Serra San Bruno
(Vibo Valentia)

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La fondazione di Serra San Bruno risale al 1095. Le prime abitazioni di quello che sarebbe divenuto il paese furono costruite per ospitare gli operai che lavoravano per i monaci della certosa di Santo Stefano e per l'eremo di Santa Maria per volere del fondatore, San Bruno, il quale aveva ottenuto dal conte normanno Ruggero I d'Altavilla il terreno per le sue fondazioni monastiche. Il paese in quel periodo aveva assunto una conformazione labirintica tipica del medioevo.

L'attuale denominazione "Serra San Bruno" è stata acquisita per un decreto emanato da Vittorio Emanuele II il 22 gennaio del 1863.

La presenza della Certosa ha enormemente influenzato lo sviluppo architettonico del paese e dell'intero comprensorio, infatti era ben nota la presenza di artigiani, artisti del legno, fabbri e decoratori.

L'abitato è attraversato dalla fiumara Ancinale che separa i due quartieri chiamati "Terravecchia" (centro storico situato nella zona nord) e "Spinetto" (edificato a sud dopo il terremoto del 1783).  

Il periodo tardo-barocco, unito al neoclassicismo, portò ulteriori modifiche al borgo: il paese, iniziò ad assumere uno stile urbanistico più lineare e i nuovi edifici furono influenzati da questa fase, come è testimoniato dallo stile di costruzione delle prime chiese.

Il terremoto del 1783 distrusse la cittadina e la Certosa; il centro storico, a causa di questo avvenimento, visto le condizioni in cui versava, venne denominato "Terra Vecchia", successivamente venne costruito un altro quartiere, chiamato Spinetto (spineto), per l'enorme presenza di spine nel luogo dove iniziò l'edificazione. La ricostruzione è stata possibile in quanto la zona, sulla sponda opposta dell'Ancinale, era ricca di risorse come legno, ferro e granito, che i mastri d'arte dell'epoca sfruttarono anche per creare opere d'arte per decorare le chiese e il paese.

La chiesa dell'Assunta di Terravecchia fu ricostruita dopo il terremoto del 1783 con pezzi di granito provenienti dalla Certosa, mentre la chiesa dell'Assunta di Spinetto fu interamente edificata in seguito al sisma. La facciata di quest'ultima fu realizzata dalla bottega dei Pelaggi: il progetto fu firmato dallo scalpellino Biagio Pelaggi nel 1878 e uno dei relativi disegni fu presentato alla confraternita dal poeta scalpellino mastro Bruno Pelaggi nell'agosto del 1883. Nel XVIII scolo venne costruita la chiesa dell'Addolorata, in stile tardo-barocco, che vanta eleganti stucchi e custodisce pregevoli opere d'arte.

In origine il patrono della città era san Biagio (nella chiesa Matrice sono conservate alcune sue reliquie) poi solo successivamente il titolo di patrono è stato attribuito a san Bruno.

Il 19 maggio del 1807, i francesi fecero della cittadina della Certosa una sede di governo comprendente i luoghi di Fabrizia, San Rocco, IscaSpadolaBrognaturo e Simbario. Successivamente, un decreto del 4 maggio del 1811 la rese capo di un circondario che racchiudeva Spineto, Simbario, Spadola, Brognaturo, Fabrizia e Mongiana.

Quel periodo a Serra, come in tutto il meridione, fu molto turbolento, a causa dell'occupazione delle truppe di Gioacchino Murat, cognato di Napoleone, che proibì qualsiasi culto religioso, chiuse le chiese del Paese e mandò in esilio i sacerdoti. Inoltre i soldati sparavano a vista a chiunque osasse praticare qualsiasi atto religioso, come il segno della croce.

Questa ostilità era dovuta soprattutto al fenomeno in emergenza del periodo, il brigantaggio. Serra divenne un rifugio importante di bande di briganti provenienti dalle zone circostanti, favoriti dalla natura del territorio. Molti venivano ospitati nelle case dei serresi offrendo loro aiuto durante la ribellione contro i francesi. In seguito, però, alcuni briganti divennero dei veri e propri fuorilegge, compiendo assassini e saccheggi, come quelli praticati ai danni degli stessi cittadini serresi nel 1807.

Nel 21 novembre del 1935 Serra fu vittima di una violenta alluvione causata dall'esondazione del torrente Ancinale, che causò anche alcuni morti e la perdita di molti beni: il livello dell'acqua nelle zone più basse del paese raggiunse i 2 metri di altezza, come testimonia una targa presente all'ingresso della chiesa matrice.

Testimonianze dell'epoca riportano che la pioggia iniziò a cadere nel tardo pomeriggio e molte delle persone che si trovavano in giro, sorprese dalla forte tempesta, si ripararono a casa di amici o presso alcuni negozi, dove trascorsero tutta la notte. La caduta dei pali dell'elettricità oscurò le luci del paese, pertanto le case si illuminarono usando delle candele. Chi poté si riparò nei piani alti o sui mobili. La pioggia iniziò a cessare nelle prime ore del mattino successivo.

Certosa di Serra San Bruno 

Fondata il 24 giugno 1084 in Francia, nei dintorni di Grenoble, la prima Abbazia certosina, sei anni più tardi Bruno di Colonia fu convocato presso la corte vaticana da Oddo di Châtillon (suo ex discepolo, tra il 1056 e il 1076, alla scuola del Duomo di Reims), giunto in Italia nel 1080 ed eletto pontefice nel 1088 col nome di Urbano II. Costretto a stabilirsi sull'Isola Tiberina causa l'ostilità della Curia romana, favorevole al reinsediamento (1087) dell'antipapa Clemente III (Guiberto di Ravenna), tra il 1089 e il 1098 Urbano II soggiornò ripetutamente nei territori dell'Italia meridionale conquistati dai Normanni. Se non già nel 1089, negli anni 1090-1091 Bruno fu certamente al seguito del papa nel Ducato di Calabria, ove gli venne offerta la nomina di vescovo. Bruno declinò l'offerta e , ottenne dal pontefice il consenso di potersi ritirare in solitudine sull'Altopiano delle Serre calabresi, in un fondo fra Arena e Stilo donatogli da Ruggero I d'Altavilla.

Qui, nella località chiamata Torre, a circa 835 metri di altitudine, nel cuore della Calabria Ulteriore, l'attuale Calabria centro-meridionale, Bruno fondò nel 1091 l'Eremo di Santa Maria di Turri o del Bosco. Non diversamente che a Grenoble, le celle dei padri eremiti - capanne di legno e fango, rustiche e primitive, ma solide abbastanza da resistere al peso della neve - erano distribuite intorno alla chiesa monastica: un edificio in muratura di piccole dimensioni, probabilmente simile alla Cattolica di Stilo o alla chiesa di S. Ruba in Vibo Valentia. La chiesa fu consacrata solennemente il 15 agosto 1094 alla presenza di Ruggero I di Calabria e Sicilia che, per l'occasione, volle ampliare la sua precedente donazione in favore di Bruno includendovi ulteriori appezzamenti di Stilo e i casali di Bivongi e Arunco (Montepaone).

Bruno ottenne il terreno mediante un atto steso a Mileto nel 1090. Arrivato nell'alta valle del fiume Ancinale, nelle vicinanze di Spadola (unico abitato allora esistente), ne seguì il corso verso una sorgente che si perdeva in un dedalo di piccole valli, di burroni e dirupi, dietro la radura di Santa Maria. Proprio in questa radura egli trovò «una buona fontana». Vicino alla stessa fontana vi era una piccola grotta e San Bruno si rallegrò d'aver trovato il luogo ideale per una fondazione monastica. Egli cominciò, quindi, ad organizzare i gruppi ed a fissare la loro rispettiva dimora: i padri, nella conca e radura del bosco (Eremo di Santa Maria); i fratelli conversi, con i servizi domestici, a circa due chilometri di distanza, nel monastero di Santo Stefano, destinato anche a ricevere coloro che non potevano seguire completamente le regole del deserto.

Più tardi, attorno al 1094, quando il conte Ruggero gli assegnò il guardaboschi Mulè (con figli), Bruno fece in modo che gli operai impegnati nella costruzione dell'Eremo e della Certosa, parte dei quali sposati, si stabilissero a una certa distanza dai monaci, perché questi fossero da loro nettamente separati. Sorsero così le prime abitazioni che furono all'origine del paese di Serra.

Bruno, riprendendo il genere di vita che aveva condotto in Francia, trascorse così, nell'eremo di Santa Maria e nella vita contemplativa in solitudine, gli ultimi dieci anni della sua esistenza.

Avvenne in questo periodo una memorabile visita, l'incontro di Bruno con Lanuino (anche conosciuto come Landuino), il suo successore nel governo della comunità della Certosa francese, che intraprese un lungo e faticoso viaggio per incontrarsi con il fondatore dei certosini. Lanuino affiancò Bruno nella conduzione della comunità eremitica a tal punto che i diplomi di concessione, sia quelli normanni che quelli pontifici era indirizzati agli «amati figli Bruno e Lanuino». 

Alla morte di Bruno la successione di Lanuino sembrava quindi certa ma evidentemente si verificarono dei dissensi all'interno della comunità e per appianarli dovette intervenire, quale legato papale, Riccardo cardinale vescovo di Albano che riuscì a risolvere la vertenza con successo, infatti il 26 novembre 1101 Papa Pasquale II confermava l'elezione ingiungendo a Lanuino di recarsi presso il Vaticano per il sinodo Lateranense del 1102. Lanuino rimase in carica fino al 1116 e assolse in questo periodo vari delicati incarichi per il pontefice diventando quasi un delegato apostolico; si occupò dell'annosa vicenda che coinvolgeva il monastero di San Giuliano di Rocca Falluca in cui un abate ritenuto indegno non voleva abbandonare la carica ed esaminò, insieme con i vescovi di Reggio e Catania e l'abate di Sant'Eufemia le accuse mosse contro l'arcivescovo di Palermo Gualtiero. Nel frattempo aumentavano le donazioni e le immunità concesse da i re normanni alla certosa portando questa a divenire una grande signoria feudale.

Determinato a trasformare la Casa "inferiore" di S. Stefano del Bosco in una comunità di tipo cenobitico sul modello così delle lavre bizantine come delle abbazie disciplinate dalla regola benedettina, nel 1192 Guglielmo da Messina - quindicesimo successore di Bruno e per la terza volta Maestro dell'Eremo di S. Maria - intrattenne i primi contatti con Gualtiero, priore dell'abbazia cistercense di Fossanova (Latina); indi si recò a Roma per chiedere al papa Celestino III (Giacinto di Bobone Orsini) "che la Certosa di Santo Stefano abbracciasse l'Istituto Cisterciense, che in quella stagione con grido grande di santità, e di rigore a meraviglia fioriva". 

La transizione del Monastero di S. Stefano del Bosco dall'Ordine certosino all'Ordine cistercense, sancita con bolla pontificia dell'11 dicembre 1192 e assecondata dalla maggior parte dei confratelli di Guglielmo, comportò da un lato il totale abbandono dell'Eremo di S. Maria e dall'altro l'affermazione del Monastero di S. Stefano quale maggior centro ecclesiastico, amministrativo e organizzativo del Meridione, dotato di un patrimonio fondiario vastissimo con feudi e grange disseminate dalla Calabria Ultra, alla Puglia, alla Sicilia. Patrimonio talmente esteso e cospicuo da indurre a reprimere e scoraggiare perfino con la scomunica i reiterati tentativi di usurpazione messi in atto dai proprietari limitrofi.

Dell'attività edilizia promossa da Guglielmo, primo abate cistercense di S. Stefano, e ripresa fino al 1411 da tutti e 41 i suoi successori, non si conserva traccia alcuna e neppure materiale d'archivio. Tuttavia è probabile che, ereditata la chiesa monastica in muratura, tra il 1192 e il 1411 furono costruiti il muro di cinta, il chiostro, il refettorio, il Capitolo, il dormitorio, il dispensario e gli altri servizi. Attività ininterrotta e di ampio respiro; ma condotta con ben poca considerazione dell'aspetto architettonico e strutturale degli edifici. Che di fatto deperirono rapidamente: o per cause naturali - agenti atmosferici e movimenti sismici; o per la colpevole incuria degli 11 abati commendatari che tra il 1411 e gli inizi del 1500 si succedettero al governo del Monastero.

In tale stato di cose ben si può immaginare quanto divenuto fosse il Cenobio di S. Stefano da se diverso, e dai principi suoi. L'osservanza religiosa affatto decaduta: le fabbriche o dirute, o che minacciavano ruina: i sacri arredi, e scarsi, ed o logori, o smunti. Né si può escludere che, restituito definitivamente il monastero all'Ordine bruniano, gli stessi certosini abbiano demolito quanto risultava d'intralcio alla realizzazione della seconda Certosa, tanto più se dismesso o fatiscente. A tutto ciò seguirono nel 1783 la distruzione dell'intero complesso edificato tra il 1514 e il 1600 e infine, sullo scorcio del 1800, la ricostruzione ex-novo di S. Stefano in attuazione di un progetto relativamente incline al recupero delle preesistenze; e anzi tale da comportare ulteriori demolizioni proprio a danno delle vestigia cinquecentesche di maggiore interesse sotto il profilo storico e architettonico.

Risoltosi con un nulla di fatto il primo tentativo (1496) volto a restituire ai Certosini il Monastero di S. Stefano affrancandolo finalmente dalla Commenda, nel 1513 il nuovo abate Luigi d'Aragona, forte del parere favorevole espresso dalla Corte di Napoli, ottenne anche il consenso del pontefice Leone X (Giovanni de' Medici) che ne informò il priore della Grande Chartreuse di Grenoble ove, nel 1514, vennero definite le necessarie disposizioni attuative. La cerimonia della riconsegna della Certosa di S. Stefano ebbe luogo in forma solenne il 27 febbraio 1514, alla presenza dei priori delle Case meridionali (Napoli, Capri, Padula, Chiaromonte) e degli esponenti più rappresentativi dell'aristocrazia calabrese e napoletana. 

Il 1º marzo 1514 il certosino bolognese Costanzo De Rigetis, già delegato dal Capitolo Generale a riprendere ufficialmente possesso del monastero, ne assunse di fatto la reggenza in qualità di priore. Suo è il celebre "Libretto della Ricuperazione", vergato a mano nel 1523, nel quale egli descrive tutto ciò - documenti, ruderi, leggende, ricordi - che aveva trovato sul posto al suo arrivo in Calabria. (Una trascrizione del Libretto, curata nel 1629 da un tale Severo Travaglione, si conserva attualmente nella biblioteca della Certosa di Grenoble).

Restituito il Monastero di S. Stefano all'Ordine certosino, non vi fu priore che in tempo del suo governo non vi abbia speso in fabbriche, ed altri abbellimenti. Di ciò che nel corso di almeno due secoli ciascuno ritenne di poter fare e disfare senza vincoli di sorta né limite di spesa, oggi non restano che ruderi e frammenti. Tuttavia, attingendo alle annotazioni del Tromby, fondate per lo più su osservazioni dirette e/o documenti coevi custoditi fino al 1783 nell'archivio della seconda Certosa, è possibile delineare una cronologia necessariamente essenziale e schematica ma sufficientemente attendibile degli interventi più impegnativi o di maggiore importanza. Si va così dai primi lavori di restauro intrapresi su iniziativa del De Rigetis (1514); all'ampliamento del chiostro grande, articolato su due livelli e dotato di 24 celle (1523); al consolidamento del muro di cinta, rafforzato con 7 torri di guardia (1536); al completamento del chiostro e alla costruzione del Refettorio (1543);al completamento della nuova chiesa conventuale (1600); alla creazione del laghetto artificiale delle penitenze (1645); alla risistemazione del cosiddetto Dormitorio (1776).

Iniziata nel 1523 su disegno non già del Palladio e neppure di Giacomo Del Duca, bensì di un modesto quanto anonimo architetto lombardo, la chiesa conventuale si sviluppava su pianta a croce latina, con una sola navata centrale e otto cappelle laterali. Una cupola di considerevole altezza, rivestita esternamente di piombo, era situata all'incrocio della navata e del transetto. Ripartita in due ambiti nettamente distinti, riservati rispettivamente ai padri eremiti e ai conversi, la chiesa ospitava opere marmoree - altari e sculture - di pregevole fattura e si dice fosse abbellita con dipinti di Mattia Preti, Luca Giordano e Giuseppe Ribera.

Già seriamente danneggiata dai numerosi terremoti che a partire dal 1604 si registrarono in Calabria, ma ancor più gravemente per effetto dei moti tellurici del 1638 e del 1693, il 7 febbraio 1783 la Certosa di S. Stefano fu ridotta a un ammasso di macerie da un sisma devastante del 9º grado della scala Mercalli. Ceduta in più parti la recinzione perimetrale dell'Abbazia; parzialmente crollati il Capitolo, il Refettorio, il Priorato, il chiostro dei conversi e quello dei procuratori; rase al suolo le 24 celle dei padri eremiti, dell'imponente complesso edificato a più riprese nel corso del Cinquecento in pratica non restarono che l'ordine inferiore della facciata della chiesa conventuale (ritenute malsicure, le opere murarie che ne delimitavano ancora la navata furono demolite nel 1895), 34 arcate del chiostro grande (originariamente articolate su due livelli) e la vera da pozzo al centro di esso.

Ridottisi a vivere nella più grande miseria e in povere baracche allestite alla meglio tra le rovine, nel 1808 i religiosi dovettero abbandonare le loro precarie dimore in seguito alla soppressione dei monasteri decretata il 13 febbraio 1807 da Giuseppe Bonaparte. Sebbene di poco, l'esodo imposto dai Francesi fu preceduto da una consistente dispersione in beni materiali attraverso la Cassa Sacra che, istituita nel 1784 "per alleviare in qualche modo le sofferenze della popolazione colpita, si dimostrò un secondo flagello, peggiore del primo. I funzionari governativi, mandati sul posto a gestirla, asportarono quanto di meglio ci fosse: oggetti sacri in metallo pregiato, suppellettili, ..., documenti d'archivio, libri di sicuro valore". Poi furono 32 anni di completo abbandono. Ormai terra di nessuno, la Certosa divenne oggetto di ruberie e saccheggi che culminarono nell'inverno 1820-1821, allorché la chiesa monastica venne spogliata di tutto - marmi, altari, dipinti ed ogni altro oggetto di arredo.

I monaci poterono riprenderne possesso soltanto nel 1840 per allontanarsene di nuovo, ma volontariamente, nell'autunno del 1844; anche perché turbati dalla perdita del confratello portinaio Arsène Compain, ucciso dai briganti. Per concessione di Ferdinando II, vi fecero definitivamente ritorno con cerimonia solenne il 4 ottobre 1857, adattandosi a vivere alla meglio tra le rovine per qualche decennio ma provvedendo in proprio alle riparazioni più urgenti. Nel 1889 il Capitolo Generale di Grenoble affidò a François Pichat, architetto dell'Ordine, il compito di redigere un progetto complessivo di ricostruzione e restauro. Improntato alla riproposizione dei tipi edilizi e del repertorio morfologico romanico e barocco, il piano messo a punto da Pichat fu realizzato in modo sistematico e continuativo solo a partire dal 1894, in seguito a un sopralluogo dell'architetto francese in Calabria.

Nel corso di sei anni di lavoro si portarono a compimento la nuova chiesa monastica e le cappelle private, il grande chiostro e le 14 celle dei padri, la torre dell'orologio in sostituzione del vecchio campanile, la Foresteria, i luoghi di preghiera e di incontro, la Procura e gli altri servizi, le stalle e i depositi. In pari tempo si procedette alla ristrutturazione delle preesistenze cinquecentesche ancora recuperabili: il Refettorio, la Sala del Capitolo, la Biblioteca e la Cappella delle reliquie. Il nuovo complesso venne inaugurato nella festa di Pasqua del 1899, mentre la consacrazione della nuova chiesa ebbe luogo il 13 novembre del 1900.

Tra il 1903 e il 1913 fu portato a termine il restauro della chiesa seicentesca di S. Maria dell'Eremo, laddove i lavori di scavo e pavimentazione condotti tra il 1976 e il 1979 hanno messo in luce i resti dell'originaria costruzione normanna e un ossario del primo secolo di vita certosina.

Santuario Santa Maria nel Bosco 

Nel piazzale, sulla destra, si trova "il laghetto", un piccolo bacino idrico costruito in granito in cui si vede una statua di San Bruno inginocchiato e immerso nell'acqua, a ricordo della consueta penitenza del Santo Patriarca. La fonte che alimenta il "laghetto" sgorga da una nicchia timpanata, datata 1645, con due profili maschili caratterizzati da un pronunciato ciuffo di capelli sulla fronte. Sulla sinistra, attraversato un piccolo ponte di legno, si nota una fontana in pietra, in parte seicentesca, sulla quale è incisa la data 1190. 

La grande scalinata che porta al Santuario, fu eseguita, invece, nel 1951 da un corso per scalpellini, su progetto di Giuseppe Maria Pisani (1927-2016). La facciata della chiesa fu ricostruita, dopo il terremoto del 1783, con pezzi di riporto. Da notare, nella nicchia sopra il grande finestrone centrale, un mezzobusto di San Bruno, di fattura popolare, databile alla fine del Settecento. Nell'interno della chiesa, si possono notare in una botola le ossa dei compagni di San Bruno. 

L'altare rivolto verso il pubblico è stato realizzato assemblando due seicenteschi stemmi certosini in marmo ed una mensa in granito. Sull'altare, una bella Madonna lignea dell'Ottocento di fattura napoletana. Nel coro un dipinto ottocentesco raffigurante San Bruno è copia della tardocinquecentesca tela conservata nella chiesa dell'Assunta a Terravecchia. Uscendo dalla chiesa ci si trova di fronte a un tempietto chiamato "dormitorio". 

Il termine "dormitorio" può essere una corruzione della parola “romitorio”, o riferirsi al luogo dove San Bruno prendeva il riposo notturno oppure al luogo della sua sepoltura. Attraverso una cancellata in ferro battuto si nota, in una grotta di pietra, una statua marmorea raffigurante San Bruno, tradizionalmente attribuita a Stefano Pisani uno scultore serrese del Settecento. A terra, invece, protetta da una ringhiera vi è la fossa, scavata nella roccia in cui fu sepolto il Santo.

Chiesa di San Biagio

La chiesa di San Biagio è la chiesa matrice di Serra San Bruno ed è consacrata a san Biagio, patrono della città.

La facciata, realizzata in granito locale fu progettata dall'architetto serrese Biagio Scaramuzzino che ne lasciò interrotta la costruzione a metà della nicchia che oggi contiene una statua di marmo raffigurante il Cuore di Gesù. Fu completata da un altro architetto serrese, Salomone Barillari, durante la seconda metà del secolo XIX. Notevoli sulle loggette delle campane due angioli in marmo dei primi anni del XVII secolo provenienti dalla Certosa, recentemente attribuiti allo scultore tedesco David Müller.

L'interno, di tipo basilicale a tre navate divise da pilastri, è molto ricco di opere d'arte, alcune delle quali di notevole valore. Al primo e al terzo pilastro, da destra, quattro statue marmoree, S. Stefano, S. Bruno, la Madonna e S. Giovanni Battista, provenienti dalla Certosa. La Madonna e S. Bruno poggiano su due scannelli, firmati e datati DAVID MULLER TUDESCO SCULP 1611, minutamente scolpiti a bassorilievo raffiguranti il primo il Presepio e il secondo la congiura di Capua, in cui il Santo certosino apparendo al conte Ruggero dei normanni lo salva dal tradimento dei congiurati guidati da Sergio. Le altre due statue sono invece di scuola siciliana del XVII secolo. Al secondo pilastro di sinistra un interessante pergamo ligneo eseguito su disegno e sotto la direzione dell'architetto Biagio Scaramuzzino. L'opera è ammirevole, oltre che per il disegno, anche per il grande lavoro di pazienza. L'impiallicciatura di noce che lo ricopre, infatti, è lavorata a mano e, applicata sulla struttura come i tasselli di un mosaico, è tenuta insieme con minuscole zeppe. 

Nella navata sinistra spicca, nella prima cappella, una statua lignea raffigurante San Giuseppe. Eseguito nei primi anni del XIX secolo dall'artigiano Vincenzo Zaffino, ricalca negli svolazzi del mantello e nell'impostazione del corpo, che mostra una leggera torsione, le statue barocche fanzaghiane. 

A sinistra è da notare una bella statua lignea di fine Settecento raffigurante San Pasquale di Baylon, opera di un altro scultore serrese, Vincenzo Scrivo. Nella seconda cappella della navata di sinistra il Crocifisso di Antonio Scrivo spicca per l'eccezionale realismo plastico che evidenzia in modo particolare l'intaglio dei lembi della pelle sollevati intorno alle piaghe e la scultura della corda che lega il perizoma. L'opera, che replica una pittura di Guido Reni conservata a Roma, nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, fu eseguita prima del 1783

A destra si può vedere un'altra statua, San Francesco d'Assisi, scolpito a Lucca intorno alla metà del XVIII secolo. Nella cappella successiva l'Immacolata di Vincenzo Scrivo, il San Nicola di Michele Amato e un San Camillo pure di bottega serrese della seconda metà dell'Ottocento. Nell'ultima cappella della navata, sotto lo stemma vescovile di Mons. Peronacci (1682-1775), vescovo di Umbriatico, un'altra statua lucchese del XVIII secolo, San Biagio, patrono di Serra.

Attraverso la porta di legno in fondo alla navata si accede nella sagrestia, dove si possono ammirare gli armadi lignei eseguiti nei primi anni del XIX secolo da Domenico e Francesco Rossi e da Raffaele Barillari su commissione dell'arciprete Bruno Maria Tedeschi, futuro arcivescovo di Rossano. Nella navata di destra, invece, la prima cappella è dedicata a San Francesco di Paola, di cui si può ammirare la statua lignea eseguita da Raffaele Regio intorno alla metà del XIX secolo. 

Nella seconda è oggi visibile la statua lignea della Madonna del Rosario, scolpita a Lucca intorno alla metà del XVIII secolo e precedentemente coperta da un bel quadro, eseguito intorno alla metà del secolo scorso dal pittore serrese Venanzio Pisani, ora collocato nel museo adiacente alla chiesa. Sul lato sinistro dell'altare in una nicchia è collocato un gruppo ligneo raffigurante Tobiolo e l'Arcangelo Raffaele opera dello scultore settecentesco Antonio Regio. Nella terza cappella un'altra bella opera di Vincenzo Scrivo, la Madonna del Carmine. Nell'ultima, invece, l'altare fatto erigere dall'arcivescovo di Rossano Bruno Maria Tedeschi, di cui si può notare lo stemma sul timpano, conserva un'immagine lignea settecentesca di San Bruno a mezzo busto. 

In fondo alla navata il Sancta Sanctorum conserva all'interno di una struttura bronzea settecentesca il grande reliquiario dell'XI secolo, originariamente in ebano e avorio, regalato a San Bruno, secondo la tradizione, dalla contessa Adelaide, moglie del conte Ruggero dei normanni. Al centro del presbiterio si eleva l'altare maggiore, rifacimento ottocentesco del gran ciborio fanzaghiano conservato nella chiesa dell'Addolorata. Attribuito alla bottega dei fratelli Drago racchiude il tabernacolo eseguito dai fratelli Alfonso e Giuseppe Scrivo nel 1878. Nel coro sono conservati due grandi quadri raffiguranti il primo il martirio di S. Stefano, recentemente attribuito al fiorentino Bernardino Poccetti (1548-1612), e il secondo il concilio dei monaci certosini, firmato FRANCISCUS CAIVANUS PINGEBAT 1633 e una tela raffigurante l'ultima cena, opera del pittore serrese Stefano Pisani.

Chiesa di Maria Santissima dei Sette Dolori o dell'Addolorata

La facciata, a pianta semiellittica, realizzata in granito locale dal capomastro Vincenzo Salerno (+1807) su progetto dell'architetto serrese Biagio Scaramuzzino, è uno dei capolavori del tardobarocco calabrese. La porta scolpita nel 1961 da Giuseppe Maria Pisani raffigura, nelle sette valve bronzee, i dolori della Madonna. Su disegno e modello scolpito dello stesso artista fu realizzata la porta di legno intagliata da Salvatore Tripodi. 

L'interno, ad aula mononavata con pianta a croce latina, si caratterizza per i preziosi stucchi opera di Domenico Barillari e dei figli Michele e Bruno, realizzati in collaborazione con Biagio Muzzì. Nella navata, spiccano quattro medaglioni marmorei di scuola napoletana scolpiti a bassorilievo e raffiguranti due Santi barbuti, privi di attributi iconografici ma tradizionalmente considerati San Pietro e San Paolo, un certosino, probabilmente San Bruno, e San Gennaro. I medaglioni erano collocati, originariamente, sotto la cupola della vecchia certosa, come dimostrano alcune fotografie d’epoca scattate prima della demolizione delle rovine del monastero, in cui si notano, al di sopra di alcune nicchie, spazi atti a contenere bassorilievi di forma ovale. 

Le opere, tradizionalmente assegnate ad alcuni degli scultori venuti da Napoli a lavorare nel monastero serrese in seguito all’apertura dei lavori per il Gran Ciborio da parte di Cosimo Fanzago, sono state recentemente riconsiderate: il san Pietro è stato attribuito a Giuseppe Sanmartino (Napoli1720 - 1793) e gli altri tre a Matteo Bottiglieri (Castiglione del Genovesi, 1684 – 1757) facendone avanzare la tradizionale datazione di circa un secolo. Nel braccio sinistro della crociera (guardando l’altare), la balaustra dell’organo, con la parte centrale caratterizzata dalla ricca decorazione barocca in marmo traforato, impreziosito dagli stemmi certosini con gli attributi di Santo Stefano e San Giovanni Battista, proviene dal diruto monastero come “L'apparizione della Madonna a San Bruno” dipinta nel 1721 da Paolo De Matteis, già allievo del Giordano.

L’opera serrese si inserisce a pieno titolo tra le più belle composizioni del suo ultimo periodo: le figure sono immerse in una luce soffusa e calda, e il Santo, inginocchiato su una nuvola, in atteggiamento devozionale, solleva la testa, verso l’apparizione della Vergine che, con le braccia sul petto, gli rivolge lo sguardo. Nel braccio destro spicca “Il trapasso di S. Anna”, quadro già assegnato da Alfonso Frangipane alla scuola neoclassica. Nel 1959 fu Giuseppe Maria Pisani, dopo un intervento di pulitura, ad individuarne la data, 1642, sul bordo della coperta verde posta sul letto della Santa. La pittura è certamente da avvicinare agli ambienti del classicismo francese operanti in ambito certosino e non è da escludere una mano importante come quella di Eustache Le Sueur (Parigi, 1616 – 1655). La tela è stata attribuita pure a Reynaud Levieux (Nîmes, 1613 – Roma, 1699) proponendo una rilettura della data, 1672 e a Rémy Vuibert (Troyes, 1600/1607 – Moulins, 1651/1652). 

Sulle porte della sacrestia e della cappella di Santa Lucia spiccano due tele dipinte nel 1894 da Salomone Barillari, "Il Presepe" e "Le tavole della legge", mentre in alto, nelle lunette, "Il sacrificio di Isacco" e "Agar e Ismaele nel deserto" sono stati dipinti nel 1908 da Salvatore Pisani. Nel coro una bella tela di sapore morelliano raffigurante i sette santi fiorentini fondatori dell'ordine dei servi di Maria, opera di Giuseppe Maria Pisani (1851 - 1923), datata 1902. Al soffitto, un tondo raffigurante la regina Ester e il re Assuero firmato da Stefano Pisani ed eseguito sotto la guida dell'architetto Domenico Barillari nei primi anni del XIX secolo. Il monumentale ciborio fu commissionato nel 1631 a Cosmo Fanzago dal priore della Certosa di S. Stefano del Bosco, dom Ambrogio Gasco da Bordeaux (1627 - 1633). L’esecuzione delle parti metalliche fu affidata a Biase Monte, mentre la traduzione in bronzo dei modelli delle sculture si deve a due fonditori, Sebastiano Scioppi o Scoppa e Raffaele Meittener proveniente da Innsbruck

Dopo il 1650 gli subentrò Giovanni Andrea Gallo e portò a compimento l’opera. Un ruolo di primo piano nell’imponente macchina del ciborio ebbe il fiorentino Innocenzo Mangani che in quegli anni si trovava a Napoli dove fu coinvolto nella sommossa antispagnola del 1647. Gli salvò la vita Cosmo Fanzago, che gli fece trovare rifugio in Calabria, alla certosa di Santo Stefano, dove fervevano i lavori del ciborio. Ebbe un ruolo nella fusione delle statuine in bronzo dorato a mercurio che ornano l’altare, e raffigurano S. Giovanni Battista, San Giovanni Evangelista, San Pietro, San Paolo e il Cristo risorto, a cui devono aggiungersi un crocifisso e due coppie di putti canefori. Appartenevano all’altare anche due coppie di Angeli oranti, una coppia di putti alati e quattro statuine raffiguranti Santo Stefano, San Bruno, San Lorenzo e San Martino, santi titolari delle certose meridionali, conservate oggi a Vibo Valentia, nel Museo del Valentianum. Il tabernacolo templiforme, arricchito da malachiti, lapislazzuli, agata e occhi di tigre, e da quattro statuine raffiguranti i santi Girolamo, Ambrogio, Gregorio Magno e Agostino, dottori della chiesa, è tradizionalmente attribuito ad Innocenzo Mangani. 

Nei primi anni del XIX secolo il celebre altare fanzaghiano di Serra San Bruno fu modificato dagli artigiani serresi, che lo ridussero nelle misure per adattarlo alla chiesa dell’Addolorata e ne modificarono la struttura architettonica. Tra gli artefici spiccano i nomi di Domenico Tucci, che restaurò le opere bronzee, Giuseppe Drago che restaurò i marmi e Domenico Barillari fu Vincenzo, architetto, che ridisegnò l’opera. Anche la pavimentazione marmorea della chiesa dell'Addolorata, in parte ad 'opus spicatum' , ha la sua interessante vicenda storica. La ricerca, eseguita a Roma da Alfonso Frangipane, mise in luce le molte relazioni esistenti tra la Certosa di Santo Stefano del Bosco e quella romana di Santa Maria degli Angeli da cui il pavimento proviene: fu montato nella chiesa dell'Addolorata nel 1835

In questo stesso tempio si rimane colpiti dalla bella statua lignea raffigurante Maria Santissima Addolorata fatta scolpire a Lucca dal vicario don Onofrio Pisani dopo la costituzione, avvenuta nel 1694, dell'arciconfraternita dei Sette Dolori. Nella stanzetta laterale destra, detta di Santa Lucia, sono conservate tre statue lignee delle quali una raffigura Sant'Anna, opera di Raffaele Vinci, una Santa Lucia opera di Vincenzo Zaffino e il settecentesco Cristo morto proveniente dalla Certosa, alto quasi due metri, che viene portato in processione la mattina del sabato santo su di un'artistica "naca" che ogni anno cambia forma e colori secondo la fantasia e l'estro dei suoi realizzatori.

Chiesa di Maria Santissima Assunta in Cielo

La chiesa di Maria Santissima Assunta in Cielo è una chiesa situata nel quartiere storico di Serra San Bruno denominato “Terravecchia”. Esiste una chiesa omonima anche nel quartiere di “Spinetto”.

L'elegante prospetto barocco della chiesa fu montato con pezzi di granito provenienti dalla vecchia Certosa e, salvato dalle rovine provocate dal terremoto, fu adattato nei primi anni del secolo scorso alla chiesa che ospita l'arciconfraternita dell'Assunta. Il chiostro barocco della Certosa di Santo Stefano del Bosco sopravvissuto alla catastrofe tellurica, mostra infatti gli stessi elementi architettonici. La porta interna fu realizzata da Vincenzo De Francesco e dai figli Bruno Maria e Raffaele nel 1930. L'interno, mononavato, è decorato da pregevoli stucchi ottocenteschi in parte eseguiti su disegno dell'architetto Giuseppe Maria Pisani sul finire del XIX secolo. Sulla volta della nave è collocato un tondo raffigurante l'Assunzione della Vergine, realizzato da Venanzio Pisani

I due altari laterali sono stati realizzati nella prima metà di questo secolo dall'intagliatore serrese Salvatore Tripodi. Facendo ruotare sui cardini, a guisa di sportello, i due quadri ottocenteschi realizzati da un ignoto pittore meridionale, raffiguranti San Giovanni Battista e San Giuseppe, si possono ammirare due statue serresi, i santi titolari dei due altari, opere dello scultore settecentesco Antonio Regio e di Vincenzo Zaffino (1832 - 1865), nipote del grande statuario vissuto alla fine del XVIII secolo. 

L'altare maggiore, in legno, dipinto a finto marmo è un capolavoro d'intaglio e di concezione architettonica realizzato nella bottega degli Scaramuzzino dalla quale uscì il noto architetto Biagio. Sull'altare è conservata una scultura raffigurante Maria Santissima Assunta, attribuibile a Vincenzo Scrivo, statuario di grandi capacità tecniche e artistiche. Nel coro si possono ammirare due quadri: il primo, raffigurante San Bruno, realizzato alla fine del XVI secolo, esprime, riproducendo un archetipo perduto, l'iconografia calabrese del Santo, che lo vuole anziano, con il volto barbato e il bastone a forma di "tau" nella mano sinistra; l'altro, di maniera toscana, raffigura l'Annunziata di Firenze, è opera di Bernardino Poccetti (1548-1612) ed è databile intorno ai primi anni del XVII secolo.

Aree naturali

La principale attrattiva di Serra, oltre ai luoghi di San Bruno, sono le foreste. Il comune è caratterizzato dalla presenza di numerose specie vegetali tra cui le più diffuse sono: il faggio, il castagno e l'abete bianco, con esemplari di piante gigantesche, secolari, che formano un manto boschivo molto fitto.

Tra le abetine più lussureggianti vi sono quelle del grande bosco di Archiforo e quelle del bosco di Santa Maria.

Il territorio forestale, facente parte del parco naturale regionale delle Serre è attraversato dal sentiero Frassati. Altro luogo di interesse naturalistico è anche la località Rosarella famosa per il suo laghetto.

Tradizioni e folclore

Secondo l'antropologo Luigi Lombardi Satriani, nel suo libro Il Ponte Di San Giacomo in cui analizza il mondo del luogo contadino dove si rifugia e si affronta la morte, in un capitolo, ipotizza che la festa degli orrori statunitense chiamata Halloween, famosissima in tutto il mondo, sia nata in Italia a Serra San Bruno. L'usanza di svuotare una zucca, ricavarne tratti di un viso umano e porvi dentro una candela risalirebbe quindi alla migrazione delle popolazioni meridionali in America che avrebbero portato con loro e continuato a praticare una tradizione dal significato antropologico ben preciso, ovvero stabilire un contatto con i propri cari defunti. 

In Italia e in Calabria Halloween sarebbe, dunque, una “festa di ritorno”. Una tradizione esportata e rientrata nel Bel Paese con nuove usanze e nuovi riti. I gruppi di bambini che fanno il giro del paese con la zucca chiedendo un'offerta sarebbero la versione più antica e popolare del “dolcetto o scherzetto?”. Proprio come i loro coetanei americani, i bambini di Serra, infatti, bussano alle porte o più semplicemente fermano la gente per strada chiedendo: “Mi lu pagati lu coccalu?(Mi pagate il teschio di morto?).

Fonte
https://it.wikipedia.org