Amantea,
splendido borgo calabrese non troppo distante da Cosenza e Catanzaro,
ad appena una manciata di chilometri dall’altrettanto nevralgica città di Paola,
è uno dei più bei gioielli della costa tirrenica.
Rinomata
località balneare della costa tirrenica, Amantea è ricca di tradizioni
culturali, manifestazioni, opere e monumenti di interesse storico artistico.
Il territorio
del comune di Amantea si estende su una superficie 29,46 km2 in
direzione nord-sud parallelamente al mar
Tirreno e presenta un profilo altimetrico compreso tra 0 e 439 metri
sul livello del mare. I confini naturali del comune di Amantea sono delimitati a
nord con Belmonte
Calabro, a ovest dal mar
Tirreno, a sud con Nocera
Terinese in provincia
di Catanzaro dal fiume
Savuto, e infine a est da alcune cime della Catena
Costiera con i comuni di Cleto, Serra
d'Aiello e con l'ex-frazione di San
Pietro in Amantea.
Nel Medioevo,
era territorio amanteano anche il comune di Belmonte
Calabro con le sue frazioni: la giurisdizione della Comunità di
Amantea sul solo castello di Belmonte decadde solo con la fondazione del
castello stesso, nel 1270 circa,
su ordine di Carlo
I d'Angiò per punire una ribellione degli abitanti di Amantea. In
seguito, nel 1345 la
Comunità di Amantea fece ricorso alla regina Giovanna
I di Napoli perché sanzionasse il feudatario di Belmonte Pietro
Salvacossa che si era appropriato di alcuni territori amanteani: con un decreto
regionale del 27 maggio la regina delimitò quindi i confini amanteani per la
prima volta. Fu solo nel 1811,
in età napoleonica, che venne sancita de iure la divisione tra i
territori di Belmonte e Amantea, che fino ad allora era esistita de facto.
Dal luglio 1937 l'ex-frazione
di San Pietro in
Amantea ottenne l'autonomia amministrativa che conserva: il comune
di Amantea perse così un territorio montuoso di 10 km2 che andò a
costituire il nuovo comune.
Il territorio
amanteano è solcato da diversi fiumi o torrenti provenienti dalla Catena
Costiera dell'entroterra: tutti sono a carattere torrentizio.
Possono dunque raggiungere anche una grande portata d'acqua in inverno ma in
estate appaiono inesorabilmente in secca, salvo non ci siano grandi piogge che
provocano spesso piene improvvise
e dannose, oltre che pericolosissime.
I corsi d'acqua
sono dunque, partendo da nord in direzione sud spostandosi lungo la statale
tirrenica:
Fiume
Catocastro, corso d'acqua originato da Monte
Cocuzzo (1541 ms.l.m.)
che scende per circa nove chilometri scavando una vallata attraverso il comune
di Lago.
Scorre parallelamente alla Strada Provinciale 278 Cosenza-Amantea.
Torrente
Santa Maria, corso d'acqua a carattere torrentizio che attraversando la
parte bassa della città con la sua foce delimita il Lungomare.
Torrente
Calcato.
Torrente
Colongi, corso d'acqua che scorre delimitando il limite meridionale estremo
dell'abitato di Amantea. Conosciuto per le sconcertanti imprese di Marylou
Ianni, sulla cui vita sarà girato un film burlesco.
Fiume
Oliva, nasce sul monte
Scudiero sulla Catena Costiera nei pressi di Potame. Sfocia, dopo 18 km,
nel Mar Tirreno nella omonima frazione (Oliva) poco più a nord di Campora San
Giovanni.
Torrente
Rubano.
Torrente
Torbido che delimita il confine tra la provincia di Cosenza e Catanzaro.
Nella località
di Campora San Giovanni, frazione di Amantea, andrebbe localizzata l'antica Temesa,
mentre Clampetia sarebbe
collocabile nella piana di Amantea, l'unico sinus della costa tirrenica
cosentina.
I greci
bizantini, quando conquistarono la Calabria, fondarono nell'area
dell'attuale Amantea vecchia una cittadella fortificata chiamata Nepetia (Νεπετία).
Nepetia fu
conquistata dagli arabi nel
IX secolo, che la costituirono capitale di emirato e la ribattezzarono
Al-Mantiah.
Quando, nell'885, Niceforo
Foca riconquistò la città, rimase il nome di Amantea.
La cittadina fu
elevata a sede
vescovile finché non venne accorpata, sul finire dell'XI
secolo, alla diocesi
di Tropea.
Fu tra le
ultime roccaforti ribelli durante le sommosse del 1267-69 dovute
alla discesa di Corradino
di Svevia nel sud Italia contro il dominio di Carlo
I d'Angiò, stabilitosi nel regno pochi anni prima dopo aver sconfitto e
ucciso in battaglia a
Benevento re Manfredi.
All'inizio
dell'epoca moderna ebbe una zecca allestita da Francesco de Lauro, importante
magistrato del Regno e signore di alcune terre calabresi.
Amantea non fu
mai infeudata, se non per un breve e travagliato periodo alla metà del XVII
secolo. La cittadina mantenne sempre lo status di città
demaniale, con istituzioni proprie.
Come riporta Lorenzo
Giustiniani nel suo Dizionario geografico-ragionato del Regno
di Napoli, alla fine del XVIII
secolo, la popolazione di Amantea ammontava a 2187 abitanti e si occupava
principalmente di sericoltura,
essendo il territorio circostante ricco di gelsi,
utilizzati per l'allevamento di bachi
da seta.
Amantea subirà
l'occupazione francese prima nel 1799, poi nel 1807, la seconda volta dopo
strenua resistenza agli invasori d'Oltralpe.
Amantea
divenne, nel 1861,
un comune del Regno d'Italia, dotata di molti uffici pubblici e scuole che ne
hanno fatto il punto di riferimento del retrostante entroterra. Il 20 febbraio 1943 un
bombardamento alleato colpì il Palazzo Del Giudice, sulla Via Indipendenza in
prossimità della Chiesa di San Biagio. Una lapide sui ruderi ricorda le 26
vittime tra cui molti bambini. Nel dopoguerra Amantea ha conosciuto una forte
espansione che l'ha portata fino a raggiungere il mare, facendone una nota
località balneare e turistica. Pochi anni fa è stato inaugurato il porto
turistico di Campora
San Giovanni.
Monumenti
e luoghi d'interesse
La città si
presenta con una parte alta che ospita l'antico centro abitato arroccato su un
colle roccioso e una parte bassa adagiata lungo la costa. Particolarmente
suggestivi sono i vicoli e le stradine del borgo antico e passeggiando per le
vie del centro storico si può notare il forte contrasto esistente tra i
maestosi palazzi della nobiltà e le umili abitazioni del popolo. Amantea
possiede tre anime, ciascuna delle quali ha un’identità forte e ben radicata.
Il centro storico abbarbicato sulla rupe del castello; la zona
pianeggiante, che trova nel Viale Margherita il suo principale
punto di forza; infine, la Marina, che si sviluppa attorno al lungomare e
a ridosso delle incantevoli spiagge, vanto e orgoglio degli amanteani.
La città vecchia regala ai visitatori l’atmosfera propria di quei borghi
incantati di una volta. Si snoda in mezzo a case ottocentesche e giardini affascinanti,
lungo un percorso di vicoli e stradine acciottolate che favoriscono le
passeggiate. Dall’alto il panorama è assolutamente incredibile e abbraccia in
uno sguardo l’arco in pietra che affaccia sui tetti spioventi delle case poste
ai piedi della rupe e l’orizzonte del Tirreno maestoso ed immenso.
La zona
pianeggiante è quella più commerciale e maggiormente popolata, una città
in miniatura vivace e ricca di servizi che è cosa assai rara lungo le coste
calabresi. Sebbene questa zona sia più moderna rispetto al centro storico, il
corso passa in mezzo a splendide case antiche con le ringhiere in
ferro battuto e i comignoli che svettano nel cielo. Lungo il percorso che
conduce a Piazza Commercio sono soliti esporre le proprie opere gli artisti
autoctoni, sempre impegnati a rendere immortali sulle loro tele il castello, i
vicoli e le spiagge di questo borgo così autentico. Durante l’estate il lungomare
di Amantea è un continuo viavai di turisti. Nel corso del tempo la zona
della Marina si è evoluta sino a diventare la vera attrazione di Amantea. Le
spiagge non hanno nulla da invidiare a quelle di località ben più blasonate,
mentre i locali disseminati sul lungomare della strada contribuiscono a
vivacizzare la movida notturna. Qualche anno fa è stato inaugurato il porto
turistico di Campora San Giovanni, punto di partenza dei battelli per le isole
Eolie e ottima idea per escursioni di grande fascino.
Castello
ll castello
di Amantea (già Regio castello di Amantea) è situato nel basso
Tirreno cosentino. A dominio della strada costiera e della via per
Cosenza che corre lungo la valle del fiume Catocastro,
fu in passato un'importante piazzaforte sotto i bizantini,
gli arabi,
i normanni,
gli svevi,
gli angioini e
gli aragonesi.
Fu risistemato nel periodo viceregnale e
sotto i Borbone,
ma subì gravi danni durante i terremoti
del 1638 e del
1783; fu lasciato in stato abbandono dopo il disastroso assedio
del 1806-1807 subito da parte delle truppe
napoleoniche.
Attualmente il
castello è in rovina, e l'accesso ai resti sul colle che domina la città
risulta faticoso e pericoloso . Nel 2008, la proprietà dell'area circostante è
stata acquistata dal Comune di Amantea.
In età antica
in territorio amanteota sorgeva la città di Lampeteia o Clampetia,
probabile colonia crotoniate abitata
anche da elementi indigeni bruzi.
Questa città, già decadente in età imperiale, fu spazzata via dal terremoto e maremoto del
365: nelle sue vicinanze sorse una nuova città, Nepetia ("nuova città"
o "nuovo accampamento" in greco). Nepetia
fu occupata dai bizantini e
dopo il 553 fu sede di un governatorato militare e di una piazzaforte sui
confini settentrionali del thema di
Calabria.
Furono dunque i
bizantini i primi a fortificare il sito dell'attuale Amantea: tuttavia, il nome
attuale venne alla città dalla dominazione araba. Nell'846 infatti Nepetia venne
conquistata dagli arabi
di Sicilia e ribattezzata "Al-Mantiah", "la
rocca". Amantea rimase araba per quarant'anni, e fu sede di un emirato:
conosciamo il nome di un solo emiro, As-Sinsim latinizzato in Cincimo, che
nell'868 si spinse fino a tentare la conquista di Cosenza.
I bizantini riconquistarono la città nell'anno 272 dell'Egira,
ossia l'885-886. Amantea divenne sede
vescovile, e nel X
secolo inglobò nella sua diocesi il territorio della sede vescovile
dell'ormai decaduta città di Temesa.
L'emiro di
Sicilia Abu
l-Qasim Ali riconquistò Amantea nel 976, e fu di nuovo sotto la
dominazione araba fino al 1031-1032, quando fu di nuovo occupata dai bizantini.
I Normanni conquistarono
Amantea nel 1060-1061, scacciandone una volta per tutte i bizantini. Nel 1094 la
diocesi di Amantea venne aggregata a quella di Tropea,
nel quadro della latinizzazione dei culti nell'Italia
meridionale voluta dal papato e dai sovrani normanni. Durante
la dominazione normanna Amantea decadde, rimpiazzata come importante centro di
controllo del territorio dalla vicina Aiello
Calabro.
Sotto la
dominazione sveva il
castello venne rafforzato, nell'ambito del piano del ripopolamento delle zone
costiere voluto da Federico II. In virtù del buon governo svevo, Amantea ed
altri castelli della zona (Aiello, Cleto)
resistettero tenacemente al nuovo sovrano di origine francese Carlo
I d'Angiò: questi inviò il conte di Catanzaro Pietro Ruffo a
riconquistare la città, che resistette alle preponderanti forze angioine per
tutto il mese di maggio del 1269, prima di capitolare alla metà di giugno di
quello stesso anno. I ribelli furono quasi tutti puniti atrocemente.
Per tenere a
bada eventuali future rivolte, gli angioini edificarono in territorio amanteota
il castello di
Belmonte Calabro, nucleo attorno a cui si sarebbe sviluppato l'omonimo
paese.
Amantea fu al
centro delle vicende della cosiddetta "guerra dei novant'anni" tra Angiò ed Aragona per
il possesso del Regno di Napoli e Sicilia, seguita al casus
belli dei Vespri
siciliani. La popolazione amanteota era di tendenza aragonese; il
castello, difeso da duecento uomini e ben provvisto di viveri dai castellani di
fede angioina, fu assediato dalla flotta e dall'esercito aragonese nel 1288, e
capitolò a patti onorevoli. Il castello tornò agli Angiò in forza della pace
di Caltabellotta del 1302: dopo un periodo di ritorsioni contro gli
amanteoti per la loro fede aragonese, la città ottenne dagli ultimi sovrani
angioini-durazzeschi importanti esenzioni e privilegi che portarono un aumento
di popolazione.
Nel 1391 Ladislao
I di Napoli infeudò Amantea al doge
di GenovaAntoniotto
Adorno, a titolo di restituzione dei prestiti concessogli da questi. Ad
ogni modo, nel 1425 Luigi
III d'Angiò decretò Amantea ed il suo castello possessi
inalienabili del regio
demanio. Renato
d'Angiò ciò nonostante concesse nuovamente il feudo a Margherita
di Poitiers, seconda moglie del marchese di Catanzaro Niccolò Ruffo, e nel
1458, alla morte di Alfonso
I d'Aragona, primo sovrano aragonese di Napoli e Sicilia, gli amanteoti
insorsero contro l'infeudamento, schierandosi con il pretendente angioino al
trono napoletano, Giovanni
d'Angiò.
Alla fine il re Ferrante
d'Aragona spostò la feudataria Margherita di Poitiers da Amantea a
Rende, e la rivolta rientrò, ma Amantea fu l'ultimo dei castelli calabresi a
tornare sotto il controllo aragonese.
Amantea rischiò
di essere infeudata anche nel Seicento, in due occasioni, a causa della costante
miseria delle casse viceregnali: la prima con il principe della vicina Belmonte
Giovanni Battista Ravaschieri nel 1630-1633, la seconda con il granduca
di Toscana Ferdinando II de' Medici nel 1647. In entrambe le
occasioni la popolazione difese con orgoglio il proprio stato di città
demaniale, muovendosi persino presso la corte di Madrid.
Sotto gli
aragonesi, la castellania venne affidata alla famiglia
Carafa, duchi di Maddaloni. Nel
1489 il castello fu visitato da Alfonso
II di Napoli, in viaggio di ispezione per i castelli del suo regno: il
sovrano fu accolto dal castellano Giovanni Tommaso Carafa, e visitò la chiesa
ed il convento di San Bernardino da Siena. Durante la breve
parentesi dell'occupazione di Carlo
VIII di Francia (1496-1498) il castellano Giovanni Tommaso Carafa dovette
schierarsi con i francesi, ma la popolazione inviò una delegazione ad omaggiare
il sovrano aragonese spodestato Ferrante d'Aragona rifugiatosi ad Ischia. Alla
fine della dinastia aragonese, scoppiò una guerra tra Francia e Spagna per il
possesso dei territori dell'Italia meridionale; Amantea parteggiò per gli
spagnoli: nel 1504 durante la guerra 85 spagnoli capitanati da Gomez de Solis
sbarcarono sulle spiagge amanteote, spingendosi nell'entroterra per dare aiuto
alla guarnigione spagnola di Cosenza assediata dai francesi. Alla fine la
guerra fu vinta dal "re cattolico" Ferdinando
II d'Aragona, e Napoli diventò un vicereame
spagnolo.
Nel 1536 Juan
Sarmiento, inviato da Carlo
V d'Asburgo a controllare lo stato delle fortificazioni del
Viceregno, riportava che il castello, secondo le parole dello storico locale
Gabriele Turchi, era "inidoneo anche come ricovero di ladroni". Perciò
tra il 1538 ed il 1544 al castello lavorarono gli architetti Giovanni Maria
Buzzacarino (attivo anche al castello
di Crotone) e Gian
Giacomo dell'Acaya (progettista del borgo fortificato di Acaya in Puglia). Fu
realizzato in questa fase il grande baluardo meridionale a
scarpa.
Ciò
nonostante, il castello è già sulla via dell'abbandono. Nel 1611, in una
relazione sui castelli del Viceregno, viene riportato che: «Il Castello di
Amantea si trova in alto su di un monte ed alle sue falde c'è la città che
guarda il mare, non ha porto né altra cosa di rilievo e così tutti i risparmi
di spesa che si potranno fare saranno ben giustificati»
Il terremoto
del 1638 arrecherà gravi danni alle strutture del castello. Nuovi
restauri saranno svolti nel 1694, per la spesa di 365 ducati; nel 1757 (già
in epoca borbonica, su ordine di Carlo
III di Borbone), per la spesa di 136 ducati; nel 1766, sotto la
direzione dell'ingegnere militare Giovanni Galenza: questi ultimi lavori furono
vanificati da un terremoto nel 1767. Ulteriori danni, e maggiori, furono
quelli provocati dal devastante terremoto
del 1783. Per riparare questi ultimi gravi danni, nel 1786 arrivò da
Napoli l'ingegnere militare Andrea Depuis, che diresse i lavori per
l'importo di 390 ducati.
Durante i fatti
della Repubblica
Napoletana (1799), Amantea si consegnò spontaneamente ai giacobini: la
popolazione di fatto disarmò la guarnigione del castello, e piantò l'albero
della libertà, guidata da Ridolfo Mirabelli, capo della piazza nel breve
periodo rivoluzionario. Infatti dopo neppure un mese sopraggiunsero i sanfedisti guidati
dal cardinale Fabrizio
Ruffo, che vennero rapidamente a capo del tentativo di resistenza
giacobino.
Fu invece con
l'invasione napoleonica che il castello di Amantea ebbe il suo ultimo momento di
gloria. Amantea fu occupata il 12 marzo 1806 da un distaccamento di 200 volteggiatoripolacchi,
che rimasero asserragliati nel castello fino alla notizia della sconfitta
francese nella battaglia
di Maida (4 luglio 1806). Allora si ritirarono verso Cosenza,
lasciando la piazza ad una flotta anglo-borbonica che da giorni era all'ancora
al largo di Amantea. All'interno delle mura cittadine i "capimassa"
borbonici iniziarono ad organizzare la resistenza all'imminente contrattacco in
forze dei francesi, analogamente a quanto si stava facendo nei paesi vicini. In
quelle settimane all'interno dei paesi calabresi furono perpetuati delitti e
violenze contro giacobini o presunti tali, spesso solo nemici personali dei
borbonici al comando in quel momento.
Ad ogni modo,
l'attacco francese principale iniziò il 5 dicembre 1806: le forze assedianti
ammontavano a 5000 uomini con un reparto d'artiglieria comandati dai generali Guillaume
Philibert Duhesme, Jean
Reynier, Jean-Antoine
Verdier e dal tenente colonnello di origine amanteota Luigi Amato. I
borbonici assediati ammontavano a qualche centinaio, dotati di 12 bocche da
fuoco in tutto, e capitanati da Ridolfo Mirabelli, che alla fine dell'assedio
sarà decorato con il grado di tenente colonnello dal re Ferdinando
IV di Borbone. La piazza di Amantea resistette strenuamente fino al 7
febbraio 1807, quando Mirabelli e Reynier firmarono una capitolazione onorevole.
Dopo l'Unità
d'Italia (1861),
l'area del castello venne assegnata dal demanio
militare al 5º
Corpo d'Armata, ed in seguito ad un ente assistenziale napoletano. Negli anni
settanta, con il progressivo ridimensionamento di questi enti in vista
del loro scioglimento (stava nascendo il Servizio
Sanitario Nazionale affidato alle regioni,
legge quadro n° 883 del dicembre 1978), l'area fu messa in vendita. Così il
castello nel 1974 fu acquistato dalla famiglia Folino.
Il castello
occupa un plateaux con
bella visuale sia sul piccolo golfo del fiume
Oliva sul mar
Tirreno (e nei giorni di tramontana è possibile vedere addirittura
l'isola di Stromboli e Pizzo),
sia sulla valle del fiume
Catocastro, inoltrandosi attraverso la quale si arriva a Cosenza lungo
l'antico tracciato della via
Popilia.
Probabilmente
fu in età normanna e sveva che venne fortificata pesantemente la parte
meridionale del colle, decentrata rispetto all'abitato ma rivolta verso gli
obiettivi che interessava tenere sotto controllo in quell'epoca, ossia le vie di
comunicazione tra la costa e l'interno.
La torre
mastiaovoidale rivolta
a nord-ovest, detta di San Nicola, fu realizzata in età angioina, a
giudicare dallo stemma recante i gigli di Francia che vi rimane sopra; e
pure in età angioina, pare sotto il regno di Giovanna
I d'Angiò, fu costruita la torre circolare con vista mare, isolata dal
complesso propriamente fortificato. Questa torre è simile per tecnica
costruttiva a quella del castello di Paola.
In età
aragonese il castello fu riammodernato secondo i dettami di Francesco
di Giorgio Martini e della "fortificazione
alla moderna", per resistere ai colpi delle nuove armi
da fuoco: le mura furono abbassate ma rinforzate in spessore, fu
costruito un rivellino d'accesso
sul lato orientale (oggi completamente crollato) e realizzato uno spalto che
precedeva il fossato in
tutta la sua lunghezza. Il castello fu bastionato, come già detto, nel
1538-1544, a cura di architetti conosciuti come il Buzzacarrino e Gian
Giacomo dell'Acaya: oggi è quasi interamente conservato il grande
bastione rivolto a sud, a
scarpa con rodendone, poggiante sulla viva roccia della rupe, già
di per sé formidabile difesa.
Oggi restano
davvero pochi avanzi degli ambienti interni del castello, perciò è possibile
saperne qualcosa di più solo scorrendo le planimetrie e le vedute
settecentesche. Il castello aveva un perimetro quadrangolare, svolto
intorno alla piazza d'armi, sotto la quale si trovavano tre cisterne per la
raccolta delle acque piovane. Gli alloggiamenti del castellano e degli ufficiali
erano disposti lungo il lato meridionale, comunicanti con il bastione
cinquecentesco; i soldati con famiglia erano alloggiati nel lato occidentale,
mentre gli altri alloggiavano nel lato settentrionale, dove si trovava anche
l'armeria. Lungo il lato orientale si trovavano le carceri e la cappella. La
polveriera era situata anch'essa sul lato orientale, presso l'ingresso
principale. Erano stati previsti tre grandi locali per le artiglierie: uno nel
bastione meridionale, uno all'angolo verso sud-ovest rivolto verso il quartiere
Paraporto, l'altro presso la torre mastia all'angolo nord-ovest.
Questo grande
quadrilatero era tutto circondato da un fossato, già invaso da erbacce nel
Settecento, ed ancora oggi esistente: in particolare, rimane la parte in
muratura dell'accesso secondario al castello, sul lato settentrionale. Il ponte
levatoio è andato distrutto. Oltre il fossato, il resto dell'altopiano era
circondato da un muretto diroccato già nel Settecento, che formava una sorta di
"cittadella" o "avanzata" concepita per intrappolare il
nemico che fosse riuscito a penetrarvi (struttura analoga a quella del vicino castello
di Aiello Calabro). Ad occidente dell'altopiano sorge la torre
angioina, la parte forse meglio conservata del castello e la più visibile dalla
città moderna, sviluppatasi verso il mare.
Al castello
attualmente (2011) è possibile salire da almeno quattro sentieri, piuttosto
difficoltosi: uno parte dalla Strada Tirrena poco prima della confluenza con
corso Umberto I, un altro incomincia a destra della chiesa
del Carmine in corso Umberto I, un terzo (Salita San Francesco) si
sviluppa dall'antica porta urbica fino a toccare anche le rovine del complesso
francescano sottostanti la torre angioina, un quarto infine parte dalla chiesa
del Collegio (a cui sono annesse le imponenti rovine
dell'ex-collegio gesuitico).
Nel 1288 il
presidio del castello era composto da 200 uomini, di cui 100 balestrieri; nel 1559,
in periodo viceregnale, era sceso a 4 soldati ed 1 castellano; nel 1584 il
presidio assommava a 6 posti inclusi un castellano e degli ufficiali; nel 1611 a
5 posti inclusi un castellano e degli ufficiali.
In quello
stesso anno l'armamento del castello era composto da 2 "sacrograndi",
1 "mezzo sacro", 1 falconetto,
19 "smerigli". Sette anni dopo, nel 1618, il castello contava 10 cannoni
di bronzo "scalnaccati e rotti". Nel 1619 furono
inventariati 54 archibugi,
22 barili di polvere
da sparo, 10 quintali di piombo, 98 palle di piombo da undici libbre, 30
palle di piombo di sei libbre, 47 palle di piombo di due libbre, 321 palle di
piombo da otto once, 250 palle di piombo piccole, 50 palle per moschetti,
un cassone con corazze, armi e bracciali di ferro "arruzzati", 11
barili di zolfo e
2 di salnitro,
un monte di palle di pietra, una mazza di ferro; nel 1624 54 archibugi, 43
fiasche da polvere da sparo, 22 barili di polvere, 2 "sacrograndi" (cannoni),
1 falconetto,
palle da cannone di grande e medio calibro, 11 barili di zolfo e 10 di salnitro,
una mazza ferrata. Nel 1806, infine, durante l'assedio
di Amantea, il castello e l'abitato furono difesi da 3 cannoni di grosso
calibro più 9 di minor calibro dislocati sulle mura e sulle porte cittadine.
Collegiata
di San Biagio o chiesa matrice
La collegiata
di San Biagio, meglio conosciuta come duomo o chiesa matrice, è
il principale luogo di culto cattolico della
città di Amantea.
La
chiesa, situata nella località denominata "Pantalia", sorge nel sito
occupato anticamente dalla chiesa di rito
greco di San Pantaleo.
Dopo la conquista normanna della Calabria e la progressiva latinizzazione degli antichi territori bizantini, la
chiesa di San Pantaleo venne ridotta al grado di cappella e dedicata ai santi
Pietro e Paolo.
Nel
corso del XII secolo poi
fu costruita, in prossimità del luogo dell'attuale chiesa matrice, una chiesa
parrocchiale di rito latino dedicata a san Biagio, che si avviò a divenire il
luogo di culto più importante della città: nel 1609 infatti
il parroco di San Biagio ottenne il titolo di arciprete.
Probabilmente dopo il terremoto del 1638 la chiesa subì gravi danni strutturali che ne comportarono
l'abbandono e la distruzione.
Nel 1677 monsignor Giovan Battista Di Lauro, membro di una potente famiglia
amanteana, ampliò la vecchia cappella dei Santi Pietro e Paolo, dedicandola
alla Madonna del Suffragio, volgarmente denominata dal popolo dei Morti o delle
Anime del purgatorio. Vista l'inadeguatezza dell'antica parrocchiale di San
Biagio, il vescovo di Tropea monsignor
Luigi Morales ordinò che il titolo dell'arcipretura di San Biagio venisse
portato nella nuova cappella della Madonna del Suffragio, che in seguito ad
ulteriori lavori di sistemazione assunse l'attuale aspetto della chiesa matrice.
Chiesa
di San Bernardino da Siena
La chiesa
di San Bernardino da Siena è situata a 34 metri sul livello del mare,
nell'omonima via della cittadina tirrenica.
La chiesa,
risalente alla prima metà del Quattrocento e
dichiarata monumento
nazionale, è affiancata da
un altro luogo di culto più piccolo un tempo sede dell'arciconfraternita dell'Immacolata
Concezione, l'oratorio dei Nobili, e dal convento dei frati
minori osservanti, fondato nel 1436 e
nuovamente occupato dai frati a partire dal 1995,
dopo la loro ultima partenza dall'edificio avvenuta nel 1861.
La
fondazione del convento amanteota dei frati
minori osservanti in contrada Rota fu
autorizzata da papa
Eugenio IV con il Breve
apostolico dato
in Bologna il
24 settembre 1436: probabilmente
il papa si interessò della questione, di carattere meramente locale, grazie
all'intervento del suo cameriere privato, il nobile amanteota Giovanni Cozza. I
minori osservanti si erano già installati in altre località della Calabria,
dove l'ordine era stato portato dal beato Tommaso
Bellacci da Firenze: a Tropea e Cosenza nel 1421,
a Mesoraca nel 1428,
a Reggio Calabria nel 1431,
a Cinquefrondi nello
stesso 1436 di Amantea.
In
tutti questi casi, i minori osservanti avevano occupato luoghi di culto
abbandonati da altri ordini religiosi: ciò avvenne probabilmente anche ad
Amantea. Infatti il Breve apostolico firmato da Eugenio IV parla, come
notato dallo studioso Francesco Samà, di
una "licentia acceptandi" ("permesso di accettare") il
convento, ovvero un convento probabilmente già esisteva e non bisognava
costruirlo, poiché l'Università ed
i cittadini di Amantea avevano offerto quei locali abbandonati agli osservanti.
Inoltre, la vecchia campana della chiesa, conservata attualmente nel chiostro
del convento, riporta un'iscrizione che data la prima fusione della stessa al 1404. Infine,
lo studioso Alessandro Tedesco ha individuato in un atto notarile riguardante la
realizzazione del dittico marmoreo per l'oratorio dei Nobili, datato 1491,
la testimonianza che circa sessant'anni dopo l'installazione degli osservanti
nel convento e la conseguente intitolazione della chiesa a san
Bernardino da Siena, la popolazione continuava a chiamare la chiesa con l'antica denominazione
di "monasterium Sancti Francisci de Amantea". Da
tutto ciò, si deduce che i primi occupanti del convento erano stati alcuni frati
minori conventuali che
avevano abbandonato il convento francescano sito nel quartiere Catocastro ai
piedi del castello di
Amantea presso la chiesa
di San Francesco d'Assisi,
oggi in rovina.
Nel
Quattrocento il convento fu oggetto di alcune visite illustri: infatti
vi soggiornarono san
Francesco di Paola, il minore osservante cosentino padre Antonio Scozzetta, morto ad Amantea
in odor di santità, il vicario generale dei minori osservanti Pietro di Napoli
ed il duca di CalabriaAlfonso
II di Napoli.
Nel 1581 venne
fondata l'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione, una confraternita riservata ai soli nobili della città: i
ceti più bassi ed i marinai, invece, si radunavano nella confraternita del
Santissimo Rosario. L'arciconfraternita
dell'Immacolata Concezione scelse come propria sede la chiesa di San Bernardino,
ed a partire dal 1592 iniziò
la costruzione dell'oratorio dei Nobili. Questo
oratorio fu realizzato nel sito della cappella di giuspatronato della
famiglia Cavallo, di recente imparentatasi con un'altra nobile famiglia
amanteota, i Baldacchini, attraverso il matrimonio tra Giacomo Cavallo e
Prudenza Baldacchini: furono
proprio questi coniugi a commissionare, nel 1608,
il proprio sepolcro da collocare nell'oratorio allo scultore messinese Pietro
Barbalonga. Il
Barbalonga fu richiamato all'oratorio dei Nobili nel 1619,
quando il primo rettore dell'arciconfraternita, il nobile amanteota Fabrizio
Mirabelli, gli commissionò il sepolcro di famiglia.
Il terremoto
del 1638 danneggiò
gravemente la chiesa, determinando il crollo del campanile, che
fu in seguito a più riprese ricostruito e danneggiato da altri terremoti. Dopo
la peste del 1656,
l'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione intraprese nuovi lavori
nell'oratorio dei Nobili, ed i minori osservanti incominciarono a vendere lo
spazio per singole sepolture o fosse familiari sotto il pavimento della chiesa,
allo scopo evidente di "fare cassa" per il mantenimento del convento. Tra
gli altri personaggi che furono sepolti nella chiesa ci furono il governatore di
Amantea Giacinto Santucci, i castellani Antonio Spiriti, Pasquale Gabriele,
Giuseppe Poerio, il soldato Casimiro Belluomo, il medico Ignazio de Fazio ed i
suoi eredi e successori (dietro pagamento di un canone annuo di 10 carlini come
stabilito nel 1672),
il sacerdote Giovanni Battista Posa (dietro pagamento di 8 ducati come
stabilito nel 1676),
il nobile amanteota vescovo
di Termoli Antonio
Mirabelli.
Il terremoto
del 1783 danneggiò
gravemente la chiesa facendo crollare il campanile, ricostruito dopo il
precedente sisma del 1638, e parte del portico d'ingresso.
Durante
l'assedio di Amantea del 1806-1807 ad
opera dell'esercito francese comandato dai generali Guillaume
Philibert Duhesme, Jean Reynier e Jean
Antoine Verdier, gli
assedianti si accamparono presso San Bernardino, sito
fuori le mura cittadine, bombardando da questa piazza il castello
di Amantea, che capitolò
solo il 7 febbraio 1807,
dopo due mesi di assedio.
Il
convento, saccheggiato dai soldati francesi e svuotato dei frati, fu chiuso
ufficialmente il 7 agosto 1809,
dopo l'approvazione delle leggi
eversive dei beni ecclesiastici nel Regno
di Napoli. La
proprietà dell'immobile passò al demanio,
che affittò la chiesa ed il convento al nobile amanteota Giulio Sacchi il 5
settembre 1812,
dietro pagamento del canone annuo di 42.97 ducati (ma il valore stimato del
complesso ammontava a quasi 5000 ducati). Il
Sacchi trasformò il convento nel proprio palazzo anche se ben presto, dopo la
sconfitta di Napoleone
Bonaparte, il congresso
di Vienna, la fucilazione di Gioacchino
Murat a Pizzo
Calabro il 13 ottobre
1815 ed il ritorno di Ferdinando
II di Borbone a Napoli,
i frati minori
osservanti tornarono in possesso del convento, ma solo per cedere la proprietà
dello stabile e della chiesa alla diocesi
di Tropea, che chiamò ad
occuparlo la Congregazione
del Santissimo Redentore,
comunemente chiamata dei "redentoristi" o "liguorini":
questi occuparono il convento l'11 febbraio 1833.
I
"liguorini" non furono ben accetti dalla popolazione amanteota, anche
perché non erano in condizione di abitare stabilmente il convento, anche perché
l'edificio era ormai in via di crollo: nel 1843 iniziò
addirittura una controversia tra i religiosi ed il Decurionato di Amantea in
merito ad un corso d'acqua a carattere torrentizio che, a causa
dell'inadempienza dell'amministrazione, aveva invaso le terre dei religiosi. Così
già nel 1842 l'arciconfraternita
dell'Immacolata Concezione manifestò il desiderio di acquistare il convento per
destinarlo nuovamente a residenza dei frati minori osservanti, desiderio messo
in atto solo nel 1847: del
resto già gli stessi "liguorini" nel 1845 convennero
che era meglio riaprire il convento dei minori osservanti, data
la loro impossibilità a presidiare il convento ed il danno che ne riceveva la
comunità cristiana amanteota.
Nel 1851-1852 erano
stati eseguiti dall'arciconfraternita alcuni necessari lavori di restauro alla
chiesa, per un costo totale di 1366 ducati, e
nel 1854 alcuni
locali del convento furono affittati a famiglie private, mentre gran parte del
fabbricato rimaneva in restauro. Nell'Ottocento venne anche costruito un
auditorium sopra la navata sinistra, ad
uso di sala di riunione e luogo di concerti. Ferdinando
II di Borbone autorizzò
la riapertura del convento dei frati minori osservanti il 10 agosto 1855, ed
il 7 novembre di quello stesso anno venne siglato l'atto notarile che prevedeva
che l'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione versasse per l'affitto del
convento e della chiesa 25 ducati ai "liguorini" e che gli osservanti
versassero la stessa somma all'arciconfraternita.
Il
convento venne definitivamente chiuso dopo l'Unità
d'Italia in conseguenza
del regio decreto
legge eversivo dei beni
ecclesiastici emanato il 12 febbraio 1861. Sebbene
nel 1862 il prefetto di Cosenza avesse
autorizzato i frati a rientrare a San Bernardino, essi non accolsero l'invito, probabilmente
per scarsezza di individui, come era accaduto anche in altri conventi della
provincia. L'edificio tornò proprietà del demanio,
e fu danneggiato dal terremoto del 1905,
il sisma che ebbe epicentro presso il Monte
Poro nell'attuale provincia di Vibo Valentia in
occasione del quale si è registrato il più alto valore strumentale della magnitudo mai
riscontrato in Italia: a San Bernardino i danni si limitarono al crollo della
sommità del campanile e del tetto della prima campata della chiesa.
L'attuale
aspetto della chiesa è in larga parte dovuto agli interventi diretti da
Gilberto Martelli nel 1953,
che previdero il ripristino dell'antica ed essenziale architettura
gotica a scapito degli
altari marmorei barocchi posti nelle cappelle laterali, ed all'esterno la
risistemazione del portico d'ingresso.
Questi
interventi furono consolidati e rinnovati dagli ultimi restauri subiti dalla
chiesa, all'inizio degli anno
novanta, con la
ripavimentazione dell'intero complesso in mattonelle quadrate di terracotta e la
realizzazione degli impianti elettrici e d'illuminazione. Nel 1995 infatti
i frati minori
osservanti tornarono ad Amantea, dopo oltre un secolo di assenza.
Se
la chiesa, dipendente dalla parrocchia della collegiata
di San Biagio, fu sempre
officiata, nonostante le cattive condizioni del campanile e
le copiose infiltrazioni d'acqua nella parete sud, il
convento fu adibito a diversi usi: prima sede di alcuni uffici comunali,
dell'archivio comunale e scuola
secondaria di primo grado,
poi centro di igiene mentale ed in seguito sede dell'azienda sanitaria locale, solo
dopo i summenzionati lavoro dei primi anni novanta è stato ripristinato ed
adibito alla sua funzione originaria.
LA
CHIESA - Il portico
d'ingresso della chiesa è inquadrato tra il campanile e l'angolo nord-ovest
del convento, quella che ospita l'oratorio dei Nobili: è sopraelevato di due
metri dal suolo, e vi si accede attraverso una scalinata che tende a
restringersi verso l'alto. Gli interventi del 1953 hanno
riportato il portico al suo originario aspetto quattrocentesco, con le cinque arcate
ogivali sorrette da pilastri
poligonali binati con capitelli a goccia montati
su alti plinti, il tutto in arenaria locale: dopo
il terremoto del 1783
infatti l'arcata centrale,
quella d'accesso al portico, era stata trasformata a
tutto sesto a mo' di serliana,
con il beneficio che si rendeva visibile il portale d'ingresso della chiesa ma
l'aspetto negativo di sconvolgere l'architettura del portico. In
origine il portico era aperto su due lati, ma dopo il terremoto
del 1638 lo spostamento
del campanile impose la chiusura delle due arcate ogivali poste verso nord: gli
interventi degli anni
novanta hanno posto in
luce i resti di queste arcate nella base della parete sud del campanile.
Disassato
rispetto alle arcate del portico si apre il portale d'ingresso in travertino della
chiesa, che presenta un ampio arco
ribassato, forse di
ispirazione catalana, "delineato
da esili cordoli a fascio intervallati da zone lisce". Altri
portali che si affacciano sul portico sono quello della torre campanaria, un
arco a tutto sesto di modesta architettura, quello
del convento, un altro arco ribassato di modesta architettura realizzato
parzialmente con elementi di restauro, e
quello dell'oratorio dei Nobili: questo portale in arenaria è invece un
significativo esempio di architettura tardo rinascimentale. Esso
si presenta infatti con un architrave incorniciato
da paraste di ordine
ionico decorate con un
motivo ad ovoli o
"kyma ionici", il tutto a sorreggere un'alta trabeazione: la
data di realizzazione del portale, leggibile sulla rovinata iscrizione posta al
centro della trabeazione, è il 1592.
Le
essenziali linee della facciata
a capanna della
chiesa si elevano alle spalle del portico d'ingresso: al centro si apre una
piccola monofora a
sesto acuto, sovrastata dagli incavi nei quali fino al 1984 si
trovavano dieci bacini
ceramici disposti
singolarmente a forma di croce
latina. L'uso
di inserire asimmetricamente pezzi ceramici o marmorei colorati nelle murature
per "spezzare" la monotonia della parete a tinta unita è attestato in
molte costruzioni medioevali, come
il quattrocentesco palazzo
Ghisilardi Fava a Bologna o
il campanile romanico della chiesa
di San Pietro ad Albano
Laziale: quello di San
Bernardino ad Amantea è tuttavia l'unico esempio quattrocentesco di questa
pratica riscontrato nell'Italia
meridionale. Le
ceramiche amanteote sono da attribuire alla fabbrica di ceramiche spagnola di Manises, presso Valencia,
che nel Quattrocento era il principale centro di produzione ed esportazione di
ceramiche ispano-moresche. I
bacini ceramici, sopravvissuti ai terremoti ed alle intemperie, furono rimossi
dalla Soprintendenza Archeologica della Calabria il 5 Aprile 1984, trasportati
al Museo Archeologico
Nazionale di Reggio Calabria e
restituiti alla città di Amantea solo nel 2005:
oggi sono custoditi nel convento dei frati minori osservanti. Prima
della collocazione dei piatti, era stata dipinta sull'intonaco una grande croce
della quale erano visibili tracce ancora negli anni trenta quando Alfonso
Frangipane salì a visionare i bacini ceramici. Ad
oggi dei bacini ceramici ne sono stati costruiti delle copie e poi inseriti
all'inizio di gennaio del 2018.
Si
ignora l'aspetto del campanile quattrocentesco, che andò completamente
distrutto in seguito al terremoto
del 1638. Nella successiva
ricostruzione il campanile venne spostato sul lato settentrionale del portico
d'ingresso. Dopo il terremoto
del 1783 fu aggiunta
alla sommità una cupoletta e i tre livelli vennero distinti con l'aggiunta di
cornicioni sporgenti. La
cupoletta, parzialmente crollata in occasione del terremoto del 1905, venne
sostituita da un tetto a terrazza. La sommità del campanile si degradò
rapidamente e alla fine degli anni
settanta gran parte del
terzo livello era scomparso, compreso
l'orologio inserito nella finestra ad arco del terzo livello e visibile in
alcune fotografie degli anni
trenta. Il campanile ha
assunto l'aspetto attuale, con la ricostruzione incompleta del terzo livello,
con i lavori degli anni
novanta.
La
vecchia campana di bronzo è
oggi conservata nel chiostro del convento: un'iscrizione leggibile su di essa
riferisce che fu fusa la prima volta nel 1404,
dunque prima dell'arrivo dei frati minori osservanti e della costruzione della
chiesa come la conosciamo noi, poi fu rifusa nel 1500 e
quindi nel 1861.
La
navata centrale, che misura una trentina di metri di lunghezza ed una
decina di metri di larghezza ed è la più grande delle due navate che
costituiscono la chiesa, non è divisa in campate, è coperta da un tetto a capriate di
legno a vista, ed è
separata dalla navata sinistra da cinque archi ogivali che appoggiano su
pilastri a sezione quadrangolare in arenaria.
La
navata è illuminata da quattro monofore per lato, ma l'ultima monofora verso la
controfacciata su entrambe le pareti è più corta: attualmente le monofore del
lato sinistro sono cieche dopo la realizzazione avvenuta nell'Ottocento
dell'auditorium posto sopra la navata sinistra.
Lungo
le pareti della navata e sulla controfacciata sono stati messi in luce durante
gli interventi degli anni novanta archi ciechi, sia ogivali che a tutto sesto, e
tracce di pilastri non compatibili con l'attuale conformazione della chiesa, e
dunque riferibili alla struttura della chiesa precedente all'arrivo dei frati
minori osservanti nel 1436. Altre
anomalie della struttura sono rappresentate dalla nicchia presente sulla parete
sinistra della navata centrale tra gli archi della prima e della seconda
campata, nella quale
attualmente è collocata la statua marmorea di san
Francesco d'Assisi di bottega siciliana del XVI
secolo, e
dalla singolare sezione del pilastro posto tra la quarta e la quinta campata
rispetto agli altri pilastri.
Sulla
parete di fondo della navata presso l'arco trionfale d'accesso al presbiterio
sono collocati il busto, l'iscrizione e lo stemma di famiglia del nobile
amanteota vescovo di
Termoli Antonio
Mirabelli.
La
navata sinistra si
presenta divisa in sei campate di cui la prima anomala, poiché è divisa dalla
navata sinistra da un muro: il che ha fatto ipotizzare allo studioso Alessandro
Tedesco che potesse trattarsi di una cappella cinquecentesca
dell'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione. In generale, c'è una
certa disomogeneità tra le varie campate: al di là dello spessore dei
pilastri, irregolare tra la prima e la seconda campata e fra la terza e la
quarta, le ultime tre campate presentano una copertura a volta
a crociera con costolonature in
arenaria, mentre le prime tre sono prive di costolonature. Questo
farebbe pensare che la navata sia frutto dell'unione di varie cappelle private
di giuspatronato,
ipotesi avvalorata dalla presenza degli stemmi delle famiglie nobiliari
amanteote dei Carratelli e dei Di Lauro rispettivamente nella quinta e nella
sesta campata e da
un'iscrizione murata nella prima campata facente riferimento al nobile amanteota
Tiberio Cavallo posta accanto ad un mascherone comunemente identificato con il Sol
Invictus.
Dalla
sesta campata attraverso una botola si accede all'unico ambiente sepolcrale
ancora accessibile della chiesa, quello anticamente riservato ai frati minori
osservanti. Infine, da
notare che sopra le volte a crociera della navata sinistra è stato realizzato
nell'Ottocento un auditorium, che venne coperto con un tetto a capriate di legno
simile all'originale durante gli interventi del 1953. Nella
prima campata è collocata una "Madonna
col Bambino" di marmo
di Carrara opera di Antonello
Gagini, datata 1505 e
commissionata da un tale Nicola d'Archomano cittadino amanteota: questa
opera, per la ricchezza e la plasticità del panneggio e per il particolare
effetto di alcune parti incompiute raggiunge "un esito espressivo
ragguardevole", secondo lo studioso Enzo Fera. Il Gagini scolpì altre
statue dello stesso soggetto anche a Mesoraca, Morano
Calabro e Nicotera,
prima di partire per Roma dove
lavorò con Michelangelo
Buonarroti alla tomba
di papa Giulio II presso la basilica
di San Pietro in Vincoli.
Prima
degli interventi del 1953 la
navata sinistra era arricchita da numerosi altari laterali marmorei, dei quali
negli anni trenta si distinguevano quello della seconda campata e quello di santa
Lucia da Siracusa, fatti di marmi
verdi locali.
Il
presbiterio, orientato
verso est come nella tradizione paleocristiana e mendicante, è
posto sei gradini più in alto rispetto al pavimento moderno della chiesa, ed è
aperto da un grande arco trionfale ogivale in arenaria: è
di pianta quadrangolare coperto da una volta a crociera con costolonature
poggianti su capitelli a crochet o ad uncino tipici dell'architettura
gotica, e
non si presenta particolarmente luminoso, forse anche a causa dell'accecamento
di una delle tre monofore che lo illuminavano, per via della costruzione
ottocentesca dell'auditorium.
L'accesso
dal presbiterio al coro è realizzato sulla parete settentrionale attraverso un
semplice arco a tutto sesto, mentre sulla parete meridionale, oltre all'accesso
alla sagrestia, si ha un esempio di nicchia-credenza per custodire le ampolline
dell'acqua e del vino e le pissidi delle
ostie da consacrare. durante
la celebrazione
eucaristica. La finestra
rettangolare strombata posta sulla parete di fondo del presbiterio è occupata
da una vetrata collocatavi
negli anni novanta raffigurante il cristogrammaIHS (simbolo
di san Bernardino da Siena), con un sole a dodici raggi che sta per i dodici
apostoli.
L'oratorio
dei Nobili è situato
nell'angolo nord-ovest del convento: è formato da un'unica navata, ed è
coperto da un soffitto piatto a travi di legno. L'illuminazione gli proviene da
due finestroni posti sulla parete destra. Il
piccolo luogo di culto venne costruito nel 1592,
a giudicare dall'iscrizione mal leggibile sul fastoso portale d'ingresso sopra
descritto, come luogo
di riunione dell'arciconfraternita dell'Immacolata Concezione, destinata ai
nobili della città. Il locale dell'oratorio è diviso da una sorta di arco
trionfale che delimita l'area presbiteriale dall'area destinata ai fedeli: su
quest'arco nel 2003 sono
stati dipinti in due tavolette ovoidali un'immagine dell'Immacolata Concezione e
lo stemma dell'arciconfraternita.
L'altare
dell'oratorio è opera dello scultore messinese Pietro Barbalonga, al quale si
deve la realizzazione delle paraste di ordine
ionico e della piccola
statua marmorea della Madonna col Bambino (detta "del pane") posta
sopra l'architrave: quest'ultima però sarebbe attribuibile anche ad un anonimo
artista calabrese del Trecento. Al
centro dell'altare è collocata la "Natività di Nostro Signore", pala
d'altare marmorea
attribuita da Alessandro Tedesco a Pietro Bernini e da Alfonso Frangipane ed
Enzo Fera a Rinaldo Bonanno: quel
che è certo è che si tratta di un'opera del XVI
secolo. Ai lati dell'altare,
in due nicchie, è stato collocato il dittico marmoreo dell'Annunciazione di
Francesco di Cristofano da Milano, commissionato nel 1491 dai
frati.
Presso
l'altare si conserva ancora un piccolo frammento dell'antico pavimento
dell'oratorio e dell'intero complesso di San Bernardino, in ciottoli di mare
bianchi e neri. Sempre
sotto l'altare attraverso una botola si accede alla cripta dell'oratorio, che si
estende sotto lo stesso per tutta la sua lunghezza. Lungo
la navata sono apposti gli stemmi delle famiglie nobiliari amanteote
storicamente membri dell'arciconfraternita: nel 2000 le
famiglie rappresentate nell'arciconfraternita erano quelle degli Amato, dei
Carratelli, dei Cavallo, dei Cavallo Marcello, dei Cavallo Marincola, dei Di
Lauro, dei Mileti e dei Mirabelli Centurione.
IL
CONVENTO - Il chiostro
del convento è a pianta quadrangolare, delimitato per tre lati da arcate
ogivali rette da
pilastri a sezione quadrangolare in arenaria, e per il quarto verso la chiesa da arcate
a tutto sesto su
pilastri a sezione circolare di stile aragonese. Lo
studioso Alessandro Tedesco nota come gli archivolti posti agli angoli del
chiostro siano arricchiti da capitelli con motivi vegetali "di
indiscutibile ispirazione classica".
Il
convento è stato ristrutturato completamente negli anni
novanta, in occasione del
ritorno dei minori osservanti nel 1995: nel
corso dei lavori, sono venute alla luce numerose testimonianze archeologiche che
sono state rese visibili attraverso una copertura a pannelli di vetro sul
pavimento del piano terra. Sono
venute alla luce infatti murature e una fitta rete di canalizzazioni
appartenenti probabilmente all'antico convento preesistente a quello dei Minori
Conventuali.
Chiesa
dei Cappuccini o di Santa Maria la Pinta.
La chiesa
di Santa Maria la Pinta, comunemente denominata dei Cappuccini, è un luogo
di culto cattolico.
Accanto alla chiesa sorge la struttura dell'ex convento dei Padri
Cappuccini.
Il
13 settembre 1607 il nobile amanteano Rutilio Cavallo fece donazione all'Ordine
dei padri cappuccini minori di
un terreno posto sulle pendici della collinetta denominata Alimena, perché vi
venisse costruito un convento di religiosi cappuccini con annessa chiesa, sotto
l'intitolazione di Santa Maria di Porto Salvo. I lavori proseguivano ancora nel 1614,dopo la morte di Rutilio Cavallo: poiché i frati chiedevano continuamente
fondi alla famiglia Cavallo per portare a termine la fabbrica, gli eredi si
lamentarono asserendo che "i frati volessero costruire un fortilizio e non
un convento". Tuttavia
la controversia venne sanata, a condizione che presso la chiesa venisse
edificata una cappella privata della famiglia Cavallo, compiuta solo nel 1698.
Il
convento aveva diciassette celle, abitate nel 1650 da
cinque padri cappuccini, quattro laici e un inserviente.
Il
convento venne soppresso ai sensi della legge di soppressione degli ordini
monastici emanata dal nuovo re di Napoli Gioacchino
Murat il 10 gennaio 1811: l'edificio, divenuto di proprietà demaniale e messo in vendita, venne così
acquistato nel 1812 proprio
dalla famiglia Cavallo.
Dopo
la caduta di Napoleone ed il ritorno dei Borboni, presso la chiesa venne
costituita la parrocchia di Santa Maria la Pinta e Campana:
questi due titoli erano quelli dati all'antica Cattedrale di Amantea, in seguito
scomparsa. Nella chiesa si costituì il 2 febbraio 1822 la
Confraternita di Maria Santissima Addolorata.
La
chiesa, distrutta durante i bombardamenti alleati del 1943, è stata in seguito ricostruita ed oggi è una sede parrocchiale. Nell'adiacente
struttura dell'ex-convento sono state ricavate abitazioni private.
Chiesa
di Sant'Elia o del Gesù.
La chiesa
di Sant'Elia Profeta venne edificata nel cuore dell'antico quartiere di
Catocastro, in unione all'adiacente collegio dei Padri Gesuiti (donde le derivò
anche il nome di "chiesa del Collegio") come residenza della locale
comunità dei padri
gesuiti.
I
primi religiosi gesuiti arrivarono ad Amantea attorno al 1620, ma abbandonarono
la città già nel 1648. Dietro richiesta della comunità locale, tuttavia, nel 1652 i gesuiti fecero ritorno ad Amantea e nel 1663 l'architetto padre Carlo Quercia progettò la chiesa di Sant'Elia, che
doveva essere annessa al costruendo collegio. I lavori terminarono nel 1677 e le opere di rifinitura del tempio furono compiute nel 1680.
Dopo
la partenza dei religiosi gesuiti nel 1767, la chiesa rimase priva di cure. Attualmente in stato di fatiscenza,
contiene alcune opere abbastanza pregevoli come, al centro dell'aula, il pulpito
ligneo secentesco con baldacchino, intagliato e decorato.
La
facciata presenta un portale con timpano ad arco spezzato sopra il quale,
nell'ordine superiore, si apre un ampio finestrone circondato da cornici
curvilinee. La pianta della chiesa è quadrata a navata unica, ma la sua
particolarità è la caratteristica cupola "a scodella" sulla crociera, rifatta dopo il crollo del 1690 e chiamata appunto confidenzialmente dagli amanteani 'a gavita.
Chiesa
del Carmine o di San Rocco.
La chiesa
di Santa Maria del Carmine, anche nota sotto l'invocazione di San Rocco, è
un luogo di culto cattolico.
Attualmente funziona come la chiesa filiale appartenente alla parrocchia
amanteana di san Biagio.
La chiesa venne edificata nel 1685 sul sito di un ipotetico tempio pagano dedicato al Sole, a quanto si
potrebbe evincere da un'iscrizione rinvenuta nel luogo. All'esterno, la facciata
si presenta con due campanili ai lati, tre portali e una scalinata antistante
che conduce su corso Umberto I, la principale passeggiata panoramica della città.
Appunto dalla scalinata della chiesa è possibile avere una buona veduta sulla
città bassa e sul mar
Tirreno.
Ex-chiesa
di San Francesco d'Assisi
Probabilmente
subito dopo la definitiva riconquista di Amantea da parte dei Bizantini (1031-1032)
si installò sulle pendici dell'altura del castello una
comunità di religiosi basiliani di rito greco, che fondò la chiesa di San
Basilio forse sul sito di un'antica moschea,
vestigio della dominazione araba su Amantea.
Nel
dicembre 1121papa
Callisto II, in viaggio
verso Reggio Calabria,
venne ospitato dai monaci basiliani di Amantea nel loro cenobio. Possiamo
supporre che nel corso del XII
secolo il cenobio
decadde, poiché nel 1216 il
beato Piero Catin, compagno di San
Francesco d'Assisi, assieme ad altri religiosi, si installò nell'antico cenobio basiliano
fondando un convento francescano e
l'attigua chiesa di San Francesco d'Assisi.
CATTEDRALE
DELLA PINTA O DELLA CAMPANA - L'antica
cattedrale di Amantea era denominata "della Pinta" a causa
plausibilmente di un antico e venerato dipinto ivi conservato e raffigurante la Madonna. Era
situata nella città vecchia, presso il rione Sant'Elia.
CHIESA
DI SANTA SOFIA -Antica
chiesa non più esistente, attestata in diversi atti risalenti al XV e
al XVI secolo.
CHIESA DI
SAN PROCOPIO
CHIESA
DI SAN NICOLA DEL RIMO - Si
presuppone che il toponimo "rimo" sia la corruzione di
"eremo", poiché questa chiesa, attestata nel XV
secolo, sorgeva lungo il
fiume Catocastro ed
era probabilmente luogo di eremitaggio.
CHIESA
DI SAN NICOLA DELL'OLIVA - Antica
grancia benedettina,
attestata nel 1151,
situata lungo il fiume
Oliva presso l'attuale
frazione di Campora
San Giovanni. Venne in
seguito sostituita da una chiesa dedicata a san Giovanni, a cui si deve il
toponimo della frazione stessa: questo antico luogo di culto, attestato nel XV
secolo, è stato ridotto ad
uso di civile abitazione.
CHIESA
DI SANTA MARIA DELLA CALCATA - Antica
chiesa attigua al convento dei Padri
Agostiniani, venne istituita
nel 1490 e
in seguito chiusa dopo la soppressione del convento annesso.
CONVENTO
DEI DOMENICANI -Un
convento domenicano sorse
ad Amantea nel 1465 e
venne chiuso il 24 ottobre 1652.
CAPPELLA
FURGIUELE - Dedicata
a S. Alfonso de' Liguori, annessa al Palazzo Furgiuele in Via Dogana 64.
CAPPELLA
CAVALLO MARINCOLA
Palazzo
delle Clarisse
Il
seicentesco Palazzo delle Clarisse, che sorge sulla costa tirrenica calabrese,
proprio sulla sommità di una rupe un tempo lambita dalle acque del mare, ha una
struttura architettonica che si articola su più livelli, seguendo il profilo
dello sperone roccioso su cui si distribuiscono i volumi della chiesa, del
convento e del chiostro. Dell’antica chiesa, oggi inglobata nel palazzo,
rimangono le belle bifore con colonnina tortile, una finestra polilobata e il
grande arco santo in pietra, ricoperto di affreschi raffiguranti fiori
stilizzati e volute. Gli splendidi terrazzi panoramici della struttura offrono
invece una vista mozzafiato sull’Etna e sull’isola di Stromboli.
Ubicato
a 400 metri dal lungomare di Amantea, nel Palazzo si entra dal grande portone
seicentesco e salendo la principesca scala d’ingresso, dopo aver ammirato il
grande arco de
lla
Cappella di Santa Chiara,
si accede al piano dei ricevimenti – che ha una capienza di 240 invitati –
con le sue ampie sale: il salone della Musica, la sala del Marchese, la sala del
Vescovo, la sala della Madre Badessa, la sala del Coro, la saletta delle
Pleiadi, la sala della Stele Araba. Attraversare le sale di questa antica dimora
è come passeggiare nella storia. Gli addobbi floreali, le porcellane, gli
specchi, i cristalli e le argenterie contribuiscono alla preziosità
dell’ambiente. Dal salone della Musica si può vedere dall’alto il Chiostro
di S. Chiara, accedendo direttamente a due delle tre grandi terrazze panoramiche
che si affacciano sul mar Tirreno.
All’interno
del palazzo si può ammirare una notevole collezione di copie d’autore dei
grandi maestri della pittura fiamminga, dell’impressionismo e del Novecento
europeo. Il palazzo conserva inoltre, importanti opere d’arte, fra cui
una stele funeraria araba dell'XI secolo,
una statua lignea del XVII secolo raffigurante S. Chiara, e vari stemmi
nobiliari in pietra.
Il
Palazzo in origine era
il
Convento dell'Ordine religioso delle Clarisse Francescane. Al suo
interno conducevano vita di clausura le figlie nubili delle famiglie patrizie,
destinate alla vita conventuale dai loro genitori per evitare il frazionamento
ereditario del patrimonio. La struttura evidenzia un corpo di fabbrica tozzo,
allungato verso il mare e al quale si collega una piccola chiesetta. Il
complesso monastico fu edificato nel 1620, nel luogo dove sorgeva il Palazzo
Folleri, acquistato dalle suore nel 1618, poiché il vecchio convento del
quartiere la Pinta, aperto nel 1603, risultava inadeguato alle necessità delle
religiose, a causa delle piccole dimensioni e dell’eccessiva vicinanza di case
private.
La
conquista napoleonica portò alla soppressione del convento nel 1810 e
l’immobile, confiscato assieme ad altri beni ecclesiastici, fu messo in
vendita dal governo e successivamente acquistato d
a
Carlo De Luca dei Marchesi di Lizzano,
nel 1812. Il Marchese de Luca di Lizzano ne fece la sua residenza nobiliare. La
nuova trasformazione ad abitazione privata determinò numerose modifiche
strutturali, fra cui la trasformazione della chiesa, con l’inserimento di uno
scalone principesco al suo interno e la chiusura di molte finestre e bifore. Il
chiostro, invece, fu trasformato in orto e le sue arcate vennero murate. I
Marchesi De Luca vissero nel palazzo fino al 1977. Successivamente a un periodo
di abbandono e grave degrado, il palazzo fu acquistato e restaurato
dall’attuale proprietario, Fausto Perri.