Vibo Valentia

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Vibo Valentia è la più piccola provincia della Calabria e abbraccia un territorio che comprende la costa tirrenica, la catena appenninica delle Serre e il vasto comprensorio agricolo dell'altopiano del Poro. La città si chiama così dal 192 a.C., mentre il suo nome di antica colonia greca era Hipponion, tra le più importanti colonie della Magna Grecia, che nel 182 a.C. divenne municipio romano con il nome di Valentia.

Incastonato nel cuore meridionale della Calabria, il territorio di Vibo Valentia sembra un piccolo sperone allungato nel Tirreno. Le radici della città sono antichissime e custodiscono uno scrigno di storia e cultura che alla bellezza selvaggia dei luoghi unisce la profonda consapevolezza culturale del passato più antico.

Nel corso della sua millenaria storia, Vibo Valentia ha avuto differenti nomi, che corrispondono all'evoluzione della città nelle epoche storiche:

- Veip o Veipuna, nome dell’insediamento osco;

- Weiponion dopo la caduta del digamma, nome della polis greca, citata come Hipponion dalle antiche fonti letterarie;

- Valentia-Vibo Valentia-Vibonia, nome del municipio romano;

- Mons Leonis-Monteleone, dal periodo svevo all'Unità d'Italia;

- Monteleone di Calabria, fino al 1928.

Al Neolitico, risalgono tracce di un'intensa frequentazione dell'attuale Vibo Valentia (strumenti del Neolitico sono venuti alla luce durante lo scavo della Necropoli Occidentale di Hipponion, Orsi segnalava altri rinvenimenti relativi a questo periodo vicino ai resti del tempio dorico in località Belvedere Telegrafo e nel tratto delle mura greche di Hipponion in località Trappeto Vecchio, il Topa ricorda vari ritrovamenti del Neolitico a Vibo, infine in recenti scavi presso via Romei sono emerse significative tracce di questo periodo). 

Tracce di occupazione nell'Età del bronzo e del ferro sono state ritrovate durante lo scavo della Necropoli Occidentale, dell'area sacra in località Scrimbia e nell'area sacra in via Romei. Il nome di questo primo insediamento indigeno doveva essere Veip o Veipuna. Per avere uno sbocco commerciale sul mar Tirreno ed evitare di fare il periplo della Calabria e quindi attraversare lo stretto (sotto l'influenza di Rhegion), nella seconda metà del VII secolo a.C. i greci di Locri Epizefiri fondarono la sub-colonia con il nome di Hipponion. 

Alla fine del VI secolo a.C., la città sconfisse in battaglia Crotone con l'aiuto di Locri e Medma: la notizia è riportata su uno scudo con incisa una dedica ritrovato a Olimpia, è da sottolineare che Hipponion ricopre il primo posto sull'incisione di certo per la principalità avuta nello scontro. Inizialmente si era supposto che lo scudo fosse un trofeo della battaglia della Sagra, ma la differente collocazione cronologica di questo evento rispetto alla datazione dello scudo e il fatto che le fonti non riportino Hipponion e Medma nella battaglia della Sagra, mentre nella dedica Hipponion occupa il ruolo principale, ha fatto cadere tale teoria. Lo scudo infatti è della fine del VI secolo a.C., sembra riferibile piuttosto a una battaglia non ricordata dalle fonti, inquadrabile probabilmente in un periodo di poco successivo allo scontro fra Sibari e Crotone, avvenuto nel 510 a.C. 

Nel 422 a.C. Tucidide riporta la notizia di uno scontro di Hipponiati e Medmei contro la propria madrepatria Locri Epizefiri, inteso fino a poco tempo fa come una sorta di ribellione delle sub-colonie contro Locri, ma in realtà i ritrovamenti archeologici attestano che Hipponion dovette essere autonoma fin dall'inizio: i ricchi doni votivi dell'area sacra in località Scrimbia attestano infatti la presenza di una ricca classe aristocratica che aveva il controllo della città sin dall'età arcaica, ciò fa comprendere come l'organizzazione sociale di Locri fosse analoga a quella di Hipponion e quindi non subordinata a quella della città madre.

Un altro segno dell'indipendenza di Hipponion è dato anche dallo scudo di Olimpia, dal quale si evince che fu Hipponion la città che guidò una guerra contro Crotone e dallo stesso Tucidide che definisce gli Hipponiati come "homoroi" (confinanti) dei Locresi.

Probabilmente ci furono dei legami di tipo federale fra Locri, Hipponion e Medma secondo il quale in caso di guerra una polis poteva richiedere l'ausilio delle altre due, e forse per una richiesta troppo pesante da parte dei Locresi in questa lega, originò nel 422 a.C., lo scontro. Dell'esito del conflitto Tucidide non ci dà notizie, ma che sia stato favorevole a Hipponiati e Medmei sembra certo dai successivi avvenimenti che videro schierarsi Locri insieme a Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa. All'inizio del IV secolo a.C., infatti, Dionisio si sposava con una donna locrese e Locri darà supporto al tiranno nelle sue spedizioni in Italia. 

Nel 393 a.C., il tiranno, una volta occupata Medma, deporta parte dei suoi abitanti a Messana e lascia il territorio della città ai Locresi. Ciò spinse HipponionRhegionKaulonKrotonThuriiVelia e una serie di centri minori, ad allearsi in vista della minaccia siracusana, creando la cosiddetta Lega Italiota, tuttavia nel 388 a.C. dopo la sconfitta degli Italioti a Kaulon nella battaglia dell'Elleporo (389 a.C.), Dionisio conquisterà Hipponion e deporterà parte degli abitanti a Siracusa, consegnandone il territorio ai Locresi. 

Nove anni dopo, nel 379 a.C., i Cartaginesi libereranno la città e la ripopoleranno con gli Hipponiati deportati da Dionisio e con altri esuli a causa della tirannia. Nel 356 a.C. la nascita del popolo Brettio causò non gravi problemi a Hipponion, che forse, seppure per un breve periodo verrà occupata da questa popolazione Italica. Nel 340-331 a.C. interverrà contro i Brettii Alessandro il Molosso re dell'Epiro che inizialmente riuscirà a liberare la greca Terina (città a Nord di Hipponion) passata da alcuni anni sotto il controllo brettio e conquistando le Brettie Pandosia e Cosenza, dando sollievo a per un certo periodo a Hipponion.

Ma nel 331 a.C. l'epirota morrà ucciso a tradimento vicino a Pandosia. Inizierà alla fine del IV secolo a.C. la realizzazione di una nuova fase della cinta muraria, dotata di torri circolari che dovevano richiedere un enorme spesa pubblica e la presenza di manodopera specializzata. Nel 294 a.C. Agatocle, Tiranno di Siracusa conquista Hipponion. Agatocle rese Hipponion uno dei suoi principali centri per il controllo dei possedimenti in Italia: da Strabone sappiamo che ne ingrandì il porto, le testimonianze archeologiche attestano il rafforzamento delle mura che renderanno la città una vera e propria grande roccaforte. Poco dopo la morte di Agatocle ci sarà lo scontro delle città della Magna Grecia con i Romani e l'intervento di Pirro. Dopo la fine della guerra, Hipponion, come gli altri centri italioti e Bruzi, passerà sotto il controllo dei Romani e verrà insediato un presidio romano. Il controllo romano sarà assente durante la seconda guerra punica, quando i Brettii passati dalla parte di Annibale se ne impossesseranno. 

Nel 192 a.C., pochi anni dopo la fine della II Guerra punica, i Romani dedurranno a Hipponion una colonia a diritto latino chiamata Valentia, con diritto di zecca e varie autonomie. Il nome Valentia (attestato sulle monete della colonia e dall'epigrafe di Polla che ricorda la costruzione della via Popilia), in latino significa forza, potenza militare, insieme al massiccio invio di coloni superiore a tutti gli altri centri del Bruzio: 4.000 soldati, di sicuro con donne e figli, fa comprendere come la capitale dell'Impero riconosceva al centro tirrenico grande importanza strategica ed economica. Successivamente, dall'89 a.C. quando divenne municipio, Vibo Valentia fu il nome utilizzato per indicare la città (Strabone, Plinio il vecchio, ecc.).

La città possedeva un ampio territorio: in epoca greca la sua chora (territorio in greco) era confinante con quella di Locri Epizephiri. Secondo gli studi più recenti il suo territorio doveva avere per confine a nord il torrente Lametos (ora Amato), a sud Nicotera e a est la catena montuosa delle Serre, a ovest il mar Tirreno; in epoca romana il confine dell'ager Vibonensis (così come lo chiama Tito Livio) si era spinto a sud poco più in giù del fiume Mesima (prendendo anche il posto di Medma, situata presso l'odierna Rosarno, che da fiorente colonia greca era ormai scomparsa in epoca romana). 

Durante il periodo romano, la costruzione della Via Popilia interessò la città che divenne un'importante stazione. Di grande importanza per lo sviluppo della città fu anche il porto, i cui resti sono in parte interrati e in parte sott'acqua fra la località Trainiti e Bivona nel comune di Vibo Valentia. Parlando di Vibo, Strabone riferisce che essa possedeva un epineion, ossia un porto che sorge a una certa distanza dalla città da cui dipende, che sarebbe stato rafforzato da Agatocle tiranno di Siracusa, dopo averlo conquistato nel 294 a.C. Durante l'epoca romana, il porto divenne il principale scalo di partenza, sul Tirreno, del legname della Silva Bruttia per la costruzione delle navi del potente esercito romano.

Grazie alla sua importanza strategica e politica, Vibo ebbe l'onore di ospitare Giulio CesareOttaviano e Cicerone, che la ricorda nelle sue lettere. Gaio Giulio Cesare aveva utilizzato il porto della città, durante le guerre civili, per ospitare metà della sua flotta; lo stesso Cesare descrive un episodio bellico avvenuto nei pressi del porto della città. La flotta stanziata a Vibo riuscì a respingere un assalto dei Pompeiani, guidati da Cassio Longino, distruggendo la nave dello stesso generale nemico che dovette fuggire su una scialuppa per, poi, una volta raggiunto le altre navi allontanarsi definitivamente dalle acque Vibonesi. 

Ottaviano come il suo padre adottivo utilizzò il porto della città come base navale. Infatti, nel 36 a.C., il futuro imperatore venne sconfitto e messo in fuga da Sesto Pompeo (figlio del più famoso Gneo) che si era impadronito della Sicilia, così con la flotta duramente colpita dalla sconfitta si rifugiò nella fiorente città tirrenica ove stabilì il suo quartier generale e visse per circa un anno. Appiano nell'opera sulle guerre civili descrive i vari spostamenti della flotta che aveva come base principale Vibo Valentia.

Quando Pompeo venne definitivamente sconfitto, la città, che per l'importanza e la prosperità raggiunta era stata scelta come territorio da assegnare ai veterani come colonia, venne esonerata dal gravoso incarico insieme a Reggio per i meriti ottenuti in questo frangente, mantenendo così illesa la sua fiorente economia. Almeno a partire dal V secolo (ma probabilmente già un secolo prima) diventa sede di una diocesi, il nome nel tardo impero cambia in quello di Vibona

Dopo la fine dell'impero romano i bizantini provvidero a fortificarla, ma i saraceni l'attaccarono e saccheggiarono più volte. Ruggero I di Sicilia pose nell'XI secolo i suoi accampamenti a Vibo e in seguito trasferì la sede della diocesi, presente a Vibo fin dal V o IV secolo, nella sua Mileto. Sempre in questo periodo, Ruggero smantellò colonne e marmi degli antichi edifici classici di Vibo Valentia per utilizzarli a Mileto nella costruzione di altri edifici. Federico II di Svevia passando dalla città, rimasto impressionato per la bellezza e il potenziale strategico del luogo (Nicolai de Jamsilla, De rebus gestis Federici II imperatoris), diede l'incarico al "secreto" di Calabria, Matteo Marcofaba, di ricostruirla e ripopolarla e da allora cambiò il nome in Monteleone.

In questo periodo venne realizzata la prima fase del castello che per errore veniva attribuita al periodo Normanno. Sotto gli Angioini la città acquisì ancora più prestigio e prosperità, divenendo serie del vicario reale. Sempre nello stesso periodo venne ulteriormente rafforzato e ingrandito il castello e la cinta muraria medievale. In seguito fra il periodo Angioino e Aragonese, divenne Feudo dei Caracciolo e poi comune demaniale. 

Nel 1501, usurpando quelli che erano i diritti della città, venne affidata nuovamente come feudo ai Pignatelli. Per questo scoppiò una rivolta per il quale dovette intervenire il generale Lo Tufo del regno di Napoli. Quest'ultimo non riuscendo a domarla, chiamò per discutere i sette capi del popolo che vennero uccisi a tradimento. Qualche anno dopo, la monteleonese Diana Recco che aveva perso un fratello e il padre nella rivolta, uccise a pugnalate il generale Lo Tufo che stava partecipando alla cerimonia di matrimonio di una delle figlie. In ogni caso i Pignatelli pensarono allo sviluppo della città, creando filande, oleifici e favorendo molte attività artigianali.

Nel XVII secolo, Monteleone è uno dei centri serici più produttivi della regione. In questo periodo nella città si svolgeva un importante mercato della seta che aveva come destinazione Napoli o Cava dei Tirreni.

Nell'Ottocento i francesi la elevarono a capoluogo della Calabria Ultra e da allora fino a pochi decenni addietro fiorirono tanti mestieri, il cui ricordo è nel nome di strade (Via Forgiari, via Chitarrari, via Argentaria, ecc.) e di istituzioni come il Real Collegio Vibonese (l'ancora esistente Convitto Filangieri e il teatro Comunale, demolito negli anni sessanta). Dopo il ritorno dei Borbone la città perse il ruolo di capoluogo e la sua importanza politica ed economica venne ridimensionata. 

Durante le guerre per l'Unità d'Italia, Garibaldi passò da Monteleone dove ottenne aiuti materiali e finanziamenti da parte degli abitanti. Nel 1861, dopo l'Unità d'Italia, il nome della città venne cambiato in Monteleone di Calabria.  

Sotto il Fascismo, per opera di Luigi Razza, giornalista, politico, deputato al Parlamento e Ministro dei Lavori Pubblici, si avviò un grande rilancio nel campo dei lavori pubblici, in cui spicca la costruzione del Palazzo del Municipio (finito di costruire nel 1935 e che, secondo il progetto iniziale, avrebbe dovuto accogliere, al termine, la Prefettura della costituenda provincia) in stile razionalista. 

Per iniziativa dello stesso Razza, nel 1927 un regio decreto ispirato dal governo fascista che diverrà effettivo il 13 gennaio 1928, ribattezzò la città da Monteleone di Calabria a, secondo l'antica dizione latina, Vibo Valentia. La spinta edilizia pubblica nella città ebbe un deciso arresto quando il ministro Razza scomparve in un incidente aereo in Egitto nel 1935. La città ha  successivamente voluto onorarne la memoria con una statua bronzea, a figura intera, scolpita da Francesco Longo nel 1938 e personalmente inaugurata da Benito Mussolini nel 1939 durante la sua visita alla città, la quale si erge in Piazza San Leoluca su un alto piedistallo, sormontato da una stele recante in cima l'effigie marmorea della Vittoria alata. Un'altra effigie gli è stata riservata nel Palazzo del Municipio, a lui intitolato. A Luigi Razza la città ha inoltre intitolato il proprio aeroporto militare, lo stadio, una piazza e una via del centro storico.  

Avvenimento più importante degli ultimi anni, nel 1992, è stata la proclamazione dell'omonima provincia, che in precedenza era compresa nella provincia di Catanzaro.  

Nel 1993, con la realizzazione di un monumento, la città ha inteso onorare la memoria di un suo abitante, Michele Morelli, patriota e martire del risorgimento.

Nel corso degli anni novanta, Vibo Valentia dedica una piazza e un busto bronzeo al poeta Vincenzo Ammirà.

Il 3 luglio 2006 viene duramente colpita da un'alluvione, che provoca la morte di quattro cittadini e ingenti danni economici all'industria, al turismo e ai beni dei privati. I danni maggiori si registrano nelle località di Longobardi, Vibo Marina e Bivona, investite da una grande quantità di acqua, fango e detriti. Gli interventi di sistemazione sono stati affidati a una commissione presieduta da Pasquale Versace, docente di Idrologia e Progettazione di Opere Idrauliche all'Università della Calabria.

Luoghi d'interesse

Le radici della città sono antichissime e custodiscono uno scrigno di storia e cultura che alla bellezza selvaggia dei luoghi unisce la profonda consapevolezza culturale del passato più antico. Un patrimonio straordinario di bellezze naturali e architettoniche, di storia, di cultura, di tradizioni popolari, che contribuisce a fare della città un importante polo di attrazione e d'interesse per il turismo nazionale e internazionale. L’architettura del centro urbano è dominata dall'imponente castello normanno-svevo, oggi sede del Museo archeologico intitolato a Vito Capialbi, illustre erudito vibonese, che custodisce la Laminetta aurea, il più antico testo Orfico rinvenuto in Italia e probabilmente uno dei reperti più preziosi provenienti dal passato ellenico. Il centro storico conserva intatte le geometrie del borgo medievale, con i palazzi monumentali in tufo giallo e lastricato con grossi blocchi di pietra lavica.

Il Vibonese offre scorci di straordinaria intensità emotiva, ricco di paesaggi che comprendono uliveti, i campi di grano, aranceti e limoneti, vigneti arroccati sui fianchi delle colline e il profumo inebriante delle zagare in fiore nelle calde notti estive. Spettacolare è la Costa degli Dei, frastagliata e ricca di insenature rocciose alternate a spiagge morbide e sabbiose. La Costa degli Dei è il regno degli sport acquatici, grazie alla possibilità di escursioni subacquee che permettono di ammirare i bellissimi fondali e la fauna marina. Le acque marine del vibonese e i suoi venti attraggono molti appassionati di kitesurf e windsurf, che trovano su questo mare le condizioni ideali per praticare questi sport. 

L'entroterra della provincia, con i folti boschi e le bellezze della natura, è una meta ideale per chi ama praticare il trekking. Uno dei luoghi più rinomati è la zona di Capo Vaticano, che nasconde una tipica fiumara calabrese circondata da una vegetazione ricca e lussureggiante con oltre 300 specie di piante. Sono molto belle da esplorare anche le grotte e i sentieri dei monaci nei pressi di Tropea, dove è possibile anche sfruttare i percorsi per il trekking a cavallo o in bicicletta. La varietà del paesaggio offre location uniche per osservare la flora e la fauna e il profilo geologico tipico del patrimonio naturalistico della zona, con particolare riferimento alla visita dei parchi e delle riserve naturali. Molti esperti di birdwatching si recano nel vibonese in tutte le stagioni dell’anno. 

Vibo Valentia rappresenta attualmente uno dei principali poli industriali della regione, con aziende operanti nel settore alimentare, chimico, tessile e materiale da costruzione. Rilevante è l'attività del porto che presenta un notevole movimento di merci, e quella turistica, in forte espansione grazie ad una lungimirante politica di rivalutazione del patrimonio costiero. 

Numerose sono le occasioni di meraviglia disseminate lungo il centro storico della città e nel territorio circostante. Il centro storico di Vibo Valentia è un ricco intreccio di chiese, monumenti ed edifici medievali, barocchi e ottocenteschi dove è difficile distinguere dove finisce un'epoca e dove ne inizia un'altra e questa è probabilmente la caratteristica in cui risiede il suo fascino. Camminando lungo Corso Umberto I non si può non notare il bellissimo portale di marmo di S. Maria La Nova, mentre dal Belvedere Grande si gode di un ottimo panorama che abbraccia la costa tirrenica da Capo Palinuro a Messina. 

Il Duomo di Vibo Valentia, dedicato al patrono S. Leoluca, è stato costruito a fine '600 sui resti di una chiesa bizantina e all'interno custodisce un altare imponente con la statua della Madonna della Neve. La sua facciata è incorniciata tra due campanili mentre sono da vedere le bellissime porte in bronzo che raccontano la storia della città. Dell'antica chiesa, dove si vuole fosse custodito il sepolcro di San Leoluca, rimangono alcune testimonianze architettoniche di grande pregio. L'interno è a tre navate e comprende un altare maggiore settecentesco con un gruppo in marmo di Carrara di A. Caccavello, una tavola del ‘500, Madonna della Sanità mentre di grande splendore è il transetto sinistro con il suo trittico in marmo di Antonello Gagini. 

Annesso al Duomo è l'elegante e imponente Valentianum, ex convento domenicano restaurato nel 1982. Le sue sale ospitano il Museo d'arte Sacra, dove si possono ammirare importanti sculture provenienti dal Ciborio della Certosa di Serra San Bruno, il sarcofago del patrizio Decio de Suriano, piviali e arredi sacri di ottima fattura meridionale. 

Interessanti da visitare sono l'Arco Marzano e la Porta Torre del Conte d'Apice, due porte del XII secolo tra i monumenti più antichi della città. 

Vibo Valentia è anche una città moderna e vale la pena fare una passeggiata lungo il Corso Umberto I e immergersi in un’atmosfera attuale in mezzo a negozi e botteghe. Scendendo verso il mare a Vibo Marina, si possono visitare il castello di Bivona, nato come fortificazione contro le incursioni piratesche, e il complesso architettonico della Tonnara del 1885.

Chiesa di Santa Maria Maggiore e San Leoluca (Duomo)

Chiesa di Santa Maria Maggiore e San Leoluca (Duomo): La chiesa di Santa Maria Maggiore e San Leoluca è il principale luogo di culto cattolico di Vibo Valentia, situato a 497 metri s.l.m. nell'omonima Piazza San Leoluca. Costruito sopra i resti di una più antica basilica danneggiata dai terremoti, è decorato da numerosi e pregevoli stucchi barocchi e conserva importanti opere d'arte, fra cui il trittico statuario di Antonello Gagini, opera rinascimentale.  

L'attuale chiesa principale di Vibo Valentia sorge dove esisteva anticamente una cattedrale bizantina probabilmente del IX secolo, che venne fortemente danneggiata durante i terremoti del 1638 e 1659. Resa ormai pericolante e inagibile, fu colta l'occasione per un rinnovo definitivo, in termini di dimensioni e di gusto architettonico. Nel 1680 ebbero inizio i lavori di costruzione della nuova chiesa su progetto di Francesco Antonio Curatoli. Il progetto del Duomo nuovo era inizialmente più ampio, ma venne in seguito ridimensionato su pressione dei vicini padri domenicani per il fatto che il nuovo edificio, con la sua mole, avrebbe oscurato la loro chiesa. Il cantiere si protrasse per una quarantina d'anni e fu ultimato nel 1723, a un anno dalla morte del suo progettista. Appena costruita, la chiesa presentava al posto dell'attuale frontone una grande corona basilicale e vi era anche una cupola con lanterna. L'edificio venne consacrato nel 1766.

Nel 1783, solamente diciassette anni dopo la consacrazione, un forte terremoto danneggiò la struttura, lesionando la cupola, che venne abbattuta. L'interno fu restaurato su progetto di Emanuele Paparo. Detti lavori si svolsero nel 1817; gli stucchi furono eseguiti dal pittore Fortunato Morano, che seguì i disegni di Paparo. In casa Morani a Polistena si conservano ancora disegni originali e capitelli in gesso. Anche la facciata viene parzialmente ricostruita, donandole l'aspetto attuale.

Nell'Ottocento l'edificio subì nuovi interventi: in particolare vennero aggiunti i vari affreschi neoclassici.

All'esterno, la chiesa presenta una facciata moderatamente barocca, un poco plastica e con vaghi accenni rinascimentali. Sono presenti un corpo centrale, che costituisce la facciata vera e propria della chiesa, e due campanili gemelli laterali, che chiudono al loro interno il prospetto della chiesa. Facciata e campanili sono collegati da un motivo unitario di lesene su due ordini, quello inferiore tuscanico e quello superiore ionico, separati da un cornicione che, al centro, si piega verso l'alto seguendo i profili del portale sottostante e della finestra al di sopra, evidenziando così maggiormente la zona centrale e focale del prospetto. L'ordine superiore di lesene sostiene un altro cornicione, sul quale si impostano il timpano triangolare del corpo centrale e le celle campanarie dei due campanili, che proseguono verso l'alto con un ulteriore ordine di lesene ioniche, chiuse in sommità da un ultimo cornicione e da una copertura a cupola. Unici elementi plastici del corpo centrale sono i vari fregi e le cornici che decorano il portale d'ingresso e il finestrone superiore, mentre i due campanili, soprattutto grazie alle varie nicchie presenti e alle relative cornici, sono caratterizzati da una maggiore plasticità.

Internamente, la chiesa è impostata su una pianta a croce latina, con navata unica e transetto. Sull'intersezione fra quest'ultimo e la navata era presente la cupola, inserita nel progetto originario e poi abbattuta dopo il terremoto del 1783. L'imposta è ancora presente, così come parte del tamburo con i finestroni circolari, ma a questo livello l'alzato si interrompe bruscamente ad è concluso da una generica copertura a volta. Le pareti dell'aula sono ritmate da lesene di ordine corinzio, ornate da numerosi ed elaborati stucchi bianchi che ricoprono anche la volta a botte di copertura. Sono inoltre presenti quattro cappelle laterali, due per lato.

La chiesa custodisce al suo interno un maestoso altare maggiore settecentesco in marmi policromi di notevole fattura. dal quale emerge la statua rinascimentale della Madonna della Neve. L'opera di maggior valore qui conservata nella Cappella del Purgatorio resta però il celebre Trittico statuario rinascimentale di Antonello Gagini, eseguito fra il 1523 e il 1524 e fatto trasportare all'interno della chiesa da Emanuele Paparo nel 1810. L'opera si trovava precedentemente nella chiesa di Santa Maria del Gesù, nota anche come chiesa di Santa Maria la Nova. Il trittico è composto da una ordinata cornice architettonica in marmo scuro con colonne corinzie, che inquadra tre nicchie dove trovano posto, da sinistra a destra, le statue della Madonna delle Grazie, di San Giovanni Evangelista e di Santa Maria Maddalena. Quest'ultima, in particolare, grazie al suo armonico equilibrio delle parti è considerata un capolavoro della statica. Il coronamento superiore del trittico, con affresco centrale e volute, è da considerarsi aggiunta successiva. La chiesa è poi ornata da elaborati stucchi, anch'essi opera settecentesca, e dai quadri di Emanuele Paparo che si ispirano ad opere pittoriche di varie epoche.

Ai lati della Cappella di San Basilio sono documentate la Vergine con bambino e San Luca Evangelista.

Giorgio Vasari nelle sue cronache, riferendosi all'artista Antonello Gagini come "Antonio da Carrara" scultore rarissimo, documenta le opere censite in Calabria, in particolare quelle commissionate da Ettore Pignatelli, conte e duca di Monteleone, viceré di Sicilia, custodite a Monteleone. Nella fattispecie fa riferimento alle tre diverse raffigurazioni della Vergine Maria: la Madonna delle Grazie, la Madonna della Neve, la Madonna col bambino destinate in origine alla chiesa di Santa Maria del Gesù o Santa Maria la Nova dell'Ordine dei frati minori osservanti. Le commissioni sono state rielaborate in corso d'opera, arricchendosi rispettivamente delle figure di San Giovanni Evangelista e Santa Maria Maddalena, San Luca Evangelista, dando luogo a tre distinti aggregati scultorei custoditi nel medesimo luogo di culto.

Sulla cantoria in controfacciata, si trova l'organo a canne Gaetano Cavalli opus 413, costruito nel 1894. Lo strumento è racchiuso all'interno di un'artistica cassa lignea dipinta e scolpita in stile barocco, che incornicia il finestrone della controfacciata. La trasmissione è integralmente meccanica e la consolle, ha finestra, ha un'unica tastiera di 58 note e pedaliera di 27 note.

Santuario della Madonna della Salute (Chiesa di Santa Ruba)

Sorge a metà strada fra Vibo e uno dei paesi satelliti della stessa (San Gregorio d'Ippona). Considerata come il gioiello di San Gregorio d’Ippona, la chiesa di Santa Ruba si trova tra il verde degli ulivi ed è stata elevata da poco a Santuario Mariano Diocesano con il titolo di "Maria Santissima della Salute". Non esistono notizie certe sul motivo della denominazione "Santa Ruba”, anche perché nella tradizione locale non è mai esistito il nome Ruba e quindi si pensa che tale nome sia dovuto al luogo impervio sulla quale fu costruita la chiesa (una Rupe) e dove i monaci si ritiravano a pregare quindi il nome originario sarebbe stato "Santa Rupa". 

Di origini antiche (venne costruita attorno all'anno 1000 sotto papa Callisto II), presenta una cupola d'ispirazione orientale. 

La struttura della chiesa è formata da una costruzione a pianta simmetrica di chiesa rurale, con abside semicircolare, coronata dalla cupola centrale ad ombrello eretto su un tamburo cilindrico poligonale. La caratteristica principale di questa struttura è proprio la cupola che si trova in corrispondenza dell’altare maggiore e da dove si nota il sovrapporsi di strati di tegole in cerchi concentrici. Le numerose trasformazioni e adattamenti di cui sono rintracciabili numerose applicazioni di sovrastrutture barocche hanno fatto si che venisse modificato lo stile originario della chiesa. All’esterno è possibile vedere un ornamento di lesene con meandro superiore a linee spezzate che ha come cornice una merlatura a scopo decorativo.

Si dice che inizialmente questa chiesetta era stata costruita dai monaci basiliani per pregare e per accogliere i fedeli che abitavano nelle campagne circostanti ed inoltre costituiva un sostegno per le popolazioni smarrite durante le invasioni musulmane. Più tardi essa fu ampliata e furono costruite delle stanze annesse, destinate ai monaci basiliani che vi sarebbero rimasti oltre il XVI secolo. Fu abitata fino al 1908 quando l’ultimo frate rimasto andò via a causa dei danni del terremoto del 1905, e da allora fu abbandonata e divenne cadente. In quel periodo alcuni abitanti di Mezzocasale per evitare che la statua della Madonna venisse trafugata se la portarono nelle proprie case per poi consegnarla al sacerdote don Teti.

La chiesa venne restaurata molti anni dopo ad opera della sovrintendenza alle belle arti e riaperta al culto del pubblico nel 1977. Non esistono notizie certe che ci possano dare informazioni sul perché della denominazione "Santa Ruba" anche perché nella tradizione locale non è mai esistito il nome Ruba e quindi si pensa che tale nome sia dovuto al luogo impervio sulla quale fu costruita la chiesa (una Rupe) e dove i monaci si ritiravano a pregare quindi il nome originario sarebbe stato "Santa Rupa".

Un problema che riguarda la chiesa di Santa Ruba è quello della sua datazione, infatti non esistono documenti certi risalenti al periodo della sua fondazione. Alcuni studiosi che si sono interessati del caso hanno trovato nella chiesa tracce di una struttura primitiva fatta risalire al periodo bizantino–basiliano. Addirittura si pensa che la sua fondazione vada dal X sec. agli albori dell’XI. Altri studiosi sostengono che sia stata eretta in questo periodo posticipando però la sua fondazione nel XII sec. sostenendo inoltre che la chiesa sia stata oggetto di rifacimenti intorno al 1700. A coronamento di queste interpretazioni dobbiamo citare la testimonianza di Paolo Orsi che definisce Santa Ruba "un gioiello di origine bizantina-basiliana con architettura barocca".Un altro studioso afferma che la costruzione dell’edificio risalga al 1610 e cita il documento contenente la richiesta da parte di un cittadino di Monteleone, che voleva realizzare questa chiesa.

Sia essa bizantina–basiliana o con architettura barocca la certezza che possiamo dare e che vedendola da vicino essa suscita nell’animo una sensazione di meraviglia, facendoci ammirare l’ingegno degli uomini del passato, che pur senza mezzi a disposizione riuscirono a creare un tale gioiello di inestimabile valore. Tutto ciò ci fa capire come le nostre origini siano un grande patrimonio da custodire con cura. Vi invitiamo a venire a visitarla.

Altri edifici religiosi

Chiesa del Rosario - In prossimità della Villa Comunale si trova la Chiesa dedicata alla Madonna del Rosario, costruita intorno al 1280 dai frati Minori, ma che ha subito interventi significativi nel corso del ‘700 ed ha assunto il nome attuale solo nel corso del XIX secolo quando l’edificio, originariamente dedicato a San Francesco, venne affidato alla Confraternita del Rosario che aveva visto la propria chiesa distrutta dal terremoto del 1783. 

Al XVII ed al XIX secolo appartengono i molti dipinti delle scuole locali che arricchiscono l’interno dell’edificio e che rappresentano la Madonna della Salute, la Crocifissione di San Francesco e il Martirio di Santo Stefano, la Madonna del Rosario e San Michele Arcangelo. Molto interessante, poi, è la trecentesca Cappella De Sirica, dedicata a Santa Caterina che ha mantenuto lo stile gotico, rappresentando uno degli esempi più significativi di questo stile nel sud Italia.

Chiesa Madonna del Carmine - Questo edificio ha due diverse denominazioni: Madonna del Carmine e chiesa di San Michele e San Giuseppe. Fu costruita nel 1864 sull’antica chiesa di San Sebastiano risalente al 1500. Questa venne donata nel 1600 ai padri Carmelitani. Nel 1783 fu danneggiata dal terremoto e nel 1806 diventò il “carcere dei briganti”.  

La chiesa sorge all’interno del perimetro della vecchia chiesa e ha una pianta ellittica che testimonia il tardivo ricorso a tipologie barocche e a forme barocche in Calabria. Sull’asse maggiore dell’ellisse si trovano il portale e l’altare maggiore, mentre su quello minore vi sono le cappelle di dimensioni in profondità 1 metro e 20 centimetri e una larghezza di 3 metri. 

Il tetto è a falde inclinate costituite da manto in tegole in coppi, con struttura portante poggiante sui muri perimetrali. Il paramento interno è costituito da eleganti colonne, con capitelli ionici a ghirlanda, sulle quali corre un architrave su cui si imposta la cupola con nervature decorate a stucco.  

Chiesa di San Michele - Si ha traccia di questa antica chiesa, esempio di architettura rinascimentale, dalla data dell'8 agosto 1519, quando il vescovo di Mileto, Andrea Della Valle, la elevò a parrocchia.

La chiesa è stata aperta al culto nel 1536 nell’anno stesso in cui morì il suo progettista, l’architetto Baldassarre Peruzzi. L’edificio fu ampliato nel 1671 e fu molto danneggiato nel 1783 a causa del terremoto che colpì l’intera regione. 

Il campanile, su probabile disegno di Baldassarre Peruzzi, a torre quadrata, con tre ordini sovrapposti, aveva un orologio il cui meccanismo è stato ritrovato sul posto e sarà conservato in un museo, all'interno vi è un quadro di Luca Giordano San Michele che scaccia Lucifero. Presente anche un dipinto di Ludovico Mazzanti Estasi di Sant'Ignazio.

La chiesa è costituita da un’unica navata rettangolare coperta da una volta a botte lunetta, da un ambiente centrale con la cupola a tamburo e da un capellone a sinistra, rispetto all’altare Maggiore, costruito nel 1695 che, insieme all’altro altare di destra, posizionato leggermente più in profondità, definisce il braccio del transetto coperto con volta lacunare. Quest’ultimo altare è ritenuto l’antico oratorio del Santissimo Sacramento, dove è preservata la maggior parte dei tesori sacri della chiesa. Il campanile di San Michele, alto circa 30 metri fu costruito su quattro piani sovrapposti con una serie di paraste alleggerite. 

Chiesa di Santa Maria degli Angeli - Costruita tra il 1621 e il 1666, dapprima annessa al convento dei frati minori riformati (oggi Convitto Nazionale), è dal 1866 curata dai padri cappuccini

Conserva all'interno un Crocifisso ligneo detto "degli Angeli" di ignoto autore del '600, meta di migliaia di devoti che si recano ogni anno, per antica tradizione, in pellegrinaggio nei venerdì di marzo. In più due quadri attribuiti a Luca Giordano e la scultura Madonna con bambino di Michelangelo Naccherino.

Chiesa di Santa Maria del Soccorso - L’edificio sacro risale agli inizi del XVII secolo. È stato aperto al culto nel 1632 e come le altre, fu danneggiata dal terribile terremoto del 1783. Qualche anno più tardi fu restaurata dall’ingegnere Bernardo Morena. Nel 1800 furono installati due mosaici romani. L’abside fu rifatta interamente nel 1879. Il restauro, successivamente, interessò l’intero edificio.

La chiesa oggi presenta un’ampia navata centrale con transetto e abside, fiancheggiata da due navatelle minori, notevolmente più basse, divise da quelle centrali da robuste colonne toscane. Il tetto della navata centrale è a doppia falda ed è costituito da mante in coppi, poggianti sui muri perimetrali della navata centrale e sugli altri muri perimetrali. 

L’esterno di presenta a due piani con l’inferiore largo fino a comprendere l’intero corpo, e il superiore impanato, corrisponde invece alla sola navata centrale. Il raccordo tra i due livelli è risolto con delle balaustre occultanti le coperture delle navate laterali. Il primo livello con paraste e specchiare, è caratterizzato da un portale poco sporgente, coronato da un timpano curvilineo; il secondo livello, anch’esso segnato da paraste, presenta due nicchie laterali e una specchiata centrale davanti alla quale vi è una statua della Madonna. 

Chiesa di San Giuseppe - Voluta dai Padri Gesuiti e annessa al collegio da loro ivi fondato, venne edificata sulla base di un progetto di Francesco Grimaldi e fu aperta al culto nel 1701 col titolo di Sant'Ignazio o del Gesù.

Conserva all'interno numerose opere pittoriche tra cui La visione di Sant'Ignazio e scultoree come il gruppo ligneo di San Giuseppe sull'altare maggiore.

E' sede parrocchiale unitamente alla vicina chiesa di San Michele e vi è tuttora attiva la Confraternita di Gesù, Maria e Giuseppe che cura tra l'altro la suggestiva processione della Madonna Desolata la notte del Venerdì Santo.

Chiesa Santa Maria la Nova - Costruita nel 1521 con il nome di Santa Maria di Gesù dal duca Ettore Pignatelli, ne custodisce il sarcofago. Si presenta attualmente con stili diversi e ospita al suo interno un marmo del Gagini. 

Durante la dominazione napoleonica fu adibita a stalla e deposito militare, fu restaurata e riaperta nel 1837 per volontà di Enrico Gagliardi. All'interno presenti opere del pittore fiammingo Dirk Hendricksz.  

Chiesa di Sant'Antonio di Padova - Chiesa del XVII secolo annessa al convento dei Frati Minori Cappuccini.

All'interno è possibile ammirare una tela di Luca Giordano, La Madonna col bambino tra i Santi Anna e Felice, e l'Immacolata con i santi Francesco e Antonio di Padova di Pacecco De Rosa.

Chiesa di Sant'Omobono - L’edificio sacro è stato aperto al culto nel 1710. La chiesa è a navata unica con specchiature laterali. Le sue dimensioni sono assimilabili a quelle caratteristiche di una schiera vibonese e, pertanto, si potrebbe pensare che il “basso” sede della confraternita di Sant’Omobono (nell’immagine sotto a sinistra) coincidesse con la chiesa. panni. Le riunioni avvenivano nella sala capitolare del convento di S. Pietro a Belluno e nel 1461 venne deliberato di erigere nel chiostro anteriore una cappella intitolata a S. Giovanni Battista, S. Giovanni evangelista e Sant’ Omobono. 

I primi statuti risalgono al 1344, mentre un aggiornamento venne fatto nel XVI secolo. Essi regolavano la vita della confraternita sia dal punto di vista devozionale che professionale, fissando i giorni lavorativi e i rapporti tra maestri e lavoranti. Da un inventario del 1772 sappiamo che la scuola, oltre ai registri pervenutici, possedeva altri due libri delle parti, due di contabilità, uno di affittanze, una matricola ed uno statuto a stampa.

Il protettore dei sarti - La confraternita raggruppava i sarti, i cimatori, i lanari e i drappieri, tutte categorie attinenti la lavorazione dei panni. Le riunioni avvenivano nella sala capitolare del convento di S. Pietro a Belluno e nel 1461 venne deliberato di erigere nel chiostro anteriore una cappella intitolata a S. Giovanni Battista, S. Giovanni evangelista e Sant’ Omobono. I primi statuti risalgono al 1344, mentre un aggiornamento venne fatto nel XVI secolo. Essi regolavano la vita della confraternita sia dal punto di vista devozionale che professionale, fissando i giorni lavorativi e i rapporti tra maestri e lavoranti. Da un inventario del 1772 sappiamo che la scuola, oltre ai registri pervenutici, possedeva altri due libri delle parti, due di contabilità, uno di affittanze, una matricola ed uno statuto a stampa.

Una mano da artista - La tradizione sartoriale calabrese e meridionale è riconosciuta in tutto il mondo e trova radici molto antiche. Il culto di Sant’Omobono, protettore dei sarti e lui stesso sarto, ne è testimonianza. La confraternita dei sarti in Calabria trae la sua origine a Catanzaro nei primi del Seicento ed è stata molto attiva anche a Vibo Valentia. La confraternita si riuniva proprio nella chiesa che oggi è intitolata a Sant’Omobono. 

Il mestiere del sarto ancora oggi trova a Vibo Valentia un’espressione di altissima qualità. In realtà quella del sarto è un’attività ad alta professionalità. La parte più difficile è quella del taglio. Sbagliare significa dover rifare tutto e rimetterci denaro. A pari merito di difficoltà si colloca la presa delle misure. Il sarto deve avere l’occhio allenato e realizzare un abito su misura perfetto è pressoché impossibile. 

Un buon sarto deve conoscere a perfezione il corpo umano, capire le diverse conformazioni e “progettare” un taglio che “copra” i difetti. Non c’è sarto che non sia dotato della pazienza di Giobbe. I clienti (che spesso sborsano somme di non poco conto) sono, di solito, molto pignoli e il sarto deve mettere mano all’abito più volte dopo le prove. Ma non c’è più grande soddisfazione di un abito che cala a pennello. La mano del sarto è esattamente come quella di un artista. Egli deve sbalordire non solo chi indossa l’abito, ma anche chi lo guarda. 

Chiesa dello Spirito Santo - Edificata nel 1579, è tuttora sconsacrata al culto; fu il primo duomo della città prima della costruzione dell'attuale, nonché sede straordinaria e dimora, nel 1613, dell'allora vescovo Virgilio Cappone. 

Conservava al suo interno molte opere artistiche che, alla sua chiusura furono spostate in altre chiese della città; la parrocchia di cui era sede fu trasferita, pur mantenendo lo stesso titolo, nella vicina chiesa di Santa Maria La Nova.  

Castello normanno-svevo

Il castello sorge dov'era ubicata probabilmente l'Acropoli di Hipponion che in parte si estendeva pure sulla collina vicina. Del castello, che nel corso dei secoli ha subito diverse modifiche e danni, rimane ancora molto in piedi, anche se una delle ragioni per cui lo visitano in tanti è la vista che da qui è meravigliosa e spazia dai golfi sul Tirreno alla Sila e alle Serre.  

Nonostante la prima fase di costruzione della struttura venga volgarmente attribuita all'età normanna, in realtà, essa risale al periodo svevo quando Matteo Marcofaba governatore della Calabria venne incaricato da Federico II di ripopolare e favorire lo sviluppo della città. il castello venne ampliato da Carlo d'Angiò nel 1289 quando assunse più o meno un aspetto simile a quell'odierno. Fu rafforzato dagli Aragonesi nel XV secolo e infine rimaneggiato dai Pignatelli tra il XVI-XVII secolo, perdendo quasi del tutto la funzione militare e assumendo invece quella di abitazione nobiliare.

Il secondo piano fu demolito di proposito, in quanto pericolante, a causa dei danni riportati dopo il terremoto del 1783. Il castello presenta oggi delle torri cilindriche, una torre speronata e una porta a un'arcata di epoca angioina. 

Il castello ospita il Museo archeologico statale. Fondato nel 1969 e intitolato all'archeologo vibonese Vito Capialbi, è situato all’interno del Castello e custodisce reperti significativi dell’età tardo ellenistica e romana. Il museo è prevalentemente caratterizzato da quattro sezioni riguardanti reperti provenienti da luoghi di culto, reperti archeologici di necropoli, materiali risalenti all’età romana. Di particolare importanza è la spada risalente al tredicesimo secolo a.C. proveniente da una necropoli romana; il monetiere Capialbi, che contiene pregiati aurei locresi ed una collezione di monete d’argento Brettie risalenti alla fine del terzo secolo a.C. ed il busto di Agrippa. 

L'attuale allestimento, in ordine topografico e cronologico, comprende materiale proveniente dai recenti scavi della città e della zona, oltre a nuclei antiquari otto-novecenteschi appartenenti a studiosi locali. La collezione è divisa in quattro sezioni principali: reperti dagli edifici sacri, dalle necropoli, dalle collezioni private e materiale d'età romana. 

Da vedere ancora il corredo di una tomba dell'età del Bronzo; materiali votivi provenienti dal santuario rinvenuto in località Scrimbia; tra i reperti delle necropoli, una lamina in oro con iscrizione greca relativa al culto orfico. Inoltre vasi a figure nere e a figure rosse, frammenti architettonici dipinti, provenienti da collezioni private vibonesi. Nella torre nord sono esposti alcuni reperti provenienti dalle necropoli romane, dalla città tardo-antica e dalle ville rinvenute nel territorio.

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Castello di Bivona

Il castello di Bivona venne fatto edificare nella prima metà del Quattrocento da Mariano d'Alagno fratello di Ugone e di Lucrezia, governatore di Monteleone, a difesa del porto. Il castello ha una pianta più o meno rettangolare con quattro torri circolari agli angoli. Venne abbandonato alla fine del Seicento per la formazione di paludi nelle vicinanze. 

Oggi il castello si presenta molto degradato e sono in corso programmi di recupero e di restauro. La pianta è regolare, lievemente trapezoidale con delle torri circolari agli angoli esterni.

Mettete dei fiori nei vostri cannoni - Nel 1500, sotto il governo dei Pignatelli, il castello fu utilizzato per la lavorazione della cannamele (canna da zucchero) alla cui coltivazione erano dedicati i terreni vicini. Una incredibile trasformazione dell’uso che da militare divenne industriale. Fra le mura del castello i truci militari che preparavano munizioni per i cannoni, furono sostituiti da pacifici lavoratori che trasformavano gli steli legnosi del “Saccharum officinarum” in dolcissimo zucchero o nel cosiddetto “falso-miele”. La lavorazione della cannamele fu interrotta nel 1680 probabilmente per l’insalubrità dell’aria causata dalla stagnazione di acqua proveniente dai torrenti Trainiti e Sant’Anna. 

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