Ai piedi del
Monte Nero, su un ripido pendio che sovrasta la confluenza dei fiumi Neto e
Arvo, sorge San Giovanni in Fiore, il più antico, vasto e popolato centro
abitato della Sila.
Il centro
urbano, posto nel cuore della Sila Grande, è circondato da montagne, alcune
delle quali fra le più alte di tutto l'altopiano silano. San Giovanni in
Fiore offre un patrimonio forestale estesissimo e di grande valore
naturalistico, con boschi di pino laricio, abete bianco e di faggio.
Gran parte
del territorio di San Giovanni è protetto poiché rientra nel Parco
Nazionale della Sila ed è dotato di un grande valore naturalistico,
confermato dalla distesa di foreste e boschi e dalla presenza di laghi e
numerosi corsi d’acqua.
Negli ultimi
anni si è registrato un aumento della fauna, incentivata dalle misure
restrittive della caccia che hanno favorito il ripopolamento di varie specie
animali. Oltre ad avere un centro storico incredibilmente bello e ricco di
suggestioni, con notevoli edifici e costruzioni dal grande fascino
storico-artistico, San Giovanni in Fiore conserva tradizioni di notevole
interesse, come la tessitura e antiche ricette. Nella
parte più bassa del paese, in prossimità della confluenza dei due corsi
d'acqua, si trova la celebre Abbazia Florense, fondata dall'abate Gioacchino
da Fiore. Da questo centro religioso medievale si sviluppò l'intero abitato,
fino a raggiungere la sommità della Serra Cappuccini.

Da
uno studio condotto dall'architetto Pasquale Lopetrone, si evince che
l'origine del toponimo di San Giovanni in Fiore si è evoluto attraverso tre
distinte fasi, ognuna rappresentativa di tre distinti momenti storici
dell'insediamento umano su questi territori.
Le
tre fasi sono indicate coi nomi dei toponimi: Fara, Fiore e San Giovanni in Fiore.
Il primo toponimo, Fara,
che coincide con la prima fase, deriva dall'insediamento militare sorto sul
luogo dove ora sorge l'abbazia florense, che fu chiamato "Faradomus"
(la casa della Fara). Il termine Fara deriva
dal longobardo e indica il contingente militare migrante, con cui i
longobardi riuscirono ad
insediarsi anche in Italia.
Dalla
"Fara" silana, che è la più a sud d'Europa, i longobardi
attaccarono Crotone distruggendolo sul finire del VI secolo, nonché
difendevano i loro insediamenti in Val di Crati. Gli scavi archeologici
condotto di recente sulle fondamenta dell'Abbazia Florense, hanno portato alla
luce i resti monumentali di un edificio preesistente al complesso Abbaziale
che potrebbe essere connesso all'insediamento longobardo dell'area. La tesi
dell'insediamento longobardo avanzata da Lopetrone spiegherebbe la facilità
con cui i florensi si insediarono in pochi mesi sui territori di
"Faradomus", dove poi sorse l'abbazia, mettendoli a coltura dopo la
concessione elargita da Enrico VI, nell'ottobre del 1194.
Ciò
fu possibile solo grazie ai canali d'irrigazione esistenti, realizzati in
origine dai longobardi, che occuparono l'area per quasi 300 anni, rendendo per
forza coltivabile il territorio su cui poi si è sviluppato l'abitato di San
Giovanni in Fiore e non solo questo. Il secondo toponimo "Fiore",
che coincide con la seconda fase, è legata alla stabilizzazione su questi
luoghi dell'abate Gioacchino che, già nel 1189, denominò il territorio Fiore,
volendo generare un parallelismo con Nazareth il Fiore della
Galilea (a Nazareth avvenne
l'annuncio
dell'arrivo del Figlio, a Fiore avverrà l'annuncio di un nuovo frutto: l'Età
dello Spirito Santo). L'abate dedicò Fiore, l'insediamento da lui fondato a
Jure Vetere, a san Giovanni Evangelista, mettendo in pratica, attraverso la
costruzione delle sue Domus Religionis,
il suo modello di Ecclesia giovannea Spirituale, preludio
della terza età (fase) della storia dell'umanità, congregata su vaste aree
facenti capo a piccole case-chiese "aperte a tutta la gente, desiderosa
di conoscere i nemici delle loro anime", disposte lungo le principali
strade carovaniere della Sila Piccola, antiche strade in terra disposte
trasversalmente che collegavano le aree del mare Tirreno a quelle del mare
Ionio.
Per
i florensi la Chiesa non era l'edificio sacro ma la Comunità Cristiana
congregata nel vivere da veri cristiani in un ambito aperto, senza corti
chiuse, diffusamente in tutti i luoghi, sulle strade, tra la gente. A Fiore
Gioacchino incominciò nell'ultima fase della sua esistenza a dar corpo al suo
Monastero titolato a San Giovanni in Fiore, composto da sette domus religionis
ad immagine della Gerusalemme Celeste, designate alla congregazione cristiana
florense pronta a vivere in terra il Regno di Dio. Il monastero florense di
San Giovanni in Fiore delle origini (1189-1202) è senza dubbio il primo
modello assoluto di Chiesa Giovannea Spirituale congregata, preludio della
terza età del mondo. Il titolo Monasterium de Sancti Ioannes de Flora rimase
anche dopo la morte del protoabate florense, pertanto, non fu difficile
chiamare San Giovanni in Fiore anche
l'insediamento civile istituito nel 1530, quando l'imperatore
Carlo
V autorizzò
all'abate commendatario Salvatore Rota a Mantova a fondare un casale, sul
Cuneo (cugnale) di terra soprastante l'abbazia versante orientale, interposto
tra il vallone fra Vicienzu e il canale badiale che scendeva sul crinale
centrale di monte Faradomus o Difesa, passando per l'attuale ufficio postale.
L'abitato civile assunse, quindi, lo stesso titolo già assegnato da
Gioacchino al Monastero florense delle origini.

San Giovanni in Fiore, pur essendo abitata e fondata verso
la fine del 1100, è stata ufficialmente resa civica solo nel
1550. Nei primi quattro secoli della sua storia, la città florense è stata
una città monastero governata attraverso una gerarchia
monastica. Una tipicità molto rilevante e che ancora oggi si può intravedere
nel contesto urbano storico, grazie al numero di chiese presenti.
San
Giovanni in Fiore è stata fondata da «un uomo chiamato Gioacchino, allora
abate di Corazzo». Dopo un pellegrinaggio
effettuato nell'autunno del 1181, presso l'abbazia di Casamari, viaggio
effettuato con lo scopo di migliorare i propri studi riguardo all'Ordine
Cistercense, prendendosi così anche un
periodo di riflessione che lo aiutò ad abbozzare un proprio ordine monastico
(cosa che si formalizzerà alcuni anni più tardi). Nel ritorno a Corazzo, la
sua inquietudine sfociò in una crisi spirituale causata anche dai contrasti
che egli aveva con l'ordine di appartenenza, nel quale fu accusato di essere
portatore di novità pericolose. Per cercare tranquillità, riordinare le
idee, riflettere sul suo futuro e dedicarsi meglio alla meditazione, decise di
ritirarsi presso l'eremo di Pietrata, nei pressi di Corazzo alle falde
della Pre-Sila
cosentina. Tale luogo però, non riuscì ad offrire a Gioacchino quella tranquillità
sperata, dove poteva vivere secondo i canoni del suo ideale ascetico. Questo
richiamo alla solitudine, insieme all'aspirazione ad una vita più intima e
religiosa, lo spinse a «salire sui monti della Sila e cercare un luogo tra
queste montagne freddissime, in cui si potessero in qualche modo
abitare ». Partito insieme a due confratelli, si stabilì in un primo
tempo nelle vicinanze del fiume Lese, poi decise di spostarsi andando a
raggiungere cime più alte della Sila, cosicché passarono l'acrocoro
dell'abitato di Acerenthia, raggiungendo una località alla quale fu dato il nome di Flos Fiore,
a simboleggiare metaforicamente come là dovesse fiorire la
speranza di un profondo rinnovamento dello spirito.
Gioacchino
da Fiore è stato un religioso, abate, teologo e profeta del medioevo. È uno
dei personaggi calabresi più importanti di sempre. Fondatore dell'ordine monastico florense, poi assorbito dall'ordine
cistercense, Gioacchino è l'ideatore
dell'Abbazia Florense, edificio di culto e simbolo dell'avvento di una nuova
generazione religiosa, pagina moderna di un rinnovato spirito per la fede.
Nato a Celico nel 1130 circa si formò presso l'Abbazia
di Casamari. Guidò altre abbazie in
Italia, prima di decidere di intraprendere una forma di clausura salendo sulla
Sila e formando l'ordine florense. In Sila fondò l'abbazia di Iure vetere e
in seguito l'attuale Abbazia di San Giovanni in Fiore. Girovagò per la
Calabria e per l'Italia, professando il suo ordine religioso, e fondando
chiese e costruzioni. Morì presso la chiesa di San
Martino in località canale di Pietrafitta, ove venne seppellito e restò per alcuni anni, prima di essere trasportato
nell'Abbazia Florense, dove attualmente vengono custodite le sue spoglie.
La
data del 1500 è molto significativa per di San Giovanni in Fiore, poiché
proprio in questo secolo, la città viene riconosciuta legalmente come
centro urbano. Questo avvenne per decreto regio da parte di Carlo
V che decise di istituire amministrativamente il piccolo paese che si
stava formando, spinto dalla veloce crescita demografica che l'area intorno
all'Abbazia stava subendo.
Nel
1500 tutto l'impianto del paese era fortemente influenzato dall'acquedotto
badiale, che captava le acque di Garga, arrivando sul cozzo dove
attualmente vi si trova la fontana dei Cappuccini. Da qui l'acquedotto si diramava in due tronconi: il primo scendendo ad
est, dalla fontana dei Cappuccini, faceva un percorso che oggi possiamo
rintracciare nell'attuale via Panoramica, fino a giungere alla fontana
di Fra Vincenzo, per poi cadere nel fiume Neto, posto sotto il costone della fontana; l'altro troncone percorreva il
versante orientale di monte Difesa, alimentando un mulino e
confluendo nel fiume
Arvo. L'acquedotto badiale costituiva in questo modo, il limite urbano del
paese, cingendo il casale a nord, ad est e ad ovest, mentre a sud il fiume
Neto chiudeva il cerchio naturale. Nel 1550 l'abbazia, i locali annessi e le
officine erano cintati da una muraglia che aveva funzioni giuridiche e
difensive, oltrepassandole infatti, si perdevano i diritti d'asilo che il
re Federico
II aveva concesso nel 1221.
Delle vecchie mura è rimasto solo l'arco
ogivale, comunemente chiamato Normanno.
Fino al 1530, le poche costruzioni esistenti, tutte interamente costruite con
la pietra locale, erano interne a questa cinta muraria. Vi si trovavano, oltre
ad alcune case realizzate di fronte alla piazzetta antistante l'ingresso
dell'Abbazia Florense, un formo, le stalle e le botteghe artigiane. Vi era
inoltre l'ospizio dei forestieri e l'ospedale degli infermi.
Alle
terre poste al di sotto dell'Abbazia e delle mura, fino a raggiungere il fiume
Neto, furono realizzati numerosi ed ampi terrazzamenti a scopo agricolo, che
seppur non più utilizzati, sono ancora oggi ben visibili agli occhi più
attenti. Altri terrazzamenti furono realizzati a nord del primo nucleo
abitativo e sopra di essi nelle aree più acclive e sui crinali, cominciarono
a sorgere le prime case contadine. Gli acquedotti, i rigagnoli e il fiume
vennero sfruttati per scopo irriguo delle terre coltivabili, grazie ad
ingegnose chiuse. Tutto questo per affermare come nel XVI
secolo, San Giovanni in Fiore è ancora una campagna abitata da
alcuni monaci, ben lontana dal grosso centro abitato che diventerà pochi
secoli dopo. L'abate commendatario del tempo, Salvatore Rota, si prodigò a
conseguire uno sviluppo abitativo legato dunque allo sfruttamento
dell'agricoltura e delle poche risorse infrastrutturali esistenti. In quel
periodo non vi era una piazza o agorà nella quale ritrovarsi (ad eccezione della piazzetta antistante
l'Abbazia), non vi erano vie pubbliche realizzate appositamente (ma solo
mulattiere in terra) e soprattutto non vi era ancora una chiesa parrocchiale.
Il beneficio concesso al casale, riuscì ad attirare sui monti della Sila,
numerose persone, con una costante crescita demografica, che costrinse alla
realizzazione degli uffici amministrativi e giuridici.
La crescita demografica e la necessità di amministrare il piccolo paese che
si stava costituendo, furono determinanti per ottenere la concessione da parte
di Carlo
V, del privilegio di urbanizzare ed amministrare l'intera zona. Il 12 aprile
del 1530, nacque dunque la San Giovanni in Fiore civica. Dopo tale decreto
l'area intorno l'Abbazia si urbanizzò velocemente ma in maniera piuttosto
disordinata. Non vi erano normative in vigore che regolassero l'urbanizzazione
in quel tempo, cosicché il paese si diffuse in un modo piuttosto sparso, con
piccoli nuclei di case separati gli uni dagli altri. I primi nuclei di case
furono quello che oggi è il quartiere Cortiglio, e quello che
oggi il quartiere della Cona, distanti fra di loro 200-300 metri.
Il primo vero elemento che diede ordine alle costruzioni abitative, fu
l'attuale piazza Gioacchino da Fiore, che nacque in contemporanea
alla realizzazione della Chiesa Madre. La piazza, che in quel tempo doveva con
molta probabilità essere uno spiazzo rurale e coltivato, era attraversato da
una strada ripida (sielica) che collegava i due nuclei abitativi, e che
collegava la nuova chiesa con l'Abbazia.
Sostanzialmente
dopo la concessione di Carlo
V di istituire una nuova universitas civium, San Giovanni in
Fiore ebbe un rapido incremento demografico spinto “soprattutto dai benefici
fiscali che i nuovi cittadini potevano avere, soprattutto per quel che
riguarda l'immunità dei pagamenti fiscali dovuti allo stato, per un
decennio”. In questi primi secoli il ruolo principale di governo e di politica del
neonato paese, verrà preso in mano dagli abati commendatari, che governeranno
per i prossimi 2 secoli, la città di Gioacchino.
Gli
aiuti fiscali, determineranno un periodo piuttosto fiorente, per la neonata
cittadina, che in pochi decenni crebbe demograficamente. Tuttavia l'economia
non seguì il passo dello sviluppo demografico. Infatti in questi tre secoli,
la base portante dell'economia silana era l'agricoltura e la pastorizia,
praticata con tecniche non certo moderne. Solo negli ultimi periodi cominciò
a svilupparsi un'economia diversificata, con la realizzazione di filande e
mulini, e con l'estrazione della pece, nera e bianca, e relativi forni di
trasformazione della stessa da impiegare in ambito navale.
Dal
1600 fino al 1800 cominciano a delinearsi anche caratteri feudali e giuridici
del casale silano. Sempre più numerose famiglie si istituiscono in
accasamento, aumentando il proprio potere, e costituendo ceppi familiari che
interesseranno la storia cittadina, fra questi vanno ricordate le famiglie
degli Oliverio, Scigliano, D'Ippolito, Russo, Nicoletta, Perri, e soprattutto
i Lopez, i Barberio, i Benincasa, i Cortese e i De Luca. L'economia che si
stava via via delineando, riuscì comunque a garantire un equilibrato
sviluppo, seppur con forti differenze fra le classi e i ceti sociali, che
vedevano da un lato le grandi famiglie proprietarie dei terreni silani, capaci
di ottenere introiti ragguardevoli grazie anche allo sviluppo di nuove
imprese, e dall'altro una classe contadina che poco guadagnava dai piccoli
lotti disponibili alla coltivazione. La resa demografica era comunque
notevole, segno di una certa appetibilità del territorio, nonostante le
difficoltà causate dalla rigidità del clima montano: il paese fu uno dei
pochi centri urbani a scampare alla pestilenza del 1656 che colpì tutta
la provincia
di Cosenza.
Alla fine del 1700 la popolazione era costituita da ben 5.200 abitanti,
facendo di San Giovanni in Fiore, uno dei centri abitati più grandi di tutta
la Calabria. L'influenza dell'Abbazia e il potere degli abati
commendatari, non mutano in questi primi secoli, anche perché chi vive in
paese è un ceto contadino debole, poco incline al raggiungimento del potere,
un ceto agrario piuttosto modesto, che vive di un'economia debole che permette
a loro sì, di vivere, ma senza dare la forza necessaria a realizzare
iniziative economiche e politiche, iniziative che nei secoli dopo, verranno
intraprese da famiglie provenienti da altre parti della regione.
Nel
1700 l'andamento demografico sempre in positivo, e il relativo costituirsi di
grossi nuclei familiari, fece emergere la problematica del sostentamento delle
nuove famiglie. I possedimenti appartenenti alla giurisdizione dell'Abbazia,
vennero in parte usurpati abusivamente, con famiglie non disposte a pagare il
canone annuo agli abati commendatari. Nel frattempo nuove famiglie si ergevano
a potere nel profilo politico e amministrativo della città. I tentativi di
riappropriazioni delle terre usurpate da parte della giurisdizione abbaziale
furono fallimentari, determinando il nascere di un ceto proprietario che diverrà sempre più
coeso e forte nel tessuto politico ed amministrativo. Anche se deprecabile fu
la pratica delle usurpazioni, la nascita di famiglie proprietarie terriere
generò un forte impulso alla debole economia silana, che in pochi anni
prolificò di attività agricole ed anche operose, quali ad esempio
l'estrazione della pece.
Inoltre anche la generale civilizzazione del paese subì profonde influenze
dalle nuove famiglie, così come l'amministrazione dell'Abbazia: nuovi abati
di altissimo livello culturale furono mandati dalla congregazione cistercense a reggere il Monastero Florense. Il profondo cambiamento della
società sangiovannese, evidenziò la nascita di una società divenuta molto
complessa nel tempo. Non vi erano più solo piccoli contadini, ma nel 1700 si
potevano incontrare grandi proprietari terrieri, imprenditori della pece e
lavoratori degli opifici, oltre a numerosi fornai e artigiani intenti alla lavorazione e produzione
della tessitura, della lavorazione della pietra, ebanisti e falegnami. Il protrarsi della problematiche delle terre usurpate,
fece giungere alla risoluzione delle terre abbaziali che passarono nel 1781 in
mano alla giurisdizione del regio patronato. Anche l'Abbazia divenne
proprietà del demanio regio, una scelta che pose fine al governo degli abati
commendatari.
Gli
ultimi due secoli precedenti l'età
moderna, saranno segnati dall'avvento di famiglie nobiliari, grandi possessori
terrieri, che influenzeranno e non poco, la vita socio-politica della città.
Il paese continua a crescere demograficamente, divenendo uno dei centri più
grandi della Calabria, ma l'isolamento geografico, giocherà a sfavore di San Giovanni in Fiore,
che risulterà poco intraprendente nelle scelte politiche regionali. Questo
periodo porterà il nome di San Giovanni in Fiore nelle cronache nazionali ed
internazionali, per la vicenda dei Fratelli Bandiera, patrioti veneziani, che
verranno catturati alle porte del paese, e recati a Cosenza per poi essere fucilati.
Il
1800 si aprì con l'occupazione del regno
di Francia sul regno
di Napoli, che influenzò molto l'attività amministrativa del paese. Si generarono
guerriglie urbane con decine di morti, fra i filo francesi, e le guardie
baronali, i cui baroni dichiaratamente filoborbonici, seppero superare il
difficile momento che il paese stava vivendo. Fra le famiglie nobiliari
residenti in città, quella del barone Nicola Barberio Toscano, fu la più
influente in questo periodo storico. Grande proprietario terriero, Nicola
Barberio Toscano, si arricchì moltissimo con le terre in suo possesso. Con il
passare degli anni i possedimenti del barone triplicarono, così come le sue
fortune. Per meglio far apparire le sue ricchezze, edificò sul più alto
colle della cittadina, un Palazzo in stile Rinascimentale dalle dimensioni
spropositate per quel tempo, in rapporto con il paese e la sua popolazione, un
edificio sovrastante tutto l'abitato di San Giovanni in Fiore, visibile da
molti punti del centro storico. "U' Barune", come lo definivano gli
abitanti sangiovannesi, ebbe in carico, oltre che l'amministrazione della
cittadina florense, anche i comuni di Savelli e Verzino.
I
Fratelli Bandiera sono stati dei patrioti di origine veneta, che hanno
tragicamente perso la vita in una spedizione mal conclusa, in Calabria. Dopo
che appresero la notizia di alcuni moti e sommosse popolari che stavano
avvenendo in Calabria, e più precisamente nella città di Cosenza, partirono da Corfù, con lo scopo di raggiungere la città silana e convincere i cittadini nel
prosieguo dei moti e delle sommosse allo scopo di ribaltare la monarchia che
vigeva in Calabria. Approdarono, così sulle coste ioniche della Calabria
nelle vicinanze di Crotone, e nonostante il tradimento di un loro compagno di viaggio, un certo
Boccheciampe, che andò a riferire alla gendarmeria locale delle intenzioni
dei fratelli Bandiera, proseguirono indomiti il viaggio intraprendendo la
strada che dallo Ionio porta in Sila. Qui affrontarono una serie di avventure, e finirono
tragicamente il loro cammino il 19 giugno 1844 sul colle della Stragola,
vicino a San Giovanni in Fiore, dove furono catturati insieme al resto del
drappello di patrioti che era al loro seguito. Vennero poi portati a Cosenza e
infine giustiziati presso il vallone di Rovito.
La
prospettiva del nuovo secolo si apre con il tragico episodio della Strage
di San Giovanni in Fiore, episodio che vide l'uccisione di 5 persone da parte di alcuni
militanti fascisti. Ciò nonostante sono grandi le speranze e le prospettive future per
l'intera comunità.
Martoriata
dalla fortissima emigrazione verso le Americhe, con un'economia rurale di poco conto, San Giovanni in Fiore, si presenta
sterile e quasi priva di forza. La montagna viene ancora vista e vissuta come
un peso terribile, e la politica nazionale, non si fa sentire dalle parti
silane. I segni più importanti lasciati nella storia della società e
dell'economia sangiovannese, sono: la
prospettiva dell'industria energetica degli anni venti, la forte
ondata migratoria di inizio secolo, la riforma
agraria degli anni cinquanta e la
realizzazione di importanti infrastrutture quali la ferrovia nel 1956 e la ss
107 dei primi anni settanta.
La
speranza di un processo di crescita economica viene alimentata solo nel 1920,
grazie alla costruzione del sistema dei laghi silani (1919-1933) e delle
centrali idroelettriche. La montagna si rende “moderna”, e ricca di
risorse da sfruttare. Sfruttamento boschivo ed energia idroelettrica schiudono
una prospettiva nuova e diventano elementi catalizzatori non solo per piccole
iniziative imprenditoriali locali, quanto di concrete possibilità di
colonizzazione stanziale. Iniziano a nascere i primi villaggi rurali di
montagna, Lorica e Camigliatello, realizzati a quote ancora maggiori di San Giovanni in Fiore. Ma il
realizzarsi dei laghi e delle centrali idroelettriche fanno ben presto
tramontare la “grande speranza industrialista”. Con la costituzione
a Napoli, nel 1908 della ”Società per le forze idrauliche della Sila” (Sfis),
si ottiene l'autorizzazione a sfruttare le acque silane dei fiumi Ampollino,
Arvo e Neto, per la realizzazione di tre serbatoi di trattenuta e tre centrali
elettriche. Nonostante il realizzarsi dei bacini e delle centrali, la Sfis, si
scontrerà con i braccianti agricoli sangiovannesi, poiché a questi, veniva
consentito l'uso dell'acqua per l'irrigazione, solo dopo cospicua ricompensa.
Questi ultimi, inoltre si sarebbero dovuti accollare i vincoli forestali e gli
oneri di rimboschimento, quando le stesse misure, avrebbero potuto rigenerare
il tessuto agrario silano. L'industrializzazione energetica fu dunque
parzialmente costruita. Non furono portati a termine infatti, gli impianti
secondari sull'asta del Neto, con la mancata realizzazione del lago
“Neto-Iunture”, e l'amministrazione comunale di allora, preferì cedere
alla Sfis, l'uso dell'acquedotto abbaziale in cambio della pubblica
illuminazione.
Nel
contempo, l'economia agraria faceva registrare lo sviluppo di antichi centri
rurali, frazioni del paese, quali Acquafredda, Carello e Fantino, mentre lo
sfruttamento del legno trovava parziale impiego nelle segherie che sorsero
nella frazione di “Palla Palla” (oggi quartiere integrato nella città).
Nell'immediato dopo guerra, riprese una nuova ondata emigratoria, questa volta
con destinazioni europee (Svizzera, Francia, Belgio e Germania in particolare) e le grandi città industriali del nord Italia. Si
cercò riparo con la Riforma
agraria degli anni
cinquanta, presentata come volano di sviluppo e traino dell'economia silana. Nacquero
così i villaggi dell'O.V.S., e San Giovanni si ritrovò con 5 nuove frazioni,
Cagno, Ceraso, Germano, Rovale e Serrisi (più il piccolo villaggio dei
Pisani). Si potenziò Lorica e in contemporanea venne realizzato il tratto
ferroviario Camigliatello-San Giovanni in Fiore, un'infrastruttura
che solidificava l'opzione dello sviluppo montano, anche se localmente venne
percepita come semplice miglioramento della comunicazione con il capoluogo
provinciale e mezzo per rompere l'isolamento dei lunghi inverni nevosi.
San
Giovanni in Fiore, a causa della sua orografia e della rigidità del clima
montano silano, pur essendo un centro urbano che sin dall'inizio del secolo
scorso si presentava come uno dei più grandi della regione, ha vissuto per molti secoli, parzialmente isolato dal resto degli altri
centri urbani regionali, soprattutto nel periodo invernale. Con la presenza
delle calamità a carattere nevoso, poteva in alcuni casi, rimanere isolato
per interi mesi dell'anno. Nonostante le prime infrastrutture viarie
realizzate durante il 1800, il problema isolamento, continuava ad attanagliare
il centro silano. Con la realizzazione della ferrovia (pensata ad inizio
secolo ma realizzata solo nel 1956), e soprattutto della Strada
statale 107,
si interruppe l'annosa problematica dell'isolamento, infrastrutture che nel
tempo si sono rivelate importantissime, specie per quanto riguarda il generale
sviluppo economico dell'intero altipiano
silano.

La
storia della ferrovia a San Giovanni in Fiore ed in particolare della Sila, è
una storia lunga, travagliata e non ancora terminata. Le prime ipotesi di
poter realizzare una ferrovia che avendo come stazioni terminali Cosenza da
una parte e Crotone dall'altra, attraversasse l'altopiano calabrese, nascono
alla fine del 1800. Solo all'inizio del nuovo secolo vengono però, redatti i
primi progetti, fra i quali uno molto interessante portato avanti dalla Società
industriale della Sila, differenti fra di loro per quanto riguarda gli
itinerari, ma accomunati da un unico scopo, quello di realizzare una sorta
di Tran Silana, ovvero una ferrovia a scartamento ridotto, tipica
di montagna e di un luogo austero come la Sila. La progettualità dell'opera
venne affidata alla Società italiana strade ferrate del Mediterraneo (meglio
nota come “Società ferroviaria Mediterranea”) che avanzò un progetto di
ferrovia a scartamento
ridotto, tipico delle ferrovie di
montagna. I primi tratti realizzati fu quello del versante occidentale di
Cosenza – Pedace (1916), e di Pedace - San Pietro in Guarano (1922). Nel
1930 venne realizzata la tratta orientale di Crotone – Petilia Policastro,
mentre un anno dopo di nuovo si lavorò nuovamente sul versante occidentale
realizzando la San Pietro in Guarano – Camigliatello. Dopo questi
ultimi lavoro, la programmazione delle rimanenti tratte si arenò, sia per
difficoltà tecniche che economiche. Solo la volontà politica di far arrivare
la ferrovia perlomeno nella Capitale della Sila produsse dopo più di 25 anni
dagli ultimi lavori, la realizzazione della tratta da Camigliatello a San
Giovanni in Fiore (1956), ma il completamento dell'intera opera che doveva
inizialmente collegare i due futuri capoluoghi di provincia, non vedrà mai la
luce.
Oltre
al danno di un'immediata realizzazione dell'infrastruttura, e del mancato
completamento, si aggiunse ben presto (in termini tecnici-ingegneristici) la
crisi di tutta la tratta realizzata. Ad accentuare la crisi, vi è la
realizzazione negli anni '70 della Strada
statale 107 Silana
– Crotonese, concepita con le più avanzate tecnologie del tempo, una strada
immediatamente classificata S.G.C. (Strada Grande Comunicazione), veloce da
percorrere e piuttosto sicura per i canoni di quel periodo. A confronto la
ferrovia Cosenza – San Giovanni in Fiore, appariva oramai obsoleta ed
inadeguata alle nuove esigenze di trasporto. D'altro canto il progetto della
ferrovia concepito negli anni '20, fu quasi completamente portato a termino
solo 36 anni dopo, utilizzando tecniche costruttive di inizio secolo, con
innumerevoli tornanti ed una serie infinita di piccole e medie gallerie, che
rendevano la tratta lenta e poco maneggevole. Se a queste caratteristiche si
aggiunge anche il problema della tecnologia a scartamento ridotto,
dell'utilizzo di locomotori solo diesel e con essa la mancata elettrificazione
della tratta, si arriva ben presto a definire le condizioni di crisi e il
perché la tratta si dimostrasse in così poco tempo, inadeguata. La tratta
Cosenza – San Giovanni in Fiore venne definitivamente soppressa nel 1997.
La
beffa che a San Giovanni in Fiore non ci sia una ferrovia, o meglio, che
questa non venga più usata, è un tema molto discusso in paese. Per anni è
stata attesa da tutta la popolazione silana, vista come il grande mezzo
tecnologico, la grande infrastruttura che finalmente potesse togliere dal
paese l'isolamento che da sempre lo attanagliava, specie nel periodo invernale
dopo le abbondanti nevicate. Ma la soppressione dopo qualche decennio di
attività, non ha colto di sorpresa la città di San Giovanni, ben conscio
delle limitazioni che questa aveva. Utilizzata solo per casi sporadici (in
alcuni casi ha fatto da sostituta alla SS 107, bloccata questa per neve e
maltempo, o messa a disposizione per mostre di treni a vapore e gite
turistiche, negli anni molto si è discusso.
San Giovanni in Fiore come
tutti i paesi del meridione d'Italia, nel corso dell'ultimo secolo e mezzo, ha
subito un fortissimo processo migratorio. Il primo, databile verso la metà
del 1800, il secondo ad inizio '900 e il terzo nell'immediato dopoguerra.
Ancora oggi si continua ad emigrare, ma a differenza delle precedenti ondate
migratorie, nella quale ad emigrare erano braccianti e persone di ceto
medio-basso, oggi emigrano laureati e persone colte, con la conseguenza che
tale fenomeno migratorio, ancora oggi, non è un fenomeno completamente
studiato come i precedenti, ma solo "accennato". Le precedenti
ondate migratorie, hanno lasciato conseguenze profonde nella società del
paesotto silano, ancor più marcate da alcune tragedie di portata
internazionale.

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