Morano Calabro
si trova in una verde zona collinare della valle del fiume Coscile, nei
pressi del confine con la Basilicata.
Sull'origine
del toponimo non si hanno precise concordanze storiche e si sono ipotizzate
varie teorie. Fra le tante, la congettura creatasi sull'erronea supposizione che
Morano sia stata fondata o abitata dai mori, giustificata sulla base di una
presunta assonanza etimologica. Questa tesi è in realtà del tutto infondata,
visto che l'insediamento (accertato dal II secolo a.C.) era preesistente
alle incursioni saracene. Lo storico Gaetano Scorza, secondo il quale
Morano avrebbe origini più remote rispetto a quelle documentabili (forse magno-greche),
convalida la sua ricostruzione rifacendosi al verbo greco
μερυω (merùo), cioè "raccogliere insieme,
cumulare", chiara allusione alla singolare struttura urbana nella
quale gli edifici paiono essere gli uni attaccati agli altri: anche questa
proposta però appare poco realistica, perché il borgo ha assunto questo
aspetto solo nel lungo corso dei secoli. Da ultimo, lo scrittore Vincenzo
Padula nella Protogea del 1871, immagina che il toponimo
derivi dall'ebraico Mòren usato nel Talmud con il significato di castello,
il che proverebbe la fondazione di un fortilizio contemporaneamente allo
svilupparsi di un centro urbano, benché sia inverosimile confermare tale
esotica etimologia.
Dunque il Muranum latino storicamente
attestato dalle fonti, pone chiara luce sulla sua esistenza in epoca romana e
riapre la questione sulle origini, avvalorando un'ipotesi fortemente plausibile,
ma non suffragata da risultanze storiche inconfutabili. Poiché il suffisso latino prediale -anum indica
in questi casi vasti fondi e proprietà di una data famiglia importante della
zona, non appare senza fondamento supporre che si tratterebbe di un antroponimo,
derivante di Murus o Murrus, da cui il nome Muranum.
L'appellativo Calabro venne
aggiunto in epoca post-unitaria con un decreto di Vittorio Emanuele II del
giugno 1863, per distinguerlo da Morano sul Po.
I più evidenti
riscontri sulla esistenza del borgo risalgono al II secolo a.C., periodo
nel quale è possibile collocarla con esattezza, benché ciò non smentisca
un'ipotetica preesistenza. A questo proposito, i richiami di alcuni autori dei
secoli passati sembrano convalidare la tradizione di un'origine magno-greca o
precedente. Ad esempio, Giovan Leonardo Tufarello congettura riguardo ad una
remota fondazione degli Enotri, i quali dopo aver lungamente perlustrato i
dintorni e trovato il sito dove dimorare, esclamarono «Hic moremur!», da
cui si originerebbe fantasiosamente Morano dal verbo mŏror.
Altri come Gabriele Barrio credevano che il paese fosse la ricostruzione della
antica Sifeo (o Xifeo) che sorgeva nei paraggi sul crinale dell'attuale colle di
Sassòne e che venne distrutta. Le fonti degli autori tradizionali, lontane
da metodologie di ricerca attendibili, offrono tuttavia una traccia che sembra
emergere da recenti ricognizioni archeologiche. I rinvenimenti presso Sassòne,
lasciano senz'altro immaginare che sui luoghi ci fossero attività umane già in epoca
protostorica, essendo il territorio un crocevia per numerose direttrici di
transito, come si confermerà nelle epoche successive. In merito a un
insediamento greco, fra le recenti scoperte si considerano il rinvenimento di
monete di Thuri e di alcune sepolture con corredo vascolare nelle
contrade Foce e Santagada a ridosso del fiume Coscile, cosa che attesterebbe la
continuazione di vita nella zona fin dall'epoca arcaica.
Gli storici
dunque, pur riscontrando attività antropiche nel territorio in epoche remote
tali da far pensare a un proto-insediamento, confermano senza dubbi l'esistenza
di Muranum solo in epoca romana come stazione della Via
Capua-Rhegium, strada consolare comunemente denominata via Annia-Popilia.
Il toponimo compare per la prima volta in una pietra miliare del II secolo
a.C., la cosiddetta Lapis Pollae (o lapide di Polla), nella quale
sono contrassegnate le distanze fra le antiche città romane: Morano vi compare
come tappa già presente ai tempi della sua costruzione, precedente a Cosentia alla
distanza di 49.000 passi, pari a 74 km. Tuttavia, la statio dell'antica Muranum,
sebbene non attesti la contemporanea sussistenza di un centro abitato, lo fa
senz'altro supporre visto che proprio la presenza sull'epigrafe pare suggerirne
una qualche importanza. A tal proposito si suppone che la fondazione romana
possa esser posta cronologicamente in concomitanza alla conquista della vicina Nerulum,
occupata dal console Quinto Emilio Barbula nel 317 a.C.

Successivamente,
Morano la si ritrova con il nome di Summuranum nel cosiddetto
Itinerario di Antonino (III secolo d.C.) e nella Tabula Peutingeriana (III
secolo d.C.). L'importanza strategico-militare del sito apparve subito evidente
ai Romani, come in precedente epoca greca lo era stata per ragioni
prevalentemente commerciali e di transito. Da Morano poteva infatti esercitarsi
il controllo dell'area della Valle dell'Ospedaletto, la quale a nord-ovest,
attraverso l'altopiano di Campotenese, è in comunicazione con la Valle di San
Martino sotto l'influenza di Nerulum: così sarebbe stato possibile mettere in
comunicazione il territorio di bacino dei rispettivi fiumi, ossia il Laos (per
gli insediamenti di Nerulum e Lainum) e il Sybaris (per Muranum e
rispettiva area fino a Thurii).
La prima
significativa notizia storica di epoca altomedievale, si fa risalire alle incursioni saracene
del X secolo. La tradizione attesta che a quell'epoca i moranesi vinsero i saraceni in
un leggendario fatto d'armi ricordato come la battaglia di Petrafòcu,
svoltasi nelle adiacenti campagne. Ad essa oggi ci si richiama come simbolo
dell'indipendenza cittadina in una annuale azione storica in costume, la Festa
della bandiera, oltre che iconograficamente nello stemma comunale.
L'episodio - tra l'altro così rinvenuto in un documento del tardo seicento dallo
storico Cappelli - pare essersi sedimentato nella memoria civica
collettiva, come prova il richiamo simbolico alla testa del moro già
dal 1561. Benché con il tempo la battaglia sia stata assorbita dal mito,
ciò non esclude la reale possibilità di uno scontro con l'invasore saraceno;
anzi è da ritenersi più che probabile viste le continue incursioni avute fra
alterne vicende dal IX al XI secolo. Tuttavia, essendo stata
occupata la vicina Cassano proprio dai saraceni nell'anno 1031 durante
le successive episodiche invasioni, è facile intuire che, per la sua strategica
posizione, anche Morano infine venisse occupata; dunque l'accaduto sarebbe da
ritenersi come un glorioso episodio di resistenza al nemico, trasmesso da una
tradizione originariamente orale. In quegli anni infatti, le scorribande
musulmane da parte del fratello di Abul-Kasem-Ibn-Hasan del 976 e del 986 si
fecero più sanguinose, concentrandosi fra il nord della Calabria, la Lucania e
le Puglie, dunque appare poco probabile che Morano ne restasse esclusa.
Seguendo
la cronologia dei vari signori di Morano, il primo del quale si abbia notizia
pare essere Apollonio Morano, che la tenne in feudo sicuramente dal 1239; in
seguito fu dei Fasanella, di Antonello Fuscaldo e nel XIV secolo passò
quindi ai Sanseverino di Bisignano. Tuttavia, in età medievale il borgo fu
per un certo tempo libero comune, ed è opinione dello storico Salmena ritenere
che Morano abbia goduto in maniera significativa di numerosi privilegi e immunità,
tali da rendersi concorrenti a un pieno dominio feudale. A tal proposito,
questa posizione può essere giustificata dalla Platea del 1546 compilata
da Sebastiano della Valle su decreto dell'imperatore Carlo V:
documento di essenziale importanza nel quale venivano distinti i diritti feudali
da quelli spettanti al Seggio di Morano ed al popolo. Redatta come
reintegra di un documento simile del 1400, dalla sua lettura si evince una
certa emancipazione delle famiglie maggiorenti locali, che sostenevano
precedenti libertà e consuetudini tali da incidere in maniera più o
meno significativa sulla diretta disponibilità del feudatario stesso.
La
stratificazione temporale di questo stato di cose, lascia ben immaginare al
Salmena l'idea non infondata di una Morano libera de facto in alcuni
periodi, mentre in altri permaneva come feudo avente numerose franchigie di
natura economica, gestionale, difensiva. A convalida di questa tesi si
riporta: in primo luogo, il fatto che Morano non abbia mai avuto annesso a sé
nessun titolo di principe, marchese, duca o conte; secondariamente, la presenza
di famiglie di origine locale che godettero di diritti allodiali e
trattamenti nobiliari, fra le quali infatti si distingueranno i De Feulo, De
Guaragna, Della Pilosella, Dell'Osso, Tufarelli, Salmena/Salimbeni ed altre.
È quindi assai
probabile che Morano non fosse ancora infeudata ai Normanni nel 1190,
ovvero che mantenesse lo status di città regia. Di conseguenza, in quello
stesso anno Enrico Kalà, generale dell'imperatore Svevo Enrico VI, decise
di potenziarne le fortificazioni per meglio controllare i Normanni asserragliati
nelle vicinanze. I soldati di Ottone tuttavia distrussero Morano nel 1208, e poi
fu proprio per intercessione del Kalà presso Federico II che il
borgo, con alcune città vicine, venne in seguito ricostruito e ripopolato. A
questo periodo si suppone risalga il nucleo primigenio di privilegi e immunità
che per consuetudine saranno riconfermati secoli dopo sia dalla Platea del
1400 che da quella del 1546.
Nell'ultimo decennio del XV secolo, Morano fu protagonista di un
avvenimento a margine delle prime fasi delle guerre d'Italia, ossia il
passaggio del Gran Capitano Consalvo de Córdoba. L'episodio, da
menzionare come scontro della Scala di Morano, avvenne nel 1496 durante
il transito del condottiero andaluso lungo le Calabrie a capo delle truppe del
re Ferdinando. Giungendo dalla vicina Castrovillari, Consalvo si trovò
a fronteggiare un'inaspettata schermaglia dei moranesi lungo la salita detta scala
di Morano, oggi nota come il Crocifisso. Le fonti storiche a questo punto
divergono, affermando da un lato, che l'imboscata venisse compiuta da contadini
e popolani di Morano; dall'altro, che questi fossero guidati (o istigati) da un
manipolo di notabili del borgo avversi alla monarchia aragonese.
Qualunque siano
stati gli oscuri antefatti, il Córdoba fu costretto a ripiegare nuovamente su
Castrovillari vista la resistenza degli abitanti. Venuto quindi a conoscenza che
nel castello di Laino si rifugiarono alcuni nobili ben armati, fra i
quali il Conte di Mileto e Alberico Sanseverino, il Capitano aggirando
il blocco, riuscì ad occupare Morano, stanando a sorpresa gli imboscati nel
loro rifugio. È possibile che in detto scontro il Sanseverino restasse ucciso,
mentre gli altri congiurati furono neutralizzati; tuttavia, è voce comune
che Morano fosse risparmiata dai saccheggi delle truppe. A questo punto si deve
rilevare che la vicenda, come storicamente accertabile, si tinge dei colori del
mito. Infatti dopo lo scontro, si narra che il gran Capitano incontrò
un frate francescano lungo la strada verso Morano, il quale cercò di
dissuaderlo dal compiere atti di rappresaglia contro i moranesi. Una volta
giunto in paese e varcata la soglia della chiesa di San Bernardino,
Consalvo riconobbe proprio nella statua del Santo le stesse sembianze del monaco
nel quale si era imbattuto lungo il cammino. Così, deposta la spada ai suoi
piedi, si convinse a non infierire sugli abitanti. Non è chiaro se questo mito
sia scaturito da un artificio dello stesso Consalvo, sta di fatto che da tale
racconto pare si origini la devozione a San Bernardino, che la tradizione vuole
aver assunto il patronato di Morano a seguito di questo episodio.

La famiglia Sanseverino
di Bisignano, come anticipato, acquisì il feudo di Morano a partire dal XIV
secolo. Il legame dei suoi esponenti verso i loro domini fu sempre stretto, ed
in particolare testimoniarono il loro mecenatismo costellando Morano
di pregevoli tracce storico-artistiche e di numerose liberalità, inaugurando
quello può definirsi un periodo aureo sia sotto il profilo culturale
che economico. Fra i lasciti sanseveriniani si citano ad esempio la
fondazione votiva del Monastero di San Bernardino da Siena patrono
della città (1452), l'ampliamento del castello (1515) e la
costruzione del Palazzo de lo conte coevo, ai piedi dell'abitato.
Il principe Pietro
Antonio Sanseverino, maggior esponente della famiglia del periodo, accordò
inoltre numerose concessioni con il noto atto Capitoli e Grazie, ratificato in
Morano il 1º agosto 1530; inoltre suo figlio, Niccolò
Bernardino (ricordato per gli orti botanici sanseverini di Napoli),
vi nacque nel 1541 dal suo secondo matrimonio con Erina
Kastriota-Skanderbeg: gli venne dato come secondo nome quello del santo patrono
locale, a suggellarne il legame. Niccolò Bernardino, fu l'ultimo esponente del
ramo, poiché dalle sue nozze con Isabella della Rovere, non nacque che il
figlio Francesco Teodoro morto precocemente. Passando in seguito i feudi in mano
alla figlia di sua sorella Giulia Orsini, questi vennero progressivamente
alienati prima della controversa causa che portò Luigi dei Sanseverino di
Saponara come erede legittimo. Anche Morano venne ceduta, passando nel 1614 ai
Principi Spinelli di Scalea, che lo manterranno fino all'eversione dal feudalesimo durante
il periodo napoleonico nel 1806.
Il borgo seguì
successivamente le sorti del Regno delle due Sicilie e del nascente Regno
d'Italia.
Una nota
particolare merita il grande flusso migratorio che ha interessato il borgo fra
l'ultimo ventennio del XIX secolo e i primi del '900, così come è
attestato da un drastico calo demografico. Gli abitanti censiti nel 1881 sfioravano
le 10.000 unità, mentre nel 1901, dopo vent'anni, erano 6.596. Gran parte di
questi flussi erano indirizzati all'estero, in particolar modo verso alcuni
paesi dell'America Latina: Brasile, Colombia, Costa Rica e Guatemala. All'inizio
degli anni ottanta, il comune di Morano Calabro si è gemellato con
la città di Porto Alegre, capitale del Rio Grande do Sul, in Brasile,
per l'alta concentrazione di moranesi, stimati intorno alle quindicimila
persone.
Chiesa
arcipretale dei Santi Pietro e Paolo

Situata
sulla sommità dell'abitato nei pressi del Castello, la fondazione risale
intorno all'anno mille, probabilmente al 1007. Sulle attuali architetture
hanno inciso una serie di interventi successivi, ad eccezione del campanile in
pianta quadrangolare di epoca medievale, che dell'impianto originario mantiene
la posizione visivamente arretrata rispetto alla chiesa. La facciata a
falde laterali ribassate a capanna, ammodernata in epoca
barocca, è sormontata nel timpano da una nicchia con la statua di San
Pietro attestabile al periodo angioino. L'interno in tre navate a pianta
basilicale è decorato da delicati stucchi in stile rococò (seconda
metà del secolo XVIII).
Le
numerose opere custodite sono testimoni di un arco temporale che comincia dal XV
secolo ai primi decenni dell''800. Si segnalano: un sarcofago in bassorilievo appartenente
alla famiglia feudale Fasanella, un affresco raffigurante la Vergine
delle Grazie proveniente dall'omonima cappella e una Croce
Processionale in argento di Antonello de Saxonia del 1445.
Risalgono al XVI secolo quattro statue in marmo di Carrara eseguite
da Pietro Bernini scultore toscano attivo a Napoli, nonché padre
del celebre Gian Lorenzo, raffiguranti: Santa
Caterina d'Alessandria e Santa
Lucia del 1592, San
Pietro e San
Paolo del 1602.
Del
medesimo periodo sono una Candelora, statua appartenente
probabilmente alla bottega di Giovan Pietro Cerchiaro, un San
Carlo Borromeo di
Ignoto di scuola napoletana (1654) su un altare policromo del periodo,
un Compianto sul Cristo morto e due tele raffiguranti i Santi
Pietro e Paolo del Pomarancio, parti di un trittico appositamente
commissionato dall'Università di Morano per la congregazione di Santa
Maria della Pietà.
Importante
è la presenza di due pale d'altare del seicento: l'adorazione
dei pastori e la Madonna in trono col Bambinello e quattro
Santi, attribuite al calabrese Giovan Battista Colimodio (1666). Della
seconda metà del XVIII secolo è il Coro realizzato fra il 1792 e
il 1805, capolavoro d'intaglio di Mario ed Agostino Fusco. Sul lato
sinistro della balaustra, è un pregevole organo portatile del XVIII secolo.
Collegiata
di Santa Maria Maddalena
Fondata
nel 1097 al di fuori della cinta muraria come piccola cappella,
l'accresciuto numero di fedeli rese necessario ampliarla nella seconda metà del XVI
secolo per mandato del prevosto don Giuseppe La Pilosella.
Assunto il titolo di collegiata il 3 febbraio 1737 con bolla di papa
Clemente XII, nel 1732 venne ristrutturata un'ultima volta in pianta basilicale
a croce latina a tre navate, mentre l'apparato decorativo commissionato a
Donato Sarnicola, le conferì la sua attuale veste tardo barocca ritenuta fra
gli esempi più ispirati dell'arte del tempo in Calabria.
Il campanile (1817)
e la cupola (1794) furono rivestiti successivamente di maioliche in
stile campano di colore giallo e verde nel 1862. La facciata, completata
negli anni '40 del XIX secolo in stile neoclassico, è ripartita
in due livelli divisi da una cornice marcapiano costituita da triglifi e metope con
simbologie classicheggianti con paraste doriche e ioniche contornate
negli spazi da ghirlande.
Fra
le numerose opere d'arte, appartengono alla scuola di Pietro Bernini un ciborio e
due angeli oranti facenti parte del corredo sacro; mentre è
del celebre scultore del rinascimento meridionale Antonello
Gagini la Madonna degl'Angioli (1505) proveniente dal
monastero di San Bernardino e posta su un altare del transetto destro.
Sono presenti alcune pale d'altare di scuola napoletana del
Settecento.
Fra
gli autori e le opere più significative si citano: Francesco Lopez, L'Immacolata
(1747), L'Addolorata, san
Giovanni Battista e alcuni santi (1748);
famiglia Sarnelli, Miracolo di San
Francesco di Sales (1747), L'incoronazione
della Vergine (1747) e la Madonna del Rosario e alcuni Santi;
Giuseppe Tomajoli, Morte di San
Giuseppe (1742) e
la cimasa di San Giovannino dello stesso periodo; ed
infine, del pittore moranese Lo Tufo La Vergine fra i santi Silvestro e
Giovanni Battista (1763) e Le anime del Purgatorio.
Fra
i manufatti lignei sono assai pregevoli il coro (1792), il pulpito ed
alcuni stipi sacri realizzati fra la fine del Settecento e i primi anni
dell'Ottocento da Mario ed Agostino Fusco. Sul fondo dell'abside, proveniente
dal monastero di Colloreto, è un fastigio in marmi policromi dei primi del secolo
XVII completato dalle statue di Sant'Agostino e Santa Monica con
al centro Maria Maddalena orante, attribuita a Cosimo Fanzago o
al Naccherino, cui fanno ala due puttini dello stesso periodo.
La
sagrestia, è ricoperta da un raro soffitto a cassettoni di
manifattura locale tardo cinquecentesco appartenente all'antico
apparato, contemporaneo ad un fonte per oli sacri in marmo; qui è inoltre
esposto il c.d. Polittico
Sanseverino di Bartolomeo
Vivarini.
Il Polittico
Sanseverino fu
realizzato nel 1477 dal
pittore veneto Bartolomeo
Vivarini su
commissione del feudatario Geronimo Sanseverino oppure del vescovo Rutilio
Zenone, per il Monastero di San Bernardino da Siena. Dopo vari
tentativi di trafugamento e un accurato restauro, dal 1995 è
custodito presso la cappella di San Silvestro, nella sagrestia della Collegiata
della Maddalena. Vi
si trovano raffigurati: sul pilastro laterale
sinistro, San
Giovanni Battista, San
Nicola di Bari e Santa
Caterina d'Alessandria;
sul destro, San
Gerolamo, Sant'Ambrogio e Santa
Chiara d'Assisi.
Al centro è collocata in trono la Vergine
Maria con
il Bambinello,
ai lati della quale troviamo San
Francesco d'Assisi (a
sinistra) e San
Bernardino da Siena (a
destra). In alto è raffigurato il Cristo
Passo,
fra Sant'Antonio
di Padova (a
sinistra) e San
Ludovico da Tolosa (a
destra). La predella,
forma una base sulla quale sono rappresentati il Cristo
benedicente che
fa ala ai dodici apostoli.
Sono
custodite inoltre numerose reliquie di santi, fra cui una pietra del Santo
Sepolcro e un'orma del sandalo di S. Francesco da Paola lasciata
su una roccia del monte Sant'Angelo nell'atto di benedire la Calabria prima
di recarsi in Francia.
Chiesa
e Monastero di San Bernardino da Siena
Il
complesso monastico in stile tardo gotico è un esempio paradigmatico
di architettura francescana del '400, fra i migliori rintracciabili in Calabria;
inoltre, un accurato restauro in anni recenti, ha consentito il recupero di
quasi tutti gli elementi strutturali originari. Fondato
dal conte Antonio Sanseverino di Tricarico, se ne autorizzarono i lavori con
bolla di Niccolò V del 31 maggio 1452. L'edificazione risale
principalmente a due motivi concorrenti: al mecenatismo dei Sanseverino che
volevano dotare di un'opera prestigiosa uno dei principali centri dei loro
possedimenti, infine a ragioni di consonanza politica originata dallo stretto
legame emerso in quegli anni fra la monarchia aragonese e l'Ordine dei
minori osservanti. I lavori, protratti per oltre un trentennio, si conclusero
con la consacrazione del 23 aprile 1485 dal vescovo di San
Marco Argentano Rutilio Zenone.
L'esterno
è in linea alla sobrietà delle architetture ispirate agli ideali francescani.
La chiesa occupa l'intero fianco destro e il suo ingresso è aperto da un portico sulla
cui parete di fondo appaiono tracce di affreschi risalenti agli inizi del XVI
secolo. Al disotto è il portale d'accesso alla chiesa in pietra tufacea a
sesto acuto, ed un secondo di minori dimensioni con arco ribassato che immette
nel chiostro del monastero. L'interno
è costituito da una navata centrale divisa sul fondo dal presbiterio attraverso
un grande arco a sesto acuto; lungo l'intero lato destro di questa,
ulteriori tre arcate a sesto acuto conducono in una piccola navatella laterale
ripartita in due ambienti. Ventiquattro colonne di forma ottagonale in tufo
sorreggono il chiostro, nel quale insistono tracce di affreschi in lunette realizzati
fra il 1538 ed il 1738 e rappresentanti la vita di san
Francesco d'Assisi.
L'edificio
fu protagonista di una storia travagliata dovuta a numerosi atti di
rimaneggiamento d'epoca barocca (1717) e all'abbandono nel 1811 a
seguito dello scioglimento degli ordini monastici durante il periodo
napoleonico. Destinato nel 1843 a seminario estivo, ospitò in seguito i
locali delle scuole pubbliche, i cui interventi architettonici come la muratura
del portico, lo compromisero gravemente. Alcuni locali furono adibiti a deposito
di legname e nel 1898 un incendio distrusse buona parte dell'ala est,
rimasta diruta fino ai primi anni 2000. Un grande intervento di restauro
attuato negli anni cinquanta a cura del professor Gisberto Martelli
ripristinò la chiesa ed il portico allo stato originario, mentre il monastero
fu recuperato nei decenni successivi, ed è oggi divenuto un complesso
polifunzionale. Nell'antica
sala del refettorio si tengono le sedute del Consiglio Comunale.
Il soffitto della
navata centrale della chiesa è in legno lavorato a quadri carenato alla
veneziana. Sotto l'arco principale è posizionato un crocefisso del XV
secolo ad opera di Ignoto meridionale dai connotati fortemente
drammatico-realistici; ai suo piedi era posizionato il già citato Polittico
Sanseverino, ed in alto
a sinistra domina uno splendido pulpito con baldacchino del 1611 con
decorazioni di gusto classicheggiante e raffigurazioni in bassorilievo di
alcuni santi. Appartiene al corredo sacro un coro ligneo datato 1656 ed
un leggio del 1538 posti nell'abside.
Chiesa
di San Nicola di Bari
Situata
nel cuore del centro storico, l'ingresso si apre sulla piazzatta da cui prende
il nome fra i vicoli del quartiere Giudea, nei pressi della più
antica fontana moranese e dell'antico seggio cittadino dell'Universitas di
cui teneva il patronato. La facciata è semplice, con un portale a sesto
acuto con archivolto in muratura sul quale si trova rappresentato un
affresco raffigurante San Nicola.
La
chiesa si sviluppa su due piani sovrapposti. La cripta sottostante di
epoca altomedievale, è dedicata a Santa Maria delle Grazie ed
è considerata fra le costruzioni più antiche del borgo. Fra
le opere custodite si annoverano: un giudizio universale in olio
su tela di Angelo Galtieri (1737), alcune statue lignee e tele del Seicento,
e nella sagrestia un Espositorio in argento fuso sbalzato e cesellato
del XVIII secolo, corone di santi della seconda metà del secolo XVIII e
del terzo decennio del XIX secolo, calici in argento fuso del XVII
secolo, un reliquiario del XVI secolo, oltre ad una piccola
scultura in alabastro dorato del secolo XVI raffigurante la Madonna
del Buon Consiglio.
Il
piano superiore, in navata unica, è stato edificato negli anni intorno al 1450,
ma rimaneggiato invasivamente in epoca barocca. Oggi delle architetture
quattrocentesche non rimane traccia se non nel portale d'ingresso, ma si ha
ragione di credere che l'interno fosse simile a quello del monastero di San
Bernardino, con soffitto in legno ed arco a sesto acuto che dominava l'altar
maggiore, così come ritenuto dallo storico Salmena. Fra le opere, meritano
particolare attenzione un dipinto di Pedro Torres del 1598 Madonna
tra Santa Lucia e Santa Caterina d'Alessandria, un crocifisso ligneo
di Ignoto del secolo XVI, uno splendido confessionale del Frunzi
(1795), una Annunciazione del 1735 di Angelo
Galtieri, altre pale d'altare coeve ed un coro di Agostino Fusco del 1779.
Convento
dei Padri Cappuccini
Costruito
fra il 1590 ed il 1606, il monastero dei Cappuccini è una
struttura semplice, tipicamente francescana. La presenza dei frati minori
si attesta già nel 1598: in questi anni infatti venne ceduto il fondo su
cui sorge il complesso dal notabile Giovan Maria Rizzo per tramite del canonico
moranese Don Ambrogio Cozza che col sostegno dalla popolazione si attivò per la
sua edificazione, come atto votivo nei riguardi di San Francesco per
una grazia ricevuta. Soppresso in epoca napoleonica il 7 agosto 1809 durante
il decennio francese, fu concesso in enfiteusi dal governo di Murat al
moranese Giuseppe Aronna, colonnello dell'esercito francese. La riapertura al
culto avvenne solo dopo la restaurazione borbonica il 16 settembre 1855 su
sollecitazione dei cittadini e per interessamento del re Ferdinando II che
destinò ai lavori di restauro la somma di mille ducati napoletani
durante la sua visita per le Due Sicilie del 1852. A
seguito di una seconda soppressione attuata dal nuovo governo unitario, venne
nuovamente abbandonato dal 7 luglio 1866, e quindi definitivamente riaperto
ai religiosi dal 6 giugno 1877 sino ai giorni nostri.
La
chiesa –dedicata a santa Maria degli Angeli – presenta una navata
con cappelle sul fianco destro adornate da ricchi altari lignei intarsiati alla
cappuccina e risalenti al secolo XVIII, da un crocefisso monumentale in ceramica
del '600, dalla statua della Vergine dei sette dolori di Giacomo Colombo (1704),
tele e pregevoli statue coeve. L'altar maggiore, anch'esso ligneo e finemente
intagliato (con ricco ciborio in tarsie di madreperla e
paliotto in scagliola policroma di scuola cappuccina), è sovrastato
da una pala di gusto tardo-manierista di Ippolito Borghese e
raffigurante S. Francesco d'Assisi, la Vergine in trono ed alcuni santi.
Il
monastero si sviluppa intorno ad un ampio chiostro in pietra del seicento,
contornato da un austero porticato e cisterna centrale; all'interno è fornito
di un'antica biblioteca con più di settemila volumi, fra i quali si
annoverano pregevoli manoscritti e stampe preziose.
Dal 1884 al 1889 e
nuovamente a partire dal 1990, è Comunità di formazione per i novizi dei Frati
Minori Cappuccini dell'Italia Sudpeninsulare e
di alcuni Paesi esteri che vi trascorrono l'anno canonico di formazione prima di
emettere i voti temporanei.
Chiesa
del Carmine
Posta
nelle adiacenze della Collegiata della Maddalena, venne fondata per opera
dell'ordine dei Padri Carmelitani nel 1568, i quali avevano
allestito in quello che è l'attuale attiguo palazzo municipale un ospedale in
soccorso dei viandanti in terrasanta.
La
chiesa è allietata da preziose opere del secolo XVIII tra cui sono esposti
all'interno due paliotti su cuoio con decorazioni floreali attribuiti al pittore Francesco
Guardi (rispettivamente del S.S. Sacramento e di S. Felice), una tela
raffigurante la Vergine del Carmelo fra i santi Lucia e Francesco di
Paola di Pedro Torres (altar maggiore) ed una cimasa pittorica
di Cristoforo Santanna, raffigurante l'assunzione di Maria. Un
piccolo organo positivo del 700' di anonimo dipinto da Gennaro
Cociniello adorna la cantoria.
Monastero
di Colloreto
Sorge
a qualche chilometro dal centro abitato, immerso nella boscaglia su un altopiano
che sovrasta la campagna circostante lo svincolo autostradale di Morano.
Oggi le strutture sono dirute, ma nei secoli scorsi il monastero godette di
grande prestigio, soprattutto a seguito delle munifiche elargizioni tributate
dai fedeli e dalla nobiltà locale, fra i quali ricordiamo la principessa Erina
Kastriota-Skanderbeg, moglie del feudatario Pietrantonio Sanseverino.
Il
monastero di Colloreto, (probabilmente da Colle Loreto in onore
della Vergine di Loreto, o da colorìto, termine che ne
designerebbe la ridente e pacifica posizione), fu fondato dal Beato Frate
Agostiniano Bernardo da Rogliano nel 1546, il quale sceltone il luogo,
iniziò la sua esperienza di eremita. Successivamente, lo seguirono altri
uomini pii che costruirono il monastero grazie a numerosi atti di beneficienza.
L'edificio, così come
ancora visibile, appare fortificato con un torrione, e fino ai primi
dell'Ottocento anche i suoi interni dovevano apparire sontuosi e ricchi di
opere artistiche, ora disseminate nelle chiese cittadine.
Il
monastero, accrescendo il suo patrimonio e la sua influenza, subì numerosi
attacchi alla sua sopravvivenza, soprattutto a causa delle ingenti proprietà
fondiarie che andò cumulando nel corso degli anni. Una prima soppressione
avvenne nel 1751 per volere di Carlo III di Borbone per il
finanziamento del Real Albergo dei Poveri in Napoli; una seconda
e definitiva avvenne nel 1809 con l'avvento francese.
Oggi
è divenuto una meta di escursioni sulle falde del Pollino.
Castello
Normanno-Svevo

Appare
in ruderi sulla sommità dell'abitato in posizione strategica e dominante tutta
la valle dell'antico Sybaris. Le origini risalgono verosimilmente
all'epoca romana quando fu eretto un fortilizio, o probabilmente un torrione
di avvistamento, il cui basamento in opus
incertum rappresentò
il nucleo originario sul quale si edificarono i rimaneggiamenti d'epoca
normanno-sveva e rinascimentali.
Durante
il medioevo la sua posizione soprelevata lungo l'asse viario della
antica via Popilia attirò l'attenzione della milizia sveva; fu
da allora sede feudale a cominciare da Apollonio Morano, primo feudatario di cui
si abbia notizia. Nel XIII secolo l'antica torre romana venne
probabilmente ampliata con l'aggiunta di una cinta muraria e di alcune sale, così
da conferire all'edificio un primigenio aspetto di castello. Teatro
di numerosi episodi d'arme, si ricorda fra i tanti, durante la fase della Guerra
del Vespro, l'incursione dei mercenari Almogavari che, assoldati dagli Aragonesi,
conquistarono Morano difensivamente impreparata e ne espugnarono il castello
facendo prigioniera Benvenuta, detta la Signora di Morano, moglie
del feudatario Tancredi Fasanella. Questa, nel seguente anno 1286, essendo
Morano con Castrovillari e Taranto passata alla fedeltà di Carlo
d'Angiò, da prigioniera divenne carceriera di Manfredi di Chiaromonte, suo
congiunto di parte aragonese.
Determinante
è però un più radicale e ambizioso restauro del primo quarantennio del Cinquecento,
nel periodo compreso fra il 1514 e il 1545. Avviato per volere
del feudatario Pietrantonio Sanseverino, il progetto si ispirò al
modello più noto del Maschio Angioino di Napoli e per questa fabbrica
vennero chiamate alcune fra le più abili maestranze del tempo. Il Castello fu
dunque la residenza del feudatario a Morano in maniera più o meno continua
fino ai primordi del '700 insieme al Palazzo dei Prìncipi che
sorge all'ingresso del borgo accanto alla porta sita sull'accesso dell'antica via
delle Calabrie. L'ampliamento del Sanseverino conferì al maniero l'aspetto
architettonico e difensivo di cui oggi restano le vestigia. Non se ne ebbero in
seguito notizie fino al 1648, quando il feudo passò a Don Ettore dei
Principi Spinelli di Scalea, i cui discendenti lo mantennero fino al 1811.
Le
ragioni del suo abbandono e deterioramento sono fra le più varie. Nel 1733 la
struttura fu gravemente compromessa per ragioni non del tutto chiare, quindi
venne duramente bombardato dall'esercito francese durante il periodo
napoleonico nel 1806. La sorte fu segnata inoltre da sequenziali
spoliazioni, che durante il feudo della famiglia Spinelli, videro l'asportazione
di elementi murari e materiali lignei per un loro riutilizzo, condannando
la struttura alla sua inevitabile decadenza fino ai recenti restauri degli anni
2000 che hanno consentito il recupero di alcuni locali, dei torrioni frontali,
delle mura perimetrali e della spianata retrostante.
L'aspetto
contemporaneo suggerisce ancora la conformazione del primo decennio del XVIII
secolo: in pianta quadrata, contornato da sei torrioni cilindrici (di cui
sopravvivono integralmente solo quello centrale e quello sinistro del fronte),
era inoltre circondato da rivellini e fossato, aveva baluardi trimura
saettine e ponte levatoio; si elevava per tre piani d'altezza ed era
composto da ampie stanze divise in più appartamenti e, nel complesso, si stima
avesse la capacità di una guarnigione di mille uomini e fosse
predisposto a sopportare lunghi periodi di assedio.
Fontana
di Piazza San Nicola
Sorge
nel cuore del centro storico occupando il fianco sinistro della piazzetta di San
Nicola, verosimilmente ai piedi dell'antica costruzione del seggio cittadino,
che la realizzò nel 1590 al tempo del syndicus Decio
De Feulo. Sorta da un primo ampliamento dell'acquedotto pubblico i cui
lavori si conclusero nello stesso periodo, rappresentò un iniziale risanamento tardo
cinquecentesco delle condizioni idriche del centro abitato.
Opera
pubblica fra le più antiche del borgo, la fonte a tre cannelle con vasca in
pietra del periodo è sormontata da una lastra marmorea rappresentante lo stemma
civico con il moro in una delle sue più arcaiche figurazioni e
da un cartiglio con motto classicheggiante.
Fontana
di Piazza Maddalena
Situata
nella piazza principale alla destra della Collegiata omonima, rappresenta uno
degli interventi pubblici seicenteschi più interessanti. Costruita ai tempi del
sindaco Petronella nel 1604 - come riportato nell'epigrafe latina alla
base - è sormontata dallo stemma civico modellato in stucco in una delle
sue versioni storiche più note.
Sorta
da un secondo ampliamento dell'acquedotto nell'allora nascente quartiere della
Maddalena, la fontana è stata in seguito oggetto di restauri, come
l'ampliamento del 1794 durante il sindacato Rescia e
quello più recente del 1960 che ha visto una riduzione della portata
d'acqua a tre cannelle e il rifacimento della vasca in marmo su progetto
originale di Aldo Mainieri.
Villa
Comunale
Giardino
pubblico del Comune di Morano, l'ingresso principale si apre sul fronte del
portico di San Bernardino e si situa in un'ansa di viale Gaetano Scorza, alle
pendici del centro storico del quale rappresenta il naturale confine con il più
recente centro urbano. Dai tre accessi, il parco si dipana in numerosi viottoli
in piano e in pendenza cinti da basse siepi che convergono in una
piazza centrale dominata da un'ampia peschiera con getto d'acqua.
Raccoglie diversi esemplari arborei, alcuni secolari, perlopiù di pini, olmi e faggi,
piante da giardino, roseti e qualche scultura in siepe.
Il
luogo assolve alla medesima funzione di giardino pubblico da secoli, dapprima
come "verziere" pertinente al fondo del monastero di San
Bernardino, successivamente come parco civico riqualificato nell'attuale assetto
a cominciare dagli anni settanta fino ai novanta. Citato nella Monomachia di
Giovan Leonardo Tufarello del 1622, in quegli anni appariva già come
"bellissimo giardino, adorno e cinto di verdi alberi, funebri cipressi,
alti pini ed antiche querce ed altri alberi fruttiferi e belle pergole con
freschissime acque che lo irrigano".
Grotte
di San Paolo
Sorgono
a pochi chilometri dal centro abitato nella contrada omonima. Esplorate
dall'ottobre 1980, la loro conformazione è assai articolata ed
interessante sotto un profilo speleologico. Sono infatti ricche di
concrezioni calcaree, stalattiti e da esili filamenti
coralliformi.
Si
sviluppano per 245 metri con un dislivello di 41; sorgono sul versante
meridionale del monte Cappellazzo a circa 682 m s.l.m. con tre ingressi,
stratificati nei calcari mesozoici, i quali sboccano in un pozzo franoso
dalla profondità di circa 20 m dai quali si accede ad una serie di caverne ed
una grande sala centrale. Praticabili solo da esperti speleologi, non sono
valicabili nella totalità della loro estensione per via di un torrente
sotterraneo che le attraversa.
Monte
Sassóne
Si
trova a circa 4 km dal centro abitato sulla strada provinciale che
conduce al borgo di San Basile. Potrebbe
trattarsi dell'antica Xiféo, o secondo quanto afferma lo storico romano Tito
Livio, della antica cittadella di Lymphaeum, coinvolta durante
alcune fasi delle guerre puniche.
Sull'antico
monte, più simile ad un piccolo altopiano che cade a strapiombo sulla gola
sottostante, vi sono ancora le tracce di due muraglioni al suo ingresso, su un
piccolo sentiero che si apre dalla strada per San Basile: questi, sono i resti
di una porta che faceva breccia sull'antica cinta muraria. Essa si
estendeva per circa 1.500 metri e con probabilità fu eretta dai Longobardi. Non
si hanno molte notizie circa la scomparsa degli insediamenti di Sassone, talora
ascritta al corso del XIV secolo.
Nel 1860 nella
gola alle falde del monte è stata scoperta la cosiddetta grotta di
Donna Marsilia, usata come necropoli durante il Neolitico fino
all'età del bronzo. Sono state rinvenute numerose reliquie, frammenti litici ed
uno scheletro: gran parte dei reperti sono custoditi al Museo
Archeologico di Reggio Calabria.
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