svevi, gli angioini e gli aragonesi. Fu risistemato nel periodo viceregnale e sotto i Borbone, ma subì gravi danni durante i terremoti del 1638 e del 1783; fu lasciato in stato abbandono dopo il disastroso assedio del 1806-1807 subito da parte delle truppe napoleoniche.

Attualmente il castello è in rovina, e l'accesso ai resti sul colle che domina la città risulta faticoso e pericoloso . Nel 2008, la proprietà dell'area circostante è stata acquistata dal Comune di Amantea.

In età antica in territorio amanteota sorgeva la città di Lampeteia o Clampetia, probabile colonia crotoniate abitata anche da elementi indigeni bruzi. Questa città, già decadente in età imperiale, fu spazzata via dal terremoto e maremoto del 365: nelle sue vicinanze sorse una nuova città, Nepetia ("nuova città" o "nuovo accampamento" in greco). Nepetia fu occupata dai bizantini e dopo il 553 fu sede di un governatorato militare e di una piazzaforte sui confini settentrionali del thema di Calabria.

Furono dunque i bizantini i primi a fortificare il sito dell'attuale Amantea: tuttavia, il nome attuale venne alla città dalla dominazione araba. Nell'846 infatti Nepetia venne conquistata dagli arabi di Sicilia e ribattezzata "Al-Mantiah", "la rocca". Amantea rimase araba per quarant'anni, e fu sede di un emirato: conosciamo il nome di un solo emiro, As-Sinsim latinizzato in Cincimo, che nell'868 si spinse fino a tentare la conquista di Cosenza. I bizantini riconquistarono la città nell'anno 272 dell'Egira, ossia l'885-886. Amantea divenne sede vescovile, e nel X secolo inglobò nella sua diocesi il territorio della sede vescovile dell'ormai decaduta città di Temesa.

L'emiro di Sicilia Abu l-Qasim Ali riconquistò Amantea nel 976, e fu di nuovo sotto la dominazione araba fino al 1031-1032, quando fu di nuovo occupata dai bizantini.

Normanni conquistarono Amantea nel 1060-1061, scacciandone una volta per tutte i bizantini. Nel 1094 la diocesi di Amantea venne aggregata a quella di Tropea, nel quadro della latinizzazione dei culti nell'Italia meridionale voluta dal papato e dai sovrani normanni. Durante la dominazione normanna Amantea decadde, rimpiazzata come importante centro di controllo del territorio dalla vicina Aiello Calabro.

Sotto la dominazione sveva il castello venne rafforzato, nell'ambito del piano del ripopolamento delle zone costiere voluto da Federico II. In virtù del buon governo svevo, Amantea ed altri castelli della zona (AielloCleto) resistettero tenacemente al nuovo sovrano di origine francese Carlo I d'Angiò: questi inviò il conte di Catanzaro Pietro Ruffo a riconquistare la città, che resistette alle preponderanti forze angioine per tutto il mese di maggio del 1269, prima di capitolare alla metà di giugno di quello stesso anno. I ribelli furono quasi tutti puniti atrocemente.

Per tenere a bada eventuali future rivolte, gli angioini edificarono in territorio amanteota il castello di Belmonte Calabro, nucleo attorno a cui si sarebbe sviluppato l'omonimo paese.

Amantea fu al centro delle vicende della cosiddetta "guerra dei novant'anni" tra Angiò ed Aragona per il possesso del Regno di Napoli e Sicilia, seguita al casus belli dei Vespri siciliani. La popolazione amanteota era di tendenza aragonese; il castello, difeso da duecento uomini e ben provvisto di viveri dai castellani di fede angioina, fu assediato dalla flotta e dall'esercito aragonese nel 1288, e capitolò a patti onorevoli. Il castello tornò agli Angiò in forza della pace di Caltabellotta del 1302: dopo un periodo di ritorsioni contro gli amanteoti per la loro fede aragonese, la città ottenne dagli ultimi sovrani angioini-durazzeschi importanti esenzioni e privilegi che portarono un aumento di popolazione.

Nel 1391 Ladislao I di Napoli infeudò Amantea al doge di Genova Antoniotto Adorno, a titolo di restituzione dei prestiti concessogli da questi. Ad ogni modo, nel 1425 Luigi III d'Angiò decretò Amantea ed il suo castello possessi inalienabili del regio demanioRenato d'Angiò ciò nonostante concesse nuovamente il feudo a Margherita di Poitiers, seconda moglie del marchese di Catanzaro Niccolò Ruffo, e nel 1458, alla morte di Alfonso I d'Aragona, primo sovrano aragonese di Napoli e Sicilia, gli amanteoti insorsero contro l'infeudamento, schierandosi con il pretendente angioino al trono napoletano, Giovanni d'Angiò.

Alla fine il re Ferrante d'Aragona spostò la feudataria Margherita di Poitiers da Amantea a Rende, e la rivolta rientrò, ma Amantea fu l'ultimo dei castelli calabresi a tornare sotto il controllo aragonese.

Amantea rischiò di essere infeudata anche nel Seicento, in due occasioni, a causa della costante miseria delle casse viceregnali: la prima con il principe della vicina Belmonte Giovanni Battista Ravaschieri nel 1630-1633, la seconda con il granduca di Toscana Ferdinando II de' Medici nel 1647. In entrambe le occasioni la popolazione difese con orgoglio il proprio stato di città demaniale, muovendosi persino presso la corte di Madrid.

Sotto gli aragonesi, la castellania venne affidata alla famiglia Carafa, duchi di Maddaloni. Nel 1489 il castello fu visitato da Alfonso II di Napoli, in viaggio di ispezione per i castelli del suo regno: il sovrano fu accolto dal castellano Giovanni Tommaso Carafa, e visitò la chiesa ed il convento di San Bernardino da Siena. Durante la breve parentesi dell'occupazione di Carlo VIII di Francia (1496-1498) il castellano Giovanni Tommaso Carafa dovette schierarsi con i francesi, ma la popolazione inviò una delegazione ad omaggiare il sovrano aragonese spodestato Ferrante d'Aragona rifugiatosi ad Ischia. Alla fine della dinastia aragonese, scoppiò una guerra tra Francia e Spagna per il possesso dei territori dell'Italia meridionale; Amantea parteggiò per gli spagnoli: nel 1504 durante la guerra 85 spagnoli capitanati da Gomez de Solis sbarcarono sulle spiagge amanteote, spingendosi nell'entroterra per dare aiuto alla guarnigione spagnola di Cosenza assediata dai francesi. Alla fine la guerra fu vinta dal "re cattolico" Ferdinando II d'Aragona, e Napoli diventò un vicereame spagnolo.

Nel 1536 Juan Sarmiento, inviato da Carlo V d'Asburgo a controllare lo stato delle fortificazioni del Viceregno, riportava che il castello, secondo le parole dello storico locale Gabriele Turchi, era "inidoneo anche come ricovero di ladroni". Perciò tra il 1538 ed il 1544 al castello lavorarono gli architetti Giovanni Maria Buzzacarino (attivo anche al castello di Crotone) e Gian Giacomo dell'Acaya (progettista del borgo fortificato di Acaya in Puglia). Fu realizzato in questa fase il grande baluardo meridionale a scarpa.

Ciò nonostante, il castello è già sulla via dell'abbandono. Nel 1611, in una relazione sui castelli del Viceregno, viene riportato che: «Il Castello di Amantea si trova in alto su di un monte ed alle sue falde c'è la città che guarda il mare, non ha porto né altra cosa di rilievo e così tutti i risparmi di spesa che si potranno fare saranno ben giustificati»

Il terremoto del 1638 arrecherà gravi danni alle strutture del castello. Nuovi restauri saranno svolti nel 1694, per la spesa di 365 ducati; nel 1757 (già in epoca borbonica, su ordine di Carlo III di Borbone), per la spesa di 136 ducati; nel 1766, sotto la direzione dell'ingegnere militare Giovanni Galenza: questi ultimi lavori furono vanificati da un terremoto nel 1767. Ulteriori danni, e maggiori, furono quelli provocati dal devastante terremoto del 1783. Per riparare questi ultimi gravi danni, nel 1786 arrivò da Napoli l'ingegnere militare Andrea Depuis, che diresse i lavori per l'importo di 390 ducati.

Durante i fatti della Repubblica Napoletana (1799), Amantea si consegnò spontaneamente ai giacobini: la popolazione di fatto disarmò la guarnigione del castello, e piantò l'albero della libertà, guidata da Ridolfo Mirabelli, capo della piazza nel breve periodo rivoluzionario. Infatti dopo neppure un mese sopraggiunsero i sanfedisti guidati dal cardinale Fabrizio Ruffo, che vennero rapidamente a capo del tentativo di resistenza giacobino.

Fu invece con l'invasione napoleonica che il castello di Amantea ebbe il suo ultimo momento di gloria. Amantea fu occupata il 12 marzo 1806 da un distaccamento di 200 volteggiatori polacchi, che rimasero asserragliati nel castello fino alla notizia della sconfitta francese nella battaglia di Maida (4 luglio 1806). Allora si ritirarono verso Cosenza, lasciando la piazza ad una flotta anglo-borbonica che da giorni era all'ancora al largo di Amantea. All'interno delle mura cittadine i "capimassa" borbonici iniziarono ad organizzare la resistenza all'imminente contrattacco in forze dei francesi, analogamente a quanto si stava facendo nei paesi vicini. In quelle settimane all'interno dei paesi calabresi furono perpetuati delitti e violenze contro giacobini o presunti tali, spesso solo nemici personali dei borbonici al comando in quel momento.

Ad ogni modo, l'attacco francese principale iniziò il 5 dicembre 1806: le forze assedianti ammontavano a 5000 uomini con un reparto d'artiglieria comandati dai generali Guillaume Philibert DuhesmeJean ReynierJean-Antoine Verdier e dal tenente colonnello di origine amanteota Luigi Amato. I borbonici assediati ammontavano a qualche centinaio, dotati di 12 bocche da fuoco in tutto, e capitanati da Ridolfo Mirabelli, che alla fine dell'assedio sarà decorato con il grado di tenente colonnello dal re Ferdinando IV di Borbone. La piazza di Amantea resistette strenuamente fino al 7 febbraio 1807, quando Mirabelli e Reynier firmarono una capitolazione onorevole.

Dopo l'Unità d'Italia (1861), l'area del castello venne assegnata dal demanio militare al 5º Corpo d'Armata, ed in seguito ad un ente assistenziale napoletano. Negli anni settanta, con il progressivo ridimensionamento di questi enti in vista del loro scioglimento (stava nascendo il Servizio Sanitario Nazionale affidato alle regioni, legge quadro n° 883 del dicembre 1978), l'area fu messa in vendita. Così il castello nel 1974 fu acquistato dalla famiglia Folino.

Il castello occupa un plateaux con bella visuale sia sul piccolo golfo del fiume Oliva sul mar Tirreno (e nei giorni di tramontana è possibile vedere addirittura l'isola di Stromboli e Pizzo), sia sulla valle del fiume Catocastro, inoltrandosi attraverso la quale si arriva a Cosenza lungo l'antico tracciato della via Popilia.

Probabilmente fu in età normanna e sveva che venne fortificata pesantemente la parte meridionale del colle, decentrata rispetto all'abitato ma rivolta verso gli obiettivi che interessava tenere sotto controllo in quell'epoca, ossia le vie di comunicazione tra la costa e l'interno.

La torre mastia ovoidale rivolta a nord-ovest, detta di San Nicola, fu realizzata in età angioina, a giudicare dallo stemma recante i gigli di Francia che vi rimane sopra; e pure in età angioina, pare sotto il regno di Giovanna I d'Angiò, fu costruita la torre circolare con vista mare, isolata dal complesso propriamente fortificato. Questa torre è simile per tecnica costruttiva a quella del castello di Paola.

In età aragonese il castello fu riammodernato secondo i dettami di Francesco di Giorgio Martini e della "fortificazione alla moderna", per resistere ai colpi delle nuove armi da fuoco: le mura furono abbassate ma rinforzate in spessore, fu costruito un rivellino d'accesso sul lato orientale (oggi completamente crollato) e realizzato uno spalto che precedeva il fossato in tutta la sua lunghezza. Il castello fu bastionato, come già detto, nel 1538-1544, a cura di architetti conosciuti come il Buzzacarrino e Gian Giacomo dell'Acaya: oggi è quasi interamente conservato il grande bastione rivolto a sud, a scarpa con rodendone, poggiante sulla viva roccia della rupe, già di per sé formidabile difesa.

Oggi restano davvero pochi avanzi degli ambienti interni del castello, perciò è possibile saperne qualcosa di più solo scorrendo le planimetrie e le vedute settecentesche. Il castello aveva un perimetro quadrangolare, svolto intorno alla piazza d'armi, sotto la quale si trovavano tre cisterne per la raccolta delle acque piovane. Gli alloggiamenti del castellano e degli ufficiali erano disposti lungo il lato meridionale, comunicanti con il bastione cinquecentesco; i soldati con famiglia erano alloggiati nel lato occidentale, mentre gli altri alloggiavano nel lato settentrionale, dove si trovava anche l'armeria. Lungo il lato orientale si trovavano le carceri e la cappella. La polveriera era situata anch'essa sul lato orientale, presso l'ingresso principale. Erano stati previsti tre grandi locali per le artiglierie: uno nel bastione meridionale, uno all'angolo verso sud-ovest rivolto verso il quartiere Paraporto, l'altro presso la torre mastia all'angolo nord-ovest.

Questo grande quadrilatero era tutto circondato da un fossato, già invaso da erbacce nel Settecento, ed ancora oggi esistente: in particolare, rimane la parte in muratura dell'accesso secondario al castello, sul lato settentrionale. Il ponte levatoio è andato distrutto. Oltre il fossato, il resto dell'altopiano era circondato da un muretto diroccato già nel Settecento, che formava una sorta di "cittadella" o "avanzata" concepita per intrappolare il nemico che fosse riuscito a penetrarvi (struttura analoga a quella del vicino castello di Aiello Calabro). Ad occidente dell'altopiano sorge la torre angioina, la parte forse meglio conservata del castello e la più visibile dalla città moderna, sviluppatasi verso il mare.

Al castello attualmente (2011) è possibile salire da almeno quattro sentieri, piuttosto difficoltosi: uno parte dalla Strada Tirrena poco prima della confluenza con corso Umberto I, un altro incomincia a destra della chiesa del Carmine in corso Umberto I, un terzo (Salita San Francesco) si sviluppa dall'antica porta urbica fino a toccare anche le rovine del complesso francescano sottostanti la torre angioina, un quarto infine parte dalla chiesa del Collegio (a cui sono annesse le imponenti rovine dell'ex-collegio gesuitico).  

Nel 1288 il presidio del castello era composto da 200 uomini, di cui 100 balestrieri; nel 1559, in periodo viceregnale, era sceso a 4 soldati ed 1 castellano; nel 1584 il presidio assommava a 6 posti inclusi un castellano e degli ufficiali; nel 1611 a 5 posti inclusi un castellano e degli ufficiali.

In quello stesso anno l'armamento del castello era composto da 2 "sacrograndi", 1 "mezzo sacro", 1 falconetto, 19 "smerigli". Sette anni dopo, nel 1618, il castello contava 10 cannoni di bronzo "scalnaccati e rotti". Nel 1619 furono inventariati 54 archibugi, 22 barili di polvere da sparo, 10 quintali di piombo, 98 palle di piombo da undici libbre, 30 palle di piombo di sei libbre, 47 palle di piombo di due libbre, 321 palle di piombo da otto once, 250 palle di piombo piccole, 50 palle per moschetti, un cassone con corazze, armi e bracciali di ferro "arruzzati", 11 barili di zolfo e 2 di salnitro, un monte di palle di pietra, una mazza di ferro; nel 1624 54 archibugi, 43 fiasche da polvere da sparo, 22 barili di polvere, 2 "sacrograndi" (cannoni), 1 falconetto, palle da cannone di grande e medio calibro, 11 barili di zolfo e 10 di salnitro, una mazza ferrata. Nel 1806, infine, durante l'assedio di Amantea, il castello e l'abitato furono difesi da 3 cannoni di grosso calibro più 9 di minor calibro dislocati sulle mura e sulle porte cittadine.

Collegiata di San Biagio o chiesa matrice

La collegiata di San Biagio, meglio conosciuta come duomo o chiesa matrice, è il principale luogo di culto cattolico della città di Amantea.

La chiesa, situata nella località denominata "Pantalia", sorge nel sito occupato anticamente dalla chiesa di rito greco di San Pantaleo. Dopo la conquista normanna della Calabria e la progressiva latinizzazione degli antichi territori bizantini, la chiesa di San Pantaleo venne ridotta al grado di cappella e dedicata ai santi Pietro e Paolo.

Nel corso del XII secolo poi fu costruita, in prossimità del luogo dell'attuale chiesa matrice, una chiesa parrocchiale di rito latino dedicata a san Biagio, che si avviò a divenire il luogo di culto più importante della città: nel 1609 infatti il parroco di San Biagio ottenne il titolo di arciprete. Probabilmente dopo il terremoto del 1638 la chiesa subì gravi danni strutturali che ne comportarono l'abbandono e la distruzione.

Nel 1677 monsignor Giovan Battista Di Lauro, membro di una potente famiglia amanteana, ampliò la vecchia cappella dei Santi Pietro e Paolo, dedicandola alla Madonna del Suffragio, volgarmente denominata dal popolo dei Morti o delle Anime del purgatorio. Vista l'inadeguatezza dell'antica parrocchiale di San Biagio, il vescovo di Tropea monsignor Luigi Morales ordinò che il titolo dell'arcipretura di San Biagio venisse portato nella nuova cappella della Madonna del Suffragio, che in seguito ad ulteriori lavori di sistemazione assunse l'attuale aspetto della chiesa matrice.  

Chiesa di San Bernardino da Siena

La chiesa di San Bernardino da Siena è situata a 34 metri sul livello del mare, nell'omonima via della cittadina tirrenica.

La chiesa, risalente alla prima metà del Quattrocento e dichiarata monumento nazionale, è affiancata da un altro luogo di culto più piccolo un tempo sede dell'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione, l'oratorio dei Nobili, e dal convento dei frati minori osservanti, fondato nel 1436 e nuovamente occupato dai frati a partire dal 1995, dopo la loro ultima partenza dall'edificio avvenuta nel 1861.

La fondazione del convento amanteota dei frati minori osservanti in contrada Rota fu autorizzata da papa Eugenio IV con il Breve apostolico dato in Bologna il 24 settembre 1436: probabilmente il papa si interessò della questione, di carattere meramente locale, grazie all'intervento del suo cameriere privato, il nobile amanteota Giovanni Cozza. I minori osservanti si erano già installati in altre località della Calabria, dove l'ordine era stato portato dal beato Tommaso Bellacci da Firenze: a Tropea e Cosenza nel 1421, a Mesoraca nel 1428, a Reggio Calabria nel 1431, a Cinquefrondi nello stesso 1436 di Amantea.

In tutti questi casi, i minori osservanti avevano occupato luoghi di culto abbandonati da altri ordini religiosi: ciò avvenne probabilmente anche ad Amantea. Infatti il Breve apostolico firmato da Eugenio IV parla, come notato dallo studioso Francesco Samà, di una "licentia acceptandi" ("permesso di accettare") il convento, ovvero un convento probabilmente già esisteva e non bisognava costruirlo, poiché l'Università ed i cittadini di Amantea avevano offerto quei locali abbandonati agli osservanti. Inoltre, la vecchia campana della chiesa, conservata attualmente nel chiostro del convento, riporta un'iscrizione che data la prima fusione della stessa al 1404. Infine, lo studioso Alessandro Tedesco ha individuato in un atto notarile riguardante la realizzazione del dittico marmoreo per l'oratorio dei Nobili, datato 1491, la testimonianza che circa sessant'anni dopo l'installazione degli osservanti nel convento e la conseguente intitolazione della chiesa a san Bernardino da Siena, la popolazione continuava a chiamare la chiesa con l'antica denominazione di "monasterium Sancti Francisci de Amantea". Da tutto ciò, si deduce che i primi occupanti del convento erano stati alcuni frati minori conventuali che avevano abbandonato il convento francescano sito nel quartiere Catocastro ai piedi del castello di Amantea presso la chiesa di San Francesco d'Assisi, oggi in rovina.

Nel Quattrocento il convento fu oggetto di alcune visite illustri: infatti vi soggiornarono san Francesco di Paola, il minore osservante cosentino padre Antonio Scozzetta, morto ad Amantea in odor di santità, il vicario generale dei minori osservanti Pietro di Napoli ed il duca di Calabria Alfonso II di Napoli.

Nel 1581 venne fondata l'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione, una confraternita riservata ai soli nobili della città: i ceti più bassi ed i marinai, invece, si radunavano nella confraternita del Santissimo Rosario. L'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione scelse come propria sede la chiesa di San Bernardino, ed a partire dal 1592 iniziò la costruzione dell'oratorio dei Nobili. Questo oratorio fu realizzato nel sito della cappella di giuspatronato della famiglia Cavallo, di recente imparentatasi con un'altra nobile famiglia amanteota, i Baldacchini, attraverso il matrimonio tra Giacomo Cavallo e Prudenza Baldacchini: furono proprio questi coniugi a commissionare, nel 1608, il proprio sepolcro da collocare nell'oratorio allo scultore messinese Pietro Barbalonga. Il Barbalonga fu richiamato all'oratorio dei Nobili nel 1619, quando il primo rettore dell'arciconfraternita, il nobile amanteota Fabrizio Mirabelli, gli commissionò il sepolcro di famiglia.

Il terremoto del 1638 danneggiò gravemente la chiesa, determinando il crollo del campanile, che fu in seguito a più riprese ricostruito e danneggiato da altri terremoti. Dopo la peste del 1656, l'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione intraprese nuovi lavori nell'oratorio dei Nobili, ed i minori osservanti incominciarono a vendere lo spazio per singole sepolture o fosse familiari sotto il pavimento della chiesa, allo scopo evidente di "fare cassa" per il mantenimento del convento. Tra gli altri personaggi che furono sepolti nella chiesa ci furono il governatore di Amantea Giacinto Santucci, i castellani Antonio Spiriti, Pasquale Gabriele, Giuseppe Poerio, il soldato Casimiro Belluomo, il medico Ignazio de Fazio ed i suoi eredi e successori (dietro pagamento di un canone annuo di 10 carlini come stabilito nel 1672), il sacerdote Giovanni Battista Posa (dietro pagamento di 8 ducati come stabilito nel 1676), il nobile amanteota vescovo di Termoli Antonio Mirabelli.

Il terremoto del 1783 danneggiò gravemente la chiesa facendo crollare il campanile, ricostruito dopo il precedente sisma del 1638, e parte del portico d'ingresso.

Durante l'assedio di Amantea del 1806-1807 ad opera dell'esercito francese comandato dai generali Guillaume Philibert Duhesme, Jean Reynier e Jean Antoine Verdier, gli assedianti si accamparono presso San Bernardino, sito fuori le mura cittadine, bombardando da questa piazza il castello di Amantea, che capitolò solo il 7 febbraio 1807, dopo due mesi di assedio.

Il convento, saccheggiato dai soldati francesi e svuotato dei frati, fu chiuso ufficialmente il 7 agosto 1809, dopo l'approvazione delle leggi eversive dei beni ecclesiastici nel Regno di Napoli. La proprietà dell'immobile passò al demanio, che affittò la chiesa ed il convento al nobile amanteota Giulio Sacchi il 5 settembre 1812, dietro pagamento del canone annuo di 42.97 ducati (ma il valore stimato del complesso ammontava a quasi 5000 ducati). Il Sacchi trasformò il convento nel proprio palazzo anche se ben presto, dopo la sconfitta di Napoleone Bonaparte, il congresso di Vienna, la fucilazione di Gioacchino Murat a Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815 ed il ritorno di Ferdinando II di Borbone a Napoli, i frati minori osservanti tornarono in possesso del convento, ma solo per cedere la proprietà dello stabile e della chiesa alla diocesi di Tropea, che chiamò ad occuparlo la Congregazione del Santissimo Redentore, comunemente chiamata dei "redentoristi" o "liguorini": questi occuparono il convento l'11 febbraio 1833.

I "liguorini" non furono ben accetti dalla popolazione amanteota, anche perché non erano in condizione di abitare stabilmente il convento, anche perché l'edificio era ormai in via di crollo: nel 1843 iniziò addirittura una controversia tra i religiosi ed il Decurionato di Amantea in merito ad un corso d'acqua a carattere torrentizio che, a causa dell'inadempienza dell'amministrazione, aveva invaso le terre dei religiosi. Così già nel 1842 l'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione manifestò il desiderio di acquistare il convento per destinarlo nuovamente a residenza dei frati minori osservanti, desiderio messo in atto solo nel 1847: del resto già gli stessi "liguorini" nel 1845 convennero che era meglio riaprire il convento dei minori osservanti, data la loro impossibilità a presidiare il convento ed il danno che ne riceveva la comunità cristiana amanteota.

Nel 1851-1852 erano stati eseguiti dall'arciconfraternita alcuni necessari lavori di restauro alla chiesa, per un costo totale di 1366 ducati, e nel 1854 alcuni locali del convento furono affittati a famiglie private, mentre gran parte del fabbricato rimaneva in restauro. Nell'Ottocento venne anche costruito un auditorium sopra la navata sinistra, ad uso di sala di riunione e luogo di concerti. Ferdinando II di Borbone autorizzò la riapertura del convento dei frati minori osservanti il 10 agosto 1855, ed il 7 novembre di quello stesso anno venne siglato l'atto notarile che prevedeva che l'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione versasse per l'affitto del convento e della chiesa 25 ducati ai "liguorini" e che gli osservanti versassero la stessa somma all'arciconfraternita.

Il convento venne definitivamente chiuso dopo l'Unità d'Italia in conseguenza del regio decreto legge eversivo dei beni ecclesiastici emanato il 12 febbraio 1861. Sebbene nel 1862 il prefetto di Cosenza avesse autorizzato i frati a rientrare a San Bernardino, essi non accolsero l'invito, probabilmente per scarsezza di individui, come era accaduto anche in altri conventi della provincia. L'edificio tornò proprietà del demanio, e fu danneggiato dal terremoto del 1905, il sisma che ebbe epicentro presso il Monte Poro nell'attuale provincia di Vibo Valentia in occasione del quale si è registrato il più alto valore strumentale della magnitudo mai riscontrato in Italia: a San Bernardino i danni si limitarono al crollo della sommità del campanile e del tetto della prima campata della chiesa.

L'attuale aspetto della chiesa è in larga parte dovuto agli interventi diretti da Gilberto Martelli nel 1953, che previdero il ripristino dell'antica ed essenziale architettura gotica a scapito degli altari marmorei barocchi posti nelle cappelle laterali, ed all'esterno la risistemazione del portico d'ingresso.

Questi interventi furono consolidati e rinnovati dagli ultimi restauri subiti dalla chiesa, all'inizio degli anno novanta, con la ripavimentazione dell'intero complesso in mattonelle quadrate di terracotta e la realizzazione degli impianti elettrici e d'illuminazione. Nel 1995 infatti i frati minori osservanti tornarono ad Amantea, dopo oltre un secolo di assenza.

Se la chiesa, dipendente dalla parrocchia della collegiata di San Biagio, fu sempre officiata, nonostante le cattive condizioni del campanile e le copiose infiltrazioni d'acqua nella parete sud, il convento fu adibito a diversi usi: prima sede di alcuni uffici comunali, dell'archivio comunale e scuola secondaria di primo grado, poi centro di igiene mentale ed in seguito sede dell'azienda sanitaria locale, solo dopo i summenzionati lavoro dei primi anni novanta è stato ripristinato ed adibito alla sua funzione originaria.

LA CHIESA - Il portico d'ingresso della chiesa è inquadrato tra il campanile e l'angolo nord-ovest del convento, quella che ospita l'oratorio dei Nobili: è sopraelevato di due metri dal suolo, e vi si accede attraverso una scalinata che tende a restringersi verso l'alto. Gli interventi del 1953 hanno riportato il portico al suo originario aspetto quattrocentesco, con le cinque arcate ogivali sorrette da pilastri poligonali binati con capitelli a goccia montati su alti plinti, il tutto in arenaria locale: dopo il terremoto del 1783 infatti l'arcata centrale, quella d'accesso al portico, era stata trasformata a tutto sesto a mo' di serliana, con il beneficio che si rendeva visibile il portale d'ingresso della chiesa ma l'aspetto negativo di sconvolgere l'architettura del portico. In origine il portico era aperto su due lati, ma dopo il terremoto del 1638 lo spostamento del campanile impose la chiusura delle due arcate ogivali poste verso nord: gli interventi degli anni novanta hanno posto in luce i resti di queste arcate nella base della parete sud del campanile.

Disassato rispetto alle arcate del portico si apre il portale d'ingresso in travertino della chiesa, che presenta un ampio arco ribassato, forse di ispirazione catalana, "delineato da esili cordoli a fascio intervallati da zone lisce". Altri portali che si affacciano sul portico sono quello della torre campanaria, un arco a tutto sesto di modesta architettura, quello del convento, un altro arco ribassato di modesta architettura realizzato parzialmente con elementi di restauro, e quello dell'oratorio dei Nobili: questo portale in arenaria è invece un significativo esempio di architettura tardo rinascimentale. Esso si presenta infatti con un architrave incorniciato da paraste di ordine ionico decorate con un motivo ad ovoli o "kyma ionici", il tutto a sorreggere un'alta trabeazione: la data di realizzazione del portale, leggibile sulla rovinata iscrizione posta al centro della trabeazione, è il 1592.

Le essenziali linee della facciata a capanna della chiesa si elevano alle spalle del portico d'ingresso: al centro si apre una piccola monofora a sesto acuto, sovrastata dagli incavi nei quali fino al 1984 si trovavano dieci bacini ceramici disposti singolarmente a forma di croce latina. L'uso di inserire asimmetricamente pezzi ceramici o marmorei colorati nelle murature per "spezzare" la monotonia della parete a tinta unita è attestato in molte costruzioni medioevali, come il quattrocentesco palazzo Ghisilardi Fava a Bologna o il campanile romanico della chiesa di San Pietro ad Albano Laziale: quello di San Bernardino ad Amantea è tuttavia l'unico esempio quattrocentesco di questa pratica riscontrato nell'Italia meridionale. Le ceramiche amanteote sono da attribuire alla fabbrica di ceramiche spagnola di Manises, presso Valencia, che nel Quattrocento era il principale centro di produzione ed esportazione di ceramiche ispano-moresche. I bacini ceramici, sopravvissuti ai terremoti ed alle intemperie, furono rimossi dalla Soprintendenza Archeologica della Calabria il 5 Aprile 1984, trasportati al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria e restituiti alla città di Amantea solo nel 2005: oggi sono custoditi nel convento dei frati minori osservanti. Prima della collocazione dei piatti, era stata dipinta sull'intonaco una grande croce della quale erano visibili tracce ancora negli anni trenta quando Alfonso Frangipane salì a visionare i bacini ceramici. Ad oggi dei bacini ceramici ne sono stati costruiti delle copie e poi inseriti all'inizio di gennaio del 2018.

Si ignora l'aspetto del campanile quattrocentesco, che andò completamente distrutto in seguito al terremoto del 1638. Nella successiva ricostruzione il campanile venne spostato sul lato settentrionale del portico d'ingresso. Dopo il terremoto del 1783 fu aggiunta alla sommità una cupoletta e i tre livelli vennero distinti con l'aggiunta di cornicioni sporgenti. La cupoletta, parzialmente crollata in occasione del terremoto del 1905, venne sostituita da un tetto a terrazza. La sommità del campanile si degradò rapidamente e alla fine degli anni settanta gran parte del terzo livello era scomparso, compreso l'orologio inserito nella finestra ad arco del terzo livello e visibile in alcune fotografie degli anni trenta. Il campanile ha assunto l'aspetto attuale, con la ricostruzione incompleta del terzo livello, con i lavori degli anni novanta.

La vecchia campana di bronzo è oggi conservata nel chiostro del convento: un'iscrizione leggibile su di essa riferisce che fu fusa la prima volta nel 1404, dunque prima dell'arrivo dei frati minori osservanti e della costruzione della chiesa come la conosciamo noi, poi fu rifusa nel 1500 e quindi nel 1861.

La navata centrale, che misura una trentina di metri di lunghezza ed una decina di metri di larghezza ed è la più grande delle due navate che costituiscono la chiesa, non è divisa in campate, è coperta da un tetto a capriate di legno a vista, ed è separata dalla navata sinistra da cinque archi ogivali che appoggiano su pilastri a sezione quadrangolare in arenaria.

La navata è illuminata da quattro monofore per lato, ma l'ultima monofora verso la controfacciata su entrambe le pareti è più corta: attualmente le monofore del lato sinistro sono cieche dopo la realizzazione avvenuta nell'Ottocento dell'auditorium posto sopra la navata sinistra.

Lungo le pareti della navata e sulla controfacciata sono stati messi in luce durante gli interventi degli anni novanta archi ciechi, sia ogivali che a tutto sesto, e tracce di pilastri non compatibili con l'attuale conformazione della chiesa, e dunque riferibili alla struttura della chiesa precedente all'arrivo dei frati minori osservanti nel 1436. Altre anomalie della struttura sono rappresentate dalla nicchia presente sulla parete sinistra della navata centrale tra gli archi della prima e della seconda campata, nella quale attualmente è collocata la statua marmorea di san Francesco d'Assisi di bottega siciliana del XVI secolo, e dalla singolare sezione del pilastro posto tra la quarta e la quinta campata rispetto agli altri pilastri.

Sulla parete di fondo della navata presso l'arco trionfale d'accesso al presbiterio sono collocati il busto, l'iscrizione e lo stemma di famiglia del nobile amanteota vescovo di Termoli Antonio Mirabelli.

La navata sinistra si presenta divisa in sei campate di cui la prima anomala, poiché è divisa dalla navata sinistra da un muro: il che ha fatto ipotizzare allo studioso Alessandro Tedesco che potesse trattarsi di una cappella cinquecentesca dell'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione. In generale, c'è una certa disomogeneità tra le varie campate: al di là dello spessore dei pilastri, irregolare tra la prima e la seconda campata e fra la terza e la quarta, le ultime tre campate presentano una copertura a volta a crociera con costolonature in arenaria, mentre le prime tre sono prive di costolonature. Questo farebbe pensare che la navata sia frutto dell'unione di varie cappelle private di giuspatronato, ipotesi avvalorata dalla presenza degli stemmi delle famiglie nobiliari amanteote dei Carratelli e dei Di Lauro rispettivamente nella quinta e nella sesta campata e da un'iscrizione murata nella prima campata facente riferimento al nobile amanteota Tiberio Cavallo posta accanto ad un mascherone comunemente identificato con il Sol Invictus.

Dalla sesta campata attraverso una botola si accede all'unico ambiente sepolcrale ancora accessibile della chiesa, quello anticamente riservato ai frati minori osservanti. Infine, da notare che sopra le volte a crociera della navata sinistra è stato realizzato nell'Ottocento un auditorium, che venne coperto con un tetto a capriate di legno simile all'originale durante gli interventi del 1953. Nella prima campata è collocata una "Madonna col Bambino" di marmo di Carrara opera di Antonello Gagini, datata 1505 e commissionata da un tale Nicola d'Archomano cittadino amanteota: questa opera, per la ricchezza e la plasticità del panneggio e per il particolare effetto di alcune parti incompiute raggiunge "un esito espressivo ragguardevole", secondo lo studioso Enzo Fera. Il Gagini scolpì altre statue dello stesso soggetto anche a MesoracaMorano Calabro e Nicotera, prima di partire per Roma dove lavorò con Michelangelo Buonarroti alla tomba di papa Giulio II presso la basilica di San Pietro in Vincoli.

Prima degli interventi del 1953 la navata sinistra era arricchita da numerosi altari laterali marmorei, dei quali negli anni trenta si distinguevano quello della seconda campata e quello di santa Lucia da Siracusa, fatti di marmi verdi locali.

Il presbiterio, orientato verso est come nella tradizione paleocristiana e mendicante, è posto sei gradini più in alto rispetto al pavimento moderno della chiesa, ed è aperto da un grande arco trionfale ogivale in arenaria: è di pianta quadrangolare coperto da una volta a crociera con costolonature poggianti su capitelli a crochet o ad uncino tipici dell'architettura gotica, e non si presenta particolarmente luminoso, forse anche a causa dell'accecamento di una delle tre monofore che lo illuminavano, per via della costruzione ottocentesca dell'auditorium.

L'accesso dal presbiterio al coro è realizzato sulla parete settentrionale attraverso un semplice arco a tutto sesto, mentre sulla parete meridionale, oltre all'accesso alla sagrestia, si ha un esempio di nicchia-credenza per custodire le ampolline dell'acqua e del vino e le pissidi delle ostie da consacrare. durante la celebrazione eucaristica. La finestra rettangolare strombata posta sulla parete di fondo del presbiterio è occupata da una vetrata collocatavi negli anni novanta raffigurante il cristogramma IHS (simbolo di san Bernardino da Siena), con un sole a dodici raggi che sta per i dodici apostoli.

L'oratorio dei Nobili è situato nell'angolo nord-ovest del convento: è formato da un'unica navata, ed è coperto da un soffitto piatto a travi di legno. L'illuminazione gli proviene da due finestroni posti sulla parete destra. Il piccolo luogo di culto venne costruito nel 1592, a giudicare dall'iscrizione mal leggibile sul fastoso portale d'ingresso sopra descritto, come luogo di riunione dell'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione, destinata ai nobili della città. Il locale dell'oratorio è diviso da una sorta di arco trionfale che delimita l'area presbiteriale dall'area destinata ai fedeli: su quest'arco nel 2003 sono stati dipinti in due tavolette ovoidali un'immagine dell'Immacolata Concezione e lo stemma dell'arciconfraternita.

L'altare dell'oratorio è opera dello scultore messinese Pietro Barbalonga, al quale si deve la realizzazione delle paraste di ordine ionico e della piccola statua marmorea della Madonna col Bambino (detta "del pane") posta sopra l'architrave: quest'ultima però sarebbe attribuibile anche ad un anonimo artista calabrese del Trecento. Al centro dell'altare è collocata la "Natività di Nostro Signore", pala d'altare marmorea attribuita da Alessandro Tedesco a Pietro Bernini e da Alfonso Frangipane ed Enzo Fera a Rinaldo Bonanno: quel che è certo è che si tratta di un'opera del XVI secolo. Ai lati dell'altare, in due nicchie, è stato collocato il dittico marmoreo dell'Annunciazione di Francesco di Cristofano da Milano, commissionato nel 1491 dai frati.

Presso l'altare si conserva ancora un piccolo frammento dell'antico pavimento dell'oratorio e dell'intero complesso di San Bernardino, in ciottoli di mare bianchi e neri. Sempre sotto l'altare attraverso una botola si accede alla cripta dell'oratorio, che si estende sotto lo stesso per tutta la sua lunghezza. Lungo la navata sono apposti gli stemmi delle famiglie nobiliari amanteote storicamente membri dell'arciconfraternita: nel 2000 le famiglie rappresentate nell'arciconfraternita erano quelle degli Amato, dei Carratelli, dei Cavallo, dei Cavallo Marcello, dei Cavallo Marincola, dei Di Lauro, dei Mileti e dei Mirabelli Centurione.

IL CONVENTO - Il chiostro del convento è a pianta quadrangolare, delimitato per tre lati da arcate ogivali rette da pilastri a sezione quadrangolare in arenaria, e per il quarto verso la chiesa da arcate a tutto sesto su pilastri a sezione circolare di stile aragonese. Lo studioso Alessandro Tedesco nota come gli archivolti posti agli angoli del chiostro siano arricchiti da capitelli con motivi vegetali "di indiscutibile ispirazione classica".

Il convento è stato ristrutturato completamente negli anni novanta, in occasione del ritorno dei minori osservanti nel 1995: nel corso dei lavori, sono venute alla luce numerose testimonianze archeologiche che sono state rese visibili attraverso una copertura a pannelli di vetro sul pavimento del piano terra. Sono venute alla luce infatti murature e una fitta rete di canalizzazioni appartenenti probabilmente all'antico convento preesistente a quello dei Minori Conventuali.  

Chiesa dei Cappuccini o di Santa Maria la Pinta.

La chiesa di Santa Maria la Pinta, comunemente denominata dei Cappuccini, è un luogo di culto cattolico. Accanto alla chiesa sorge la struttura dell'ex convento dei Padri Cappuccini.

Il 13 settembre 1607 il nobile amanteano Rutilio Cavallo fece donazione all'Ordine dei padri cappuccini minori di un terreno posto sulle pendici della collinetta denominata Alimena, perché vi venisse costruito un convento di religiosi cappuccini con annessa chiesa, sotto l'intitolazione di Santa Maria di Porto Salvo. I lavori proseguivano ancora nel 1614,dopo la morte di Rutilio Cavallo: poiché i frati chiedevano continuamente fondi alla famiglia Cavallo per portare a termine la fabbrica, gli eredi si lamentarono asserendo che "i frati volessero costruire un fortilizio e non un convento". Tuttavia la controversia venne sanata, a condizione che presso la chiesa venisse edificata una cappella privata della famiglia Cavallo, compiuta solo nel 1698.

Il convento aveva diciassette celle, abitate nel 1650 da cinque padri cappuccini, quattro laici e un inserviente.

Il convento venne soppresso ai sensi della legge di soppressione degli ordini monastici emanata dal nuovo re di Napoli Gioacchino Murat il 10 gennaio 1811: l'edificio, divenuto di proprietà demaniale e messo in vendita, venne così acquistato nel 1812 proprio dalla famiglia Cavallo.

Dopo la caduta di Napoleone ed il ritorno dei Borboni, presso la chiesa venne costituita la parrocchia di Santa Maria la Pinta e Campana: questi due titoli erano quelli dati all'antica Cattedrale di Amantea, in seguito scomparsa. Nella chiesa si costituì il 2 febbraio 1822 la Confraternita di Maria Santissima Addolorata.

La chiesa, distrutta durante i bombardamenti alleati del 1943, è stata in seguito ricostruita ed oggi è una sede parrocchiale. Nell'adiacente struttura dell'ex-convento sono state ricavate abitazioni private.

Chiesa di Sant'Elia o del Gesù.

La chiesa di Sant'Elia Profeta venne edificata nel cuore dell'antico quartiere di Catocastro, in unione all'adiacente collegio dei Padri Gesuiti (donde le derivò anche il nome di "chiesa del Collegio") come residenza della locale comunità dei padri gesuiti.

I primi religiosi gesuiti arrivarono ad Amantea attorno al 1620, ma abbandonarono la città già nel 1648. Dietro richiesta della comunità locale, tuttavia, nel 1652 i gesuiti fecero ritorno ad Amantea e nel 1663 l'architetto padre Carlo Quercia progettò la chiesa di Sant'Elia, che doveva essere annessa al costruendo collegio. I lavori terminarono nel 1677 e le opere di rifinitura del tempio furono compiute nel 1680.

Dopo la partenza dei religiosi gesuiti nel 1767, la chiesa rimase priva di cure. Attualmente in stato di fatiscenza, contiene alcune opere abbastanza pregevoli come, al centro dell'aula, il pulpito ligneo secentesco con baldacchino, intagliato e decorato.  

La facciata presenta un portale con timpano ad arco spezzato sopra il quale, nell'ordine superiore, si apre un ampio finestrone circondato da cornici curvilinee. La pianta della chiesa è quadrata a navata unica, ma la sua particolarità è la caratteristica cupola "a scodella" sulla crociera, rifatta dopo il crollo del 1690 e chiamata appunto confidenzialmente dagli amanteani 'a gavita.

Chiesa del Carmine o di San Rocco.

La chiesa di Santa Maria del Carmine, anche nota sotto l'invocazione di San Rocco, è un luogo di culto cattolico. Attualmente funziona come la chiesa filiale appartenente alla parrocchia amanteana di san Biagio.

La chiesa venne edificata nel 1685 sul sito di un ipotetico tempio pagano dedicato al Sole, a quanto si potrebbe evincere da un'iscrizione rinvenuta nel luogo. All'esterno, la facciata si presenta con due campanili ai lati, tre portali e una scalinata antistante che conduce su corso Umberto I, la principale passeggiata panoramica della città. Appunto dalla scalinata della chiesa è possibile avere una buona veduta sulla città bassa e sul mar Tirreno.

Ex-chiesa di San Francesco d'Assisi

Probabilmente subito dopo la definitiva riconquista di Amantea da parte dei Bizantini (1031-1032) si installò sulle pendici dell'altura del castello una comunità di religiosi basiliani di rito greco, che fondò la chiesa di San Basilio forse sul sito di un'antica moschea, vestigio della dominazione araba su Amantea. 

Nel dicembre 1121 papa Callisto II, in viaggio verso Reggio Calabria, venne ospitato dai monaci basiliani di Amantea nel loro cenobio. Possiamo supporre che nel corso del XII secolo il cenobio decadde, poiché nel 1216 il beato Piero Catin, compagno di San Francesco d'Assisi, assieme ad altri religiosi, si installò nell'antico cenobio basiliano fondando un convento francescano e l'attigua chiesa di San Francesco d'Assisi.

CATTEDRALE DELLA PINTA O DELLA CAMPANA - L'antica cattedrale di Amantea era denominata "della Pinta" a causa plausibilmente di un antico e venerato dipinto ivi conservato e raffigurante la Madonna. Era situata nella città vecchia, presso il rione Sant'Elia.

CHIESA DI SANTA SOFIA - Antica chiesa non più esistente, attestata in diversi atti risalenti al XV e al XVI secolo.

CHIESA DI SAN PROCOPIO

CHIESA DI SAN NICOLA DEL RIMO - Si presuppone che il toponimo "rimo" sia la corruzione di "eremo", poiché questa chiesa, attestata nel XV secolo, sorgeva lungo il fiume Catocastro ed era probabilmente luogo di eremitaggio.

CHIESA DI SAN NICOLA DELL'OLIVA - Antica grancia benedettina, attestata nel 1151, situata lungo il fiume Oliva presso l'attuale frazione di Campora San Giovanni. Venne in seguito sostituita da una chiesa dedicata a san Giovanni, a cui si deve il toponimo della frazione stessa: questo antico luogo di culto, attestato nel XV secolo, è stato ridotto ad uso di civile abitazione.

CHIESA DI SANTA MARIA DELLA CALCATA - Antica chiesa attigua al convento dei Padri Agostiniani, venne istituita nel 1490 e in seguito chiusa dopo la soppressione del convento annesso.

CONVENTO DEI DOMENICANI - Un convento domenicano sorse ad Amantea nel 1465 e venne chiuso il 24 ottobre 1652.

CAPPELLA FURGIUELE - Dedicata a S. Alfonso de' Liguori, annessa al Palazzo Furgiuele in Via Dogana 64.

CAPPELLA CAVALLO MARINCOLA

Palazzo delle Clarisse

Il seicentesco Palazzo delle Clarisse, che sorge sulla costa tirrenica calabrese, proprio sulla sommità di una rupe un tempo lambita dalle acque del mare, ha una struttura architettonica che si articola su più livelli, seguendo il profilo dello sperone roccioso su cui si distribuiscono i volumi della chiesa, del convento e del chiostro. Dell’antica chiesa, oggi inglobata nel palazzo, rimangono le belle bifore con colonnina tortile, una finestra polilobata e il grande arco santo in pietra, ricoperto di affreschi raffiguranti fiori stilizzati e volute. Gli splendidi terrazzi panoramici della struttura offrono invece una vista mozzafiato sull’Etna e sull’isola di Stromboli.

Ubicato a 400 metri dal lungomare di Amantea, nel Palazzo si entra dal grande portone seicentesco e salendo la principesca scala d’ingresso, dopo aver ammirato il grande arco della Cappella di Santa Chiara, si accede al piano dei ricevimenti – che ha una capienza di 240 invitati – con le sue ampie sale: il salone della Musica, la sala del Marchese, la sala del Vescovo, la sala della Madre Badessa, la sala del Coro, la saletta delle Pleiadi, la sala della Stele Araba. Attraversare le sale di questa antica dimora è come passeggiare nella storia. Gli addobbi floreali, le porcellane, gli specchi, i cristalli e le argenterie contribuiscono alla preziosità dell’ambiente. Dal salone della Musica si può vedere dall’alto il Chiostro di S. Chiara, accedendo direttamente a due delle tre grandi terrazze panoramiche che si affacciano sul mar Tirreno.

All’interno del palazzo si può ammirare una notevole collezione di copie d’autore dei grandi maestri della pittura fiamminga, dell’impressionismo e del Novecento europeo. Il palazzo conserva inoltre, importanti opere d’arte, fra cui una stele funeraria araba dell'XI secolo, una statua lignea del XVII secolo raffigurante S. Chiara, e vari stemmi nobiliari in pietra.

Il Palazzo in origine era il Convento dell'Ordine religioso delle Clarisse Francescane. Al suo interno conducevano vita di clausura le figlie nubili delle famiglie patrizie, destinate alla vita conventuale dai loro genitori per evitare il frazionamento ereditario del patrimonio. La struttura evidenzia un corpo di fabbrica tozzo, allungato verso il mare e al quale si collega una piccola chiesetta. Il complesso monastico fu edificato nel 1620, nel luogo dove sorgeva il Palazzo Folleri, acquistato dalle suore nel 1618, poiché il vecchio convento del quartiere la Pinta, aperto nel 1603, risultava inadeguato alle necessità delle religiose, a causa delle piccole dimensioni e dell’eccessiva vicinanza di case private.

La conquista napoleonica portò alla soppressione del convento nel 1810 e l’immobile, confiscato assieme ad altri beni ecclesiastici, fu messo in vendita dal governo e successivamente acquistato da Carlo De Luca dei Marchesi di Lizzano, nel 1812. Il Marchese de Luca di Lizzano ne fece la sua residenza nobiliare. La nuova trasformazione ad abitazione privata determinò numerose modifiche strutturali, fra cui la trasformazione della chiesa, con l’inserimento di uno scalone principesco al suo interno e la chiusura di molte finestre e bifore. Il chiostro, invece, fu trasformato in orto e le sue arcate vennero murate. I Marchesi De Luca vissero nel palazzo fino al 1977. Successivamente a un periodo di abbandono e grave degrado, il palazzo fu acquistato e restaurato dall’attuale proprietario, Fausto Perri.

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