Adagiata
sul Kratas, un lembo meridionale dei Monti Sicani, sorge una delle
più antiche città della Sicilia: Caltabellotta.
La sua
posizione straordinariamente forte ha fatto di questa cittadina montana
un punto strategico rilevante che l’ha resa protagonista, per oltre
duemila anni, della storia di tutto il territorio che va dal fiume Belice al
fiume Platani.
Contesa,
dominata, saccheggiata e distrutta dai popoli che hanno occupato la
nostra Sicilia, è sempre riuscita a sopravvivere e a rigenerarsi
cambiando talvolta la sua ubicazione e perfino la sua onomastica.
Due
grotte, situate sulla cima del Monte S. Pellegrino, riportano le
sue origini ad un’età preistorica.
Le
quattro necropoli che circondano la città attestano una presenza sicana
riconducibile all’età del bronzo antico.
Sul
vicino monte Gulèa in età protostorica si formò
il primo nucleo di un insediamento che, estesosi prima al contiguo
terrazzo San Benedetto e poi ai villaggi vicini, diede vita
alla città di Inycon.
L’acropoli
inizialmente sorse sulla cima del monte Gulèa, ma intorno al XIII
sec. a.C. la sede reale venne trasferita sulla vicina rupe denominata Camico,
oggi Gogàla, eponimo del suo illustre sovrano, Cocalo.

Divenuta
leggendaria per aver resistito a cinque anni di assedio, viene oggi
annoverata tra le più famose acropoli dell’antichità, insieme alle
coeve Micene, Pergamo di Troia e Cadmea di
Tebe. La città raggiunse un elevato sviluppo nel VI sec. a.C. ma,
a seguito della sua ellenizzazione, dovette cambiare il suo nome sicano Inycon,
ricordato per l’ultima volta da Erodoto e da Platone (V
sec. a.C.), in quello greco di Triokala, citato per la prima volta
da Filisto di Siracusa (V sec. a.C.).
Il
nuovo toponimo sintetizza tre qualità vantaggiose: abbondanza
d’acqua, fertilità del suolo ed un forte sistema difensivo (Diodoro).
Nel 258
a.C., nel corso della prima guerra punica, la città venne distrutta dai
Romani (R. Panvini). Ma, a differenza di tutti gli altri centri sicani
fortificati di cui si è persa la memoria, essa tornò a rivivere perché
i suoi abitanti rifondarono Trokalis (la Nuova Triokala) nei
pressi della vicina frazione di S. Anna, oggi denominata contrada Troccoli (V.
Giustolisi).
La Gogàla visse
le stesse vicende della vecchia città, ma la sua storia non si fermò
al III sec. a.C. perché successivamente venne chiamata a suggellare
altri eventi straordinari
Nel
corso della seconda guerra servile (104-99 a.C.) il capo degli
schiavi Salvio Trifone, avendo deciso di evitare la città
ritenendola causa di inerzia e di neghittosità (Diodoro), si insediò
con i suoi 40.000 uomini sul terrazzo di San Benedetto e sulla
rupe Gogàla riportando in vita la città distrutta dai Romani, ma
soltanto per cinque anni perché lo scontro si concluse con la disfatta
degli insorti. I mille schiavi superstiti, guidati da Satiro,
preferirono togliersi la vita piuttosto che combattere contro le fiere
nell’arena, segnando con il loro sacrificio una delle pagine più
nobili della storia.
Sotto
il dominio romano e poi sotto quello bizantino Trokalis dovette
sopportare, per oltre dieci secoli, le condizioni di città tributaria.

Con il
trionfo del Cristianesimo la città divenne sede di una delle più
grandi diocesi della Sicilia, i cui confini ancora una volta furono
segnati dai fiumi Platani e Belice.
Si
tramanda che il suo primo vescovo fu S. Pellegrino, venuto da Lucca
di Grecia.
Nel IX
sec. d.C. la popolazione, minacciata dalle incursioni saracene, fu
costretta a tornare nuovamente sulle cime del Kratas dove, su
un angolo della Gogala, oggi denominato Terravecchia,
diede vita ad un nuovo insediamento cui venne attribuito il nome
Balateta (R. Pirro).
Subentrati
gli Arabi (860-1091) il borgo adottò il nome Qalat al Balat,
fortezza costruita sulle balate, cioè sulla pietra spianata (Edrisi),
da cui l’odierna Caltabellotta.
Cacciati
nel 1091 dal conte Ruggero, gli Arabi furono costretti trasferirsi nella
vicina Sciacca dove si insediarono in quel quartiere che ancora oggi
porta il nome di Ràbato.
Ad essi
si sostituirono i Normanni i quali chiusero la via di accesso di Qalat
al Balat con una cinta muraria e due porte (Salvo Porto e San
Salvatore).
La loro
presenza durò fino al 29 dicembre 1194, quando Guglielmo III,
l’ultimo erede al trono normanno, e sua madre, la regina Sibilla,
vennero prelevati con l’inganno dal castello di Caltabellotta, dove si
erano rifugiati, e, accusati di aver ordito una congiura contro Enrico
VI di Svevia, vennero arrestati e condotti prigionieri in Germania.
Ad essi
subentrò la dinastia sveva.
Nel
1270 nello stesso castello venne festeggiato il ritorno di Guido
d’Ampierre dalla crociata condotta da S. Luigi IX re di
Francia e in quell’occasione parteciparono al sontuoso banchetto molti
nobili che vennero rallegrati dal più famoso menestrello dell’epoca, Adam
le Roi.
Scoppiata
la Rivoluzione del Vespro (31 marzo 1282), Caltabellotta seguì
l’esempio dei palermitani. La guerra tra Angioini ed Aragonesi si
concluse il 29 agosto 1302 con il trattato di pace che venne firmato a
Caltabellotta e Federico III d’Aragona, venuto in soccorso dei
Siciliani, divenne re di Sicilia col titolo di Federico II.

Il
dominio spagnolo segnò la decadenza della centralità politica ed
amministrativa di Caltabellotta ed il suo territorio venne
frazionato in contee.
Nel
1338, per volontà del re Pietro II d’Aragona, fu nominato primo
conte di Caltabellotta l’ammiraglio del regno, Raimondo Peralta.
Nell’estate
del 1400, a seguito delle nozze tra Artale de Luna e Margherita
Peralta Chiaramonte, figlia di Guglielmo, la contea passò alla famiglia
dei Luna che ricevette in dote le terre e i castelli di Bivona, Cristia, Giuliana, Poggio
Diana e Sciacca.
La
presenza spagnola si protrasse fino al 1713 quando la Sicilia venne
assegnata al piemontese Amedeo II e, dopo una breve presenza
austriaca, nel 1734 venne unita al regno Borbone di Napoli. Il resto è
storia recente.
La
frammentazione del suo territorio e la proliferazione di una miriade di
feudi favorì la nascita di piccole borgate che nel tempo progredirono
in prosperosi centri urbani.
La città
vide incrementare anno dopo anno la popolazione ed il territorio di
Bisacquino, Bivona, Burgio, Giuliana, Prizzi, Sambuca e Sciacca, già
piccoli insediamenti arabi, e tra il XIII ed il XVII secolo tutto il
comprensorio venne costellato di nuovi centri rurali: S. Stefano
Quisquina (XIII secolo); Chiusa Sclafani (1320); Salaparuta (XIV
secolo), Contessa Entellina e Palazzo Adriano (1450); Villafranca Sicula
(1499); Alessandria della Rocca (1570); S. Margherita Belice e Montevago
(1572); Calamonaci (1574); S. Anna e Lucca Sicula (1622); S. Carlo
(1628); Ribera (1630); Cianciana (1640); Menfi (XVII sec.).
Oggi
Caltabellotta non è più titolare di quel potere politico ed
amministrativo che un tempo appartenne alla capitale del regno sicano di
Cocalo, ma ha conservato il privilegio di poter dominare (virtualmente)
dall’alto del suo Castello Luna tutti i centri urbani
che nelle serene notti d’estate, con i loro brillanti luccichii,
segnalano l’area e i confini entro i quali un tempo si ergevano i suoi
imponenti castelli.
Ruderi
della Chiesa di San Francesco di Paola

L’ex
chiesa di S. Francesco di Paola, è un’altra struttura architettonica
di Caltabellotta meritevole di essere valorizzata. Il primo impianto di
quella che successivamente doveva diventare la chiesa in questione si può
fare risalire fra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo ed era stata
dedicata originariamente da Ruggero il Normanno alla Madonna della
Raccomandata, come era solito fare il religioso condottiero all’epoca
della cacciata degli Arabi. Inserita in un contesto particolarmente
suggestivo, nella parte alta del centro urbano a ridosso del quartiere
Pietà e a poche decine di metri da dove sorgeva, fino ai primi anni
'60, una porta di accesso all'antica fortezza, detta comunemente
Salvoporto, conserva intatto il fascino di antico monumento che tanta
storia ha visto svolgere davanti a sé.
Fra
le numerose chiese, grandi e piccole, tutte comunque molto belle della
cittadina montana, questa è sicuramente una delle più antiche e
continua orgogliosamente a resistere e ad aspettare pazientemente un
meritato restauro.
Dalla
via molto stretta, che porta il suo nome, balza prepotente alla vista il
bellissimo portale che in verità meriterebbe ben altra luce e ben altra
visibilità. Strutturalmente è composta da un unico vano di forma
rettangolare, accostato ad un altro fabbricato di pregevole fattura,
costituendone appendice dal lato occidentale.
Il
monumento presenta un orientamento strutturale est-ovest, con il lato più
lungo parallelo alla strada rivolto a sud, su cui è inserito il
pregevole portale, sul quale è scolpito a bassorilievo lo stemma
votivo, detto comunemente "Agnus Dei" adottato da Ruggero il
Normanno, cioè l'agnello con croce greca inframmezzato a due colonnine
tortili, molto probabilmente opera di lapicidi locali, arte un tempo
molto fiorente a Caltabellotta.
I
muri perimetrali sono giunti fino a noi dall'antica struttura normanna e
la compagine muraria, nella parte bassa, è realizzata prevalentemente
in conci giustapposti di pietra calcarea, la qualcosa ha permesso al
monumento di arrivare fino ai nostri giorni. Nella parte superiore del
prospetto, a seguito di interventi successivi, sono state aperte due
finestre di forma rettangolare: una più grande a destra, l'altra più
piccola a sinistra, segno che la struttura in alcuni momenti è stata
adibita impropriamente ad abitazione. Il lato minore, rivolto verso est,
è contraddistinto da un arco a tutto sesto, anch'esso realizzato in
conci di pietra squadrata, parzialmente tompagnato.
I
due muri perimetrali minori, sormontati da due timpani di forma
triangolare, denotano l'origine della copertura a capanna. Tutta la
parete esterna a sud, la vera quinta prospettica, si presenta in
precarie condizioni statiche, stante la totale mancanza di manutenzione
che nel tempo ha creato forti scompensi strutturali.
Naturalmente
attenzione particolare merita il magnifico portale situato a circa un
metro di altezza rispetto all'attuale sede stradale e definito ai due
lati da due esili colonne bilobate, sormontate da capitelli incassati
con superiore cornice modanata leggermente aggettante, dalla cui sommità
si dipartono i rinfianchi dell'arco a sesto acuto a triplo rincasso, che
formano il portale d'ingresso principale della struttura, quando cambiò
nome e divenne chiesa di S. Francesco (XVI).
Ai
margini, verso l'interno, due rosette finemente scolpite ingentiliscono
il ritmo scandito della sequela dei conci isodomi. Da una più attenta
lettura riferita allo stile e alla geometria adottate, a parte qualche
riferimento esile di memoria arabo-normanna, si possono scorgere
elementi architettonici goticheggianti che si acuiscono proprio nella
organizzazione della ghiera a triplo rincasso, con l'interposizione, tra
la prima e la seconda, di una minuta decorazione a saetta. Ai due lati
del portale due colonnine, scanalate e sormontate da due capitelli,
arricchiscono il prospetto.
Chiesa
della Madrice (Cattedrale)
Le
prime notizie sulla Chiesa Madre di Caltabellotta provengono dal Nicotra,
che racconta: Avendo Ruggero normanno sin dal 1061 tolta quasi tutta
l'isola al dominio saraceno, nel 1090 si portò sotto Caltabellotta, che
tenevasi ancora da costoro. Al di lui appressarsi gli uscirono incontro
gli abitanti ed attaccarono battaglia nel sito ove fu Triocala, ma benché
superiori di numero ai normanni furono con molto danno costretti a
ritirarsi nel castello, ove strettamente assediati e forzati dalla fame
si arresero. Nel luogo ove vinse la battaglia, Ruggero volle fosse
eretto un tempio che dedicò a S. Giorgio, elettosi a suo speciale
protettore. Nel diploma del 1098 risulta che il tempio fu dato in cura
ai padri basiliani, assegnando loro quella stessa campagna, ove con
pochi cavalli sbaragliò e costrinse a ritirarsi i saraceni. Il re
Ruggero, figlio del conte, assegnò nel 1134 il beneficio al monastero
grande del Salvatore di Messina. Il re Alfonso D'Aragona lo assegnò in
seguito ai conti di Caltabellotta.
Queste
sono le prime notizie sull'esistenza di un edificio destinato al culto
cattolico, ma è caratterizzante la scelta del luogo, marginale rispetto
al paese, a differenza della maggior parte degli insediamenti abitativi
di ogni epoca dove la chiesa Madre è sempre ubicata in posizione
centrale. Al di là di quanto riportato nel famoso diploma del
1098, va considerata la morfologia del luogo, con particolare attenzione
alla rupe Gogàla.
Questo
monte, chiamato anche Matrice dai residenti, reca evidenti tracce di un
antico insediamento con fondamenta quadrangolari di case scavate nella
roccia, gradini intagliati, tombe e cisterne. E' chiaramente visibile un
sistema di canalette per convogliare le acque piovane nelle cisterne,
solitamente scavate all'interno delle case. La viabilità è costituita
da strade strette, scavate nella roccia e l'insieme rivela una
pianificazione urbanistica unitaria ed intensiva.
Sul
versante meridionale, la torre quadrangolare detta Galofara, presenta
una tessitura muraria che per la dimensione e disposizione dei conci
farebbe pensare ad una costruzione di epoca bizantina. Gruppi di tombe
isolate ai margini delle zone abitate, e delle quali è rimasto solo il
contorno all'interno di un'area definita, fanno pensare all'esistenza di
piccole chiese cimiteriali e, la accertata sacralità del luogo,
concorre a giustificare la fondazione della Chiesa Madre.
Risulta
che nel 1 sec. d.C., Tríocala fu sede vescovile e il primo vescovo fu
San Pellegrino, nato a Lucca di Grecia e mandato in Sicilia
dall'apostolo Pietro assieme a Massimo e Marciano. Il permanere della
sacralità del luogo in epoche e civiltà diverse non si limiterebbe al
Santuario di S. Pellegrino, ma è verosimile si verifichi anche per la
Chiesa Madre di Caltabellotta. L'ipotesi trova conferma nel fatto che il
luogo di culto si trova nel contesto dell'abitato cristiano-bizantino
laddove, per altro, doveva anche preesistere un'antichissima devozione
pagana. La devozione a S. Marta sarebbe quindi la persistenza popolare
dell'adattamento che subì il culto pagano nella primitiva chiesa
cristiana.
Sotto
la chiesa Madre, dove sgorgava fino a qualche tempo fa una sorgente -
fatto notevole per lo stabilirsi della sacralità del luogo - sono state
rinvenute delle tombe che secondo j. Schubring sono romane, con
scheletri di alcuni inumati che, a dire dei popolani, avevano una
monetina in bocca. Il perdurare della destinazione ad area sacra deve
essere avvenuto anche durante tutto il periodo della dominazione araba.
I musulmani infatti non disdegnarono di trasformare in moschee le
preesistenti chiese cristiane, o edificare i loro luoghi di culto (un
esempio è la cattedrale di Palermo) nello stesso sito delle chiese
cristiane precedentemente demolite, sia per sovrapporre la loro cultura
e tradizione religiosa a quella dei vinti, sia per affermare
inequivocabilmente il loro potere. Non deve meravigliare la scelta poi
di Ruggero, sulla ubicazione della chiesa, perché la cancellazione
delle moschee aveva il medesimo significato anche per i nuovi
conquistatori normanni.
Dopo
il regno di Ruggero, caratterizzato da numerose costruzioni sia civili
che religiose, per la mutevolezza delle condizioni politiche e i
disaccordi tra il potere temporale e quello spirituale l'architettura
chiesastica siciliana ebbe un periodo di stasi che durerà fino alla
fine del XIV secolo, quando inizia il governo stabile degli aragonesi. I
pochi monumenti rimasti di questo periodo, pur riprendendo gli schemi
planimetrici delle costruzioni arabo normanne, raggiunsero una completa
unità di linguaggio architettonico essendo venute meno le influenze
arabe che avevano caratterizzato i secoli precedenti. Si assiste così
all'abbandono delle cupole islamiche poste a copertura sia della nave
che dei campanili, ed i soffitti lignei a stalattiti cedono il posto a
quelli più semplici, ma non per questo meno suggestivi, con l'orditura
a vista, mentre le decorazioni cominciano a risentire l'influsso delle
correnti nordiche importate dalle maestranze tedesche giunte al seguito
della corte imperiale.
L'articolazione
della pianta, abbandonata da tempo la croce greca, si svolge secondo lo
schema basilicale a tre navate con transetto; e l'adozione di questo
impianto dà la possibilità di costruire un numero maggiore di altari e
quindi anche di soddisfare l'esigenza della cripta sotto il transetto.
Nasce così un organismo architettonico, variamente articolato, che
offre diverse visuali spaziali, oltre alla possibilità di avere
all'interno della chiesa spazi destinati a più funzioni. L'edificio
religioso non ha infatti l'uso esclusivamente ecclesiastico a cui oggi
siamo abituati: la chiesa come istituzione non è ancora un potere ben
determinato e l'interferenza tra potere statale ed ecclesiastico avrà
come effetto finale la lotta per le investiture. Agli organismi
chiesastici non sono estranee neanche le funzioni difensive: sorgono così
grandi complessi religiosi al limite della città murata, quasi sempre
in posizione sopraelevata rispetto al territorio circostante le cui
torri collegate visivamente con le altre sparse nel territorio e
all'interno della città. Un aspetto non sufficientemente indagato è
quello relativo alla semasiologia (teoria del significato)
dell'architettura religiosa.
In
questo periodo storico, nonostante il duplice aspetto spirituale e
temporale la progettazione degli organismi religiosi è improntata
essenzialmente all'esaltazione spirituale. Sorgono edifici con dodici
colonne, a ricordo dei dodici apostoli che sono appunto i sostegni della
chiesa; la pianta cruciforme rappresenta la croce di Cristo, mentre il
massimo della esasperazione progettuale improntata a certe ideologie si
raggiunge col piegare l'asse longitudinale di alcune chiese, a simbolo
della testa inclinata di Gesù sulla croce, mentre la sovranità celeste
viene rappresentata attraverso l'arco per accedere all'abside
arrotondata, coperta da una volta. Si riconosce comunque il gusto
ereditato dagli arabi, ed assimilato dagli architetti locali, per le
cortine murarie eseguite con piccoli conci di pietra perfettamente
squadrati e ammorsati: l'amore per tale perfetta stereotomia resta a
lungo nell'animo dei progettisti isolani, fino a quando l'indisponibilità
di manodopera adeguata non li fa ripiegare su tecniche diverse. Derivano
da questa maniera di concepire il paramento murario mirabili esempi di
architettura in cui il colore e la struttura della pietra determinano
insieme il carattere delle costrizioni. Per la prima volta si
costruiscono fondazioni isolate per i pilastri, mentre quelle della
muratura sono continue. Gli archi vengono eretti con l'impiego di una
centina e richiedono murature di grande spessore per assorbire le spinte
o i carichi indotti. Nella cortina muraria si realizzano aperture e vi
si inseriscono colonne, archi e volte per soddisfare un equilibrio
statico di nuova complessità.
Il
pavimento della chiesa dell'epoca ha un'importanza ancora maggiore di
oggi, in quanto libero da sedie e panche, anche se è spesso
estremamente semplice: in lastre di pietra o in mattoni, sempre in
armonia con il carattere della costruzione. Non mancano comunque
pavimentazioni ricche di intarsi che vanno dal semplice disegno
geometrico a più complesse composizioni figurative racchiuse entro
comparii incorniciati. Venuta meno l'influenza arabo-bizantina, la
decorazione si manifesta soprattutto nell'espressività formale del
capitello, a trapezio, a calice godrons di derivazione normanna, in cui
foglie ornamentali, forme anticheggianti ed elementi figurativi,
appaiono come retaggio di un mondo culturale più antico.

La
decorazione esterna fonda principalmente sui portali, evidenziati da una
serie di archi acuti realizzati secondo piani diversi e terminanti su
capitelli riccamente scolpiti. Nel quadro dell'architettura di questo
periodo la Chiesa Madre di Caltabellotta è la tessera di un mosaico che
si presenta mutilato e alterato in gran parte del suo disegno globale.
Una descrizione tratta dal Nicotra nel suo dizionario dei comuni
siciliani dei 1907.
Fra
le opere pregevoli per l'antichità notasi questa chiesa che molti hanno
creduto fosse stata moschea dei saraceni, ed altri con più probabilità
dicono fosse quel magnifico tempio a doppio ordine di colonne, di cui
parla il Malaterra, fatto innalzare dal conte Ruggero, in onore di S.
Giorgio, in seguito alla vittoria ivi portata sui Saraceni. Sulle
colonne a grandi dischi di pietra, sovrapposti vedonsi ancora degli
affreschi molto primitivi e rovinati dall'umido.
La
parte di fondo, vicina all'altare maggiore è stata trasformata nel
secolo XVI a stile toscano. In essa vi è una fonte di acqua benedetta,
situata alla parte posteriore con iscrizioni arabe e segni cristiani.
Nella cappella della Madonna della Catena esistono pregiate statue,
eseguite nel 1598 dal giulianese Antonio Ferraro. Peccato che tale
cappella - racconta il Di Marzo - sia oggi tutta in rovina e nulla più
tra poco si troverà di quel tanto, che ancor oggi rimane delle opere
del Giulianese, ove non vi si rechi pronto riparo.
L'arco
esteriore fiancheggiato da due colonne ornatissime, ha tuttavia al di
sopra, fra due maestose figure o statue di lsaia e Geremia, un
bellissimo gruppo dell'Assunta con grande corteggio di angeli in
svariate attitudini di invincibile grazia e vaghezza. Le Madonne con
bambino del 1596 attribuite ad Antonello Gagini testimoniano quel
manierismo siciliano, le cui note stilistiche sono al pari e
contemporanee a quelle più alte della cultura d'avanguardia del tempo.
La
cappella del giulianese è invece una delle ultime composizioni
realizzate dal Maestro ed è da considerarsi una delle opere
testamentarie più complete dove pittura, scultura e architettura si
fondono per dare vita ad una complessa armonia fatta di alternanze di
pieni e vuoti, di ritmi simmetrici e precari equilibri
compositivi.
La
chiesa è a tre navate, con una serie di cappelle sul lato sinistro di
chi entra. Robusti pilastri cilindrici e semiottagonali lateralmente
sorreggono semplicissimi capitelli, composti da elementi essenziali: un
abaco, sotto un tegolino e uno schiacciato toro semicircolare. Gli archi
sia longitudinali che trasversali, formano veri diaframmi lungo la nave
centrale, e sono a sesto acuto, dal profilo variabilissimo, dovuto agli
assestamenti subiti nei secoli. Sono anche ben evidenti i diversi
momenti stilistici all'esterno, come nel portale principale dove il
varco archiacuto è sottolineato dalle asciutte ed essenziali membrature
e da disadorni bastoni che ne determinano le molteplici ghiere, e che
continuano negli spigoli dei piedritti. I capitelli fitomorfi,
estremamente stilizzati, detti fiori a chiodo, si possono datare alla
seconda metà del XIII secolo.

Il
paramento murario di facciata, corrispondente alla navata centrale, è
costituito da una fodera dalla listatura isodoma non facilmente databile
rivelata dal parziale crollo dei conci di paramento, interessanti anche
parzialmente il portale, dopo il sisma del 1968.
La
muratura di quasi tutto il complesso è un misto tra murature pseudo
isodome, di pezzatura piuttosto regolare e di conci ben lavorati e
squadrati, mente trasformato, all'interno di tipica matrice normanna, ma
anche araba. La torre presenta anch'essa una tessitura muraria
perfettamente isodoma, ed è chiaramente riferibile al primo periodo
normanno, ipotesi avvalorata anche dal nudo disegno della ghiera del
piccolo portale d'ingresso. Aldilà del diaframma costruito nel 1968
dopo i gravi danni subiti dall'edificio a causa del sisma, si sono
potuti osservare dall'esterno i resti di altre cappelle che
originariamente dovevano essere inscritte entro archi lanceolati,
ricoperti da stucchi nella fase di trasformazione del XVII secolo.
La
pianta è stata completata, nelle parti inaccessibili, da un rilievo
degli anni trenta attraverso il quale si sono potuti individuare, anche
dall'esterno, i resti dell'antico transetto, profonda del quale si
possono intravedere le colonne che ne marcavano il disegno. All'interno
della chiesa si trovano senza precisa destinazione, due pregevolissime
Madonne con Bambino, di scuola gaginesca, di rarissima fattura, in
perfetto stato di conservazione.
Nella
quarta cappella vi è la statua marmorea di un santo vescovo, da
attribuirsi alla stessa scuola. Sulla navata laterale ovest, si aprono
due porte di cui una murata, corrispondente all'esterno con un pregevole
portale dall'inconfondibile disegno della prima metà del XII secolo. Il
secondo portale visibile solo dall'esterno, nella parte isolata dal muro
di chiusura, presenta una ghiera contornata da elementi lapidei a punta
di diamante.
Chiesa
e Convento di San Pellegrino
Aggirando
l'alta rupe, si raggiunge un belvedere, donde una scalinata porta
all'eremo di San Pellegrino, massiccio edificio conventuale oggi in
stato di agonia, che si allunga fra le rocce, nella essenzialità della
compatta scatola costruttiva: venne ampliato, su una originaria
fondazione normanna, nel Settecento, nel sito in cui la leggenda colloca
la vicenda del trionfo del santo vescovo sul drago divoratore, del quale
in un anfratto della sottostante grotta, sede originaria del culto di
San Pellegrino, e forse sua antica dimora, si indica il pietroso
giaciglio.
È
l'adiacente chiesa il prodotto artisticamente più interessante:
scandisce la bella facciata (1721) un linguaggio di raffinate euritmie
barocche, che si esaltano nella composita membratura del portale con
ridondante fastigio e nella plastica mostra dell'ornato rosone
ottagonale; all'interno, da vedere il settecentesco simulacro ligneo di
San Pellegrino (va in processione il 18 agosto) e una marmorea statua
del Santo, datata 1755.
L'Eremo,
edificato nel XVII secolo, è sito nella parte più alta del monte
omonimo e insieme alla piccola chiesa attigua, costituisce un complesso
omogeneo. Durante il XVIII secolo tutto il complesso venne ristrutturato
e ampliato dall'eremita Stefano Montalbano. La chiesetta presenta uno
splendido portale in stile barocco impreziosito da un medaglione
decorato.
Percorrendo
un atrio che si trova a sinistra della chiesa, si accede a due profonde
grotte che nel tempo furono adibite a veri e propri santuari.
Le
grotte, legate al culto del mitico San Pellegrino, vescovo di Triocala,
custodiscono diversi e splendidi affreschi, nicchie e suppellettili
appartenuti, secondo la leggenda, allo stesso. Vi sono conservati pure
due pannelli di maiolica risalenti al 1579 e al 1608. Splendida è la
vista panoramica di cui si può godere appena fuori dall'Eremo, che
spazia su tutta la fertile vallata sottostante.

Chiesa
del San Salvatore
La
Chiesa del Salvatore è collocata ad Ovest del Piano della Matrice, in
uno spazio urbano fortemente qualificato e di eccezionale valore
paesaggistico, a pochi passi dall'ingresso del Castello della Regina
Sibilla (normanno), appartenuto alla famiglia Luna, e detto comunemente
Castello Nuovo per distinguerlo dall'altro posto sul costone roccioso
opposto, edificato in epoca bizantina. Lo spiazzo confina a sud con
l'antichissimo quartiere Terravecchia, il più alto e antico della città.
L'importanza storica del luogo è confermata dalla presenza di emergenze
monumentali, che costituiscono esempi assai rari della cultura normanna
siciliana.
La
severità dell'espressione linguistica e la completa assenza di
qualsiasi intenzionalità decorativa rendono l'opera davvero rara nel
suo genere ed estranea al clima culturale della Sicilia occidentale.
Originariamente il manufatto era inserito entro la cerchia muraria; oggi
è libero da altri fabbricati e occupa ormai uno spazio periferico
rispetto all'attuale centro cittadino.
La
Chiesa del Salvatore, dalla sua fondazione ha subìto nei secoli diverse
manomissioni; proprio per la sua ubicazione a pochi passi dall'ingresso
dell'antico castello appartenuto alla famiglia Luna, sarà stata
utilizzata, con buona probabilità, come cappella ad uso dei castellani.
Dal punto di vista architettonico possiamo dire che l'impianto
originario, a navata unica a pianta rettangolare, è realizzato con
muratura di pietrame informe e con tetto a capanna, privo di intonaco
esterno.

La
porta di accesso originaria, ancora visibile, era aperta come di
consueto nel lato ovest. Successivamente, in una delle tante
manomissioni è stato inserito il prezioso portale di chiaro gusto
Chiaramontano, lungo la fiancata sud. La sua collocazione peraltro non
è stata fatta a regola d'arte, cosa evidenziata dalla cattiva
sovrapposizione dei conci. La stessa simmetria del portale non è
perfetta, essa risulta, infatti, sbilanciata verso destra e la stessa
muratura, utilizzata per la costruzione di una parte del muro d'ambito
su cui è stato inserito, è in conci isodomi mentre il resto della
costruzione è fatta di muratura di pietrame informe.
L'ingresso originario (ad ovest) immetteva in un vestibolo con soppalco
ligneo atto a sorreggere il coro.
L'interno
è un rifacimento barocco che, della originaria chiesa normanna conserva
oltre alla storia un'acquasantiera a pianta ottagonale poggiante su una
colonna granitica e poco altro. La navata è coperta da volta a botte,
con unghie di raccordo sulle lunette del secondo ordine; è suddivisa in
tre campate da archi lievemente aggettanti che si dipartono dalle
paraste. Il pavimento è formato da mattonelle di ceramica maiolicata
con una colorazione che dà sull'azzurro.
Nella
navata quattro affreschi, due per lato, raffigurano episodi della vita
del Salvatore; essi sono definiti da cornici modanate in stucco. A causa
dell'umidità pregressa le immagini sono gravemente degradate, come pure
il motivo del falso balaustrato che compare sul parapetto del coro. La
semplice superficie interna delle pareti è interrotta da una serie di
paraste leggermente aggettanti che sostengono la cornice marcapiano. Il
presbiterio semi circolare, leggermente rialzato è diviso dalla navata
da una ringhiera in ferro battuto.
Stucchi,
cornici e paraste sono piuttosto lineari e scevri da ogni eccessivo
decorativismo. L'altare maggiore in muratura e legno, dedicato a Cristo
Risorto, è costellato da puttini e figure sacre in stucco, di schietto
gusto popolare, ormai parzialmente crollato. Dietro l'altare una
porticina conduce all'attiguo oratorio, di ridotte dimensioni, unico
corpo edilizio che vi si affianca, a pianta quadrata e copertura
semicurvilinea che è stata la sede della Confraternita del SS.
Salvatore (Sarvaturara), l'ultima sopravvissuta in attività a
Caltabellotta. Tale confraternita sfilò con i suoi tradizionali costumi
bianchi per la festa di Pasqua fin verso la fine degli anni '50. Oltre a
due antiche torri di epoca normanna, la torre del Martorio e la torre
della Galofara, il quartiere era ricco, fino a poco tempo fa, di
preesistenze che testimoniavano l'utilizzazione dell'area anche in epoca
molto remota.
La
Chiesa è quasi sempre chiusa, tranne che nei brevi periodi delle grandi
solennità religiose come la Pasqua e la tradizionale festa della
Madonna dei Miracoli e del SS. Crocifisso; in essa sono custodite le tre
statue processionali della Pasqua: il Cristo Risorto, la Madonna e S.
Michele Arcangelo, che viene portato in spalla dai giovani del paese per
quasi tutta la notte di Pasqua ad annunciare la Resurrezione oltre che
per l' "Incontro".
Chiesa
di Sant'Agostino

All'estremità
orientale del paese, si affaccia sulla villa comunale la trecentesca
chiesa di Sant'Agostino, con aggraziato portale del 1742 e severa torre
campanaria dalle austere bifore; a destra, l'adiacente chiesetta di San
Lorenzo (oggi adibita ad uso civile) espone un leggiadro portaletto
tardo-gotico.
All'interno
di Sant’Agostino, affreschi di soggetto vetero-testamentario; nella
terza cappella a destra, una Madonna del Soccorso (secolo XVI) di
Antonello Gagini; è il gioiello statuario della chiesa: un grandioso
gruppo policromo in cotto maiolicato della Deposizione, costituito da
otto figure al naturale, capolavoro (1552) di Antonino Ferraro.
Chiesa
del Carmine

Nella
piazza Umberto I, dunque, è la Matrice o Chiesa del Carmine: emerge
sull'invaso con la sobria facciata cuspidata, appena ravvivata dai conci
a facciavista sui quali si articola il portale a piattabanda di disegno
rinascimentale; appartenuta in passato al convento dei Carmelitani,
esisteva già prima che nel 1575 vi si stabilissero i religiosi.
Della
metà del nostro secolo sono i restauri, che hanno conservato il
prospetto e interessato all'interno la profonda navata, aperta a destra
e a sinistra su sei cappellette; geometrici decori ornano la volta a
botte, esaltando nel loro frigido rigore una bella serie di tempere con
scene della Sacra Famiglia, del contemporaneo L. Messina.
Nel
presbiterio, sull'altare, sovrasta una Madonna delle Grazie (1534) di
Antonello Gagini, all'interno di una nicchia indorata, eseguita dal
figlio Fazio.
Chiesa
della Pietà
Incerte
sono le notizie sulla fondazione di questo piccolo gioiello di
architettura rupestre, incastonata fra le rocce del Kratas in una
splendida posizione panoramica, nella parte alta del centro urbano di
Caltabellotta e ai margini di un’importantissima zona archeologica
ancora tutta da studiare.
Si
tratta di uno dei più antichi luoghi di culto cristiano presenti in
questo territorio. Vi si accede attraverso gradini intagliati nella
roccia. Nella rupe sottostante si aprono una serie di antichi vani di
grande interesse archeologico ed è facilmente intuibile che tanto essi
che la chiesa dovessero far parte di un “unicum”, verosimilmente
bizantino, probabilmente monastico con religiosi quasi certamente
Basiliani.
Il
posto è incantevole e si può raggiungere facilmente dalla strada
panoramica che si snoda a nord dell'abitato, attraverso il passaggio
naturale esistente nel complesso roccioso che sovrasta il centro
cittadino, comunemente chiamato "malupirtusu" o, a piedi,
percorrendo stradine del centro storico.
La
chiesetta è formata da due parti ben distinte: ovviamente la più
antica è la rupestre mentre la parte esterna, la moderna, è
contraddistinta dalla classica forma a capanna con il piccolo campanile
seicentesco, molto semplice e ingentilito dalla vela campanaria dal
disegno elegante.
Nel
corso dei secoli la chiesa ha subìto diverse manomissioni; fino alla
metà del XIX secolo era arricchita da una porta in stile gotico e
dotata di un vestibolo. Attualmente l'ingresso è caratterizzato da una
porta, con architrave arcuato in conci di pietra squadrata, sormontata
da una finestra di forma ottagonale.
La
zona presbiteriale, aggiunta in età moderna, è separata dall'unica
aula a forma di ventaglio (tipico dei Basiliani) mediante archi finti
sorretti da due colonne monolitiche in pietra. Nella parte centrale un
moderno altare in pietra, opera dello scultore Salvatore Rizzuti,
inserito a seguito dell’ultimo restauro (1998), si appoggia alla
parete di fondo dove è scavata una nicchia con statua della Pietà di
incerta fattura.
Sulla
destra vi è la traccia di un affresco molto deteriorato che raffigura
l'effigie di San Cono con accanto un incavo quadrato probabilmente
utilizzato per la conservazione di arredi sacri; a sinistra si legge
nella roccia il segno di un altare molto arcaico adorno di piccole
conche.
Sia
la presenza di San Cono sia la parte scavata nella roccia riportano
tutto il complesso al periodo paleocristiano e probabilmente bizantino,
considerato che a Caltabellotta a qualche centinaio di metri da qui vi
è il luogo, ove visse e morì S. Pellegrino e dove sicuramente
continuarono a vivere i suoi successori. |