Pitture e incisioni rupestri di Tadrart di Acacus
Libia
    

patrimonio dell'umanità dal 1985 - SITO PATRIMONIO IN PERICOLO

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DAL 2016 SITO PATRIMONIO IN PERICOLO - Seconda guerra civile in Libia, presenza di gruppi armati, danni esistenti e probabili futuri danneggiamenti.

Al confine con Tassili N'Ajjer in Algeria, si erge il Tadrart Acacus, massiccio roccioso che racchiude migliaia di pitture rupestri in stili molto diversi, datate tra il 12.000 a.C. e il 100 d.C. Tali pitture testimoniano i netti cambiamenti della fauna e della flora e i diversi stili di vita delle popolazioni che si succedettero in questa regione del Sahara.

Sulla parete di roccia basaltica levigata dal vento, generazioni di tuareg e nomadi del deserto, hanno lasciato messaggi alle carovane che sarebbero passate di lì dopo di loro. Alcuni di essi sono disegnati con il gesso, altri incisi con un punteruolo. Alcuni, forse, hanno pochi giorni, altri sono vecchi di secoli. Ma tutti sembrano segni remoti, tracciati in lingua tuareg.

Il Tadrart Acacus è solo il prologo di una storia che ha più di 10.000 anni, narrata dagli innumerevoli siti ricchi di pitture e incisioni rupestri, che si estende per 250 chilometri nella regione sud-occidentale della Libia, fino al confine con l'Algeria. Paradossalmente, le tracce più recenti appaiono anche le più rozze, come se nel tempo il senso artistico si fosse involuto di pari passo con i mutamenti climatici nella regione. Oltre ai geroglifici tifinagh, le pitture e le incisioni più recenti risalgono a 2000-3000 anni fa, ovvero a un periodo che gli studiosi hanno denominato "camelino" a causa della preponderanza dei dromedari tra i soggetti ritratti.  

All'epoca quell'area del Sahara doveva essere grossomodo come oggi: un labirinto di rocce nere, solcato da profonde valli di sabbia dove, nonostante la bellezza del paesaggio, era arduo vivere.  

Nel periodo precedente, tra i 3000 e i 4000 anni fa, la desertificazione era già in fase avanzata, ma nell'Acacus sopravvivevano ancora vaste oasi e le distanze tra l'una e l'altra potevano essere coperte dai cavalli. In quell'epoca, chiamata "cavallino", gli uomini disegnavano e incidevano con maestria quadrupedi e figure umane, spesso impettite su strani carri. Ancora prima, tra gli 8000 e i 4000 anni fa, la civiltà sahariana era pastorale e parzialmente sedentaria.

I disegni realizzati in questo lasso di tempo - incisi con la tecnica della martellatura o dipinti con ocra rossa, ossido di ferro e altre sostanze minerali fissate con albume e urina - ritraggono mandrie di bovini e scene umane corali che testimoniano una società organizzata e un relativo benessere, seppur primitivo, che aveva favorito l'espressione artistica. Uno dei siti rupestri più stupefacenti della prima età pastorale è il Wan Amil, nel sud dell'Acacus. Vi è descritta, con un'accurata scelta cromatica, la battaglia tra due fazioni contrassegnate da copricapi rossi e gialli. Accanto, come in un racconto a fumetti, vi è una scena che è stata interpretata come un matrimonio, celebrato per sancire la pace. 

Ma è nella fase ancora più primitiva, quella detta "delle teste rotonde" (9000-8000 anni fa) che la civiltà sahariana ha lasciato le più interessanti e "magiche" tracce di sé. Era, questo, il tempo in cui l'uomo prese coscienza della sua forza rispetto agli altri esseri viventi e concepì l'idea del divino: hanno infatti una valenza sacra le grandi figure antropomorfe che si trovano, per esempio, negli anfratti di Wan Tabu e Wan Amillal. Diecimila anni fa, infine, il Sahara era verde e popolato da mammiferi come giraffe, elefanti, grandi predatori e, soprattutto, bufali della specie estinta Bubalus antiquus, soggetto dominante delle pitture più antiche. Sebbene già descritta da Erodoto nel V secolo a.C, l'arte rupestre sahariana è rimasta praticamente sconosciuta fino a metà dell'Ottocento, quando, grazie all'esploratore tedesco Heinrich Barth, prese il via un'opera di studio e catalogazione che continua ancora oggi. E che è stata portata avanti in modo ampio e sistematico dallo studioso italiano Fabrizio Mori.  

Ad oltre un secolo dalle prime segnalazioni di incisioni preistoriche ad opera del viaggiatore tedesco Heinrich Bart (1856), le manifestazioni artistiche del Fezzan sono universalmente riconosciute come uno dei patrimoni culturali dell’umanità. È dal 1985 che le montagne del Tadrart Acacus sono infatti inserite nella “World Heritage List” dell’Unesco, fatto che le conferisce status particolare, sia per le possibili modalità di utilizzo e gestione, che per quelle di tutela e salvaguardia.

Fu Paolo Graziosi, alla fine degli anni ’30, a studiare per la prima volta ed in maniera sistematica i graffiti del Fezzan, fornendone le prime indicazioni interpretative. Vennero costruite allora le prime griglie cronologiche, ed abbozzati i confronti tra il Sahara e le regioni limitrofe, dalla Valle del Nilo alla costa del Mediterraneo. Alcuni anni dopo, nel 1955, fu Fabrizio Mori ad attrezzare una piccola spedizione per visitare l’interno dell’Acacus, fino ad allora pressoché ignorato dalle ricerche precedenti, e documenta le stupefacenti pitture dello Wadi Teshuinat.

Il Tadrart Acacus e il Messak Settafet sono punteggiati da migliaia di graffiti, eseguiti con tecniche e caratteristiche tematiche differenti, la cui antichità è vivacemente dibattuta. Da un lato è ampiamente sostenuta l’ipotesi di associare tali rappresentazioni alle prime comunità di cacciatori-raccoglitori dell’antico Olocene, databili a circa 10.000 anni fa, a definire quindi una sorta di cronologia ‘lunga’. Altri ricercatori, perlopiù di scuola francese, ritengono che tutta l’arte rupestre sahariana sia il prodotto di pastori neolitici, a cominciare da circa 7000 anni fa, quindi sostanzialmente più ‘corta’.

I graffiti più antichi sono il prodotto di quei cacciatori specializzati che popolavano le montagne e le aree pianeggianti della Libia meridionale.

All’inizio dell’Olocene, circa 10.000 anni fa, queste regioni erano più ricche di vegetazione e frequentate da una fauna oggi scomparsa. L’arte di questi antichi cacciatori sceglie soggetti imponenti, e quindi probabilmente più prestigiosi, come il Bubalus antiquus, un enorme bovino selvatico, estinto in epoca arcaica: è proprio questo animale, le cui spettacolari rappresentazioni del Messak Settafet raggiungono stupefacente vigore e bellezza, che segna la ‘corrente stilistica’, definita della ‘Grande Fauna Selvaggia’ o ‘Bubalina’. Questi graffiti sono eseguiti con stile naturalistico, vigoroso.

Il segno è profondo, spesso eseguito con tecniche diverse – martellatura o levigatura – e i soggetti rappresentati sono esclusivamente animali selvatici. È questa la ragione principale che ha fatto ipotizzare una loro maggiore antichità rispetto alle imponenti mandrie di buoi che caratterizzeranno il periodo neolitico pastorale. Le aree con maggiore concentrazione sono gli uidian del Messak Settafet, in particolare Wadi In Elobu, Wadi Tilizagen, Wadi Alamasse, solo per citarne alcuni. Ma anche l’Acacus, specie nelle sue porzioni più interne, vede rappresentate alcune eccezionali opere.

Probabilmente già intorno a 8500 anni da oggi, il Sahara centrale assiste alla fioritura di un’arte pittorica, spettacolare per temi ed esecuzione, caratterizzata dalla presenza di figurazione antropomorfe, con teste tondeggianti o discoidi prive di ogni carattere somatico del volto: fu proprio questa caratteristica, ubiqua nel Sahara, a suggerire a Henri Lhote il termine ‘Teste Rotonde’. La distribuzione di questa corrente artistica sembra limitata a parte dei massicci sahariani – Tassili-n-Ajjer, Acacus, Ennedi – ma distribuita su un arco cronologico assai ampio, probabilmente più di due millenni. Le pitture delle ‘Teste Rotonde’ sono assai diversificate, e possono variare da figurazioni antropomorfe semplificate, monocromatiche, a composizioni policrome anche di dimensioni notevolissime. Il quadro è arricchito dalla rappresentazione di animali selvatici, perlopiù antilopi e mufloni, dalla presenza di scene di carattere rituale, da elementi enigmatici e di difficile lettura.

La grandezza artistica della fase delle ‘Teste Rotonde’ sta certamente nello straordinario fascino evocativo che esse emanano: alcune rappresentazioni antropomorfe, come gli individui di Grub, o Afozzigiar, nella loro apparente immobilità e nella scomposizione formale di alcuni elementi manifestano davvero una ‘modernità’ spettacolare. Il mondo delle ‘Teste Rotonde’, rappresentato cosi come possiamo oggi vedere nei ripari di Grub, Anshalt, Uan Afuda, Afozzigiar, testimonia una notevole ricchezza culturale, un universo permeato di aspetti simbolici, riti di iniziazione, scene di danza, in cui donne e uomini, talora con maschere o con oggetti tra le mani, scelgono e disegnano il loro modo di concepire il mondo.

Intorno ai 7000 anni fa, tutto il Sahara è come accarezzato da un incredibile movimento culturale, di stupefacente ricchezza e potenza artistica. È la fase ‘Pastorale’, detta anche ‘Bovidiana’. Migliaia di pitture e graffiti decorano ed incidono blocchi di pietra, pareti rocciose, lastre isolate. Il paesaggio umano ed archeologico muta incessantemente, e il Sahara centrale diviene, proprio in questo periodo, il luogo al mondo forse con la massima concentrazione di arte preistorica. Camminare lungo gli uidian dell’Acacus e del Messak Settafet è davvero come passeggiare in una galleria d’arte all’aperto, con straordinarie scene di vita quotidiana, come la costruzione di accampamenti, le operazioni di mungitura, gli scambi di oggetti.

È un’arte narrativa, naturalistica, vivida. Il centro dell’universo è divenuto il bestiame: mandrie di grandi bovini pezzati si muovono lungo le pareti di Uan Tabu, Tagg-n-Tort, Teshuinat. Sono animali dipinti con grandissima accuratezza : qui le corna assumono grande rilievo figurativo, e simbolico, e vengono raffigurate scene di attività sia lavorativa che sociale.

L’arte pastorale, nelle sue differenti articolazioni stilistiche e formali, abbraccia un lungo intervallo cronologico, più di tremila anni, e quest’impressionante documentazione sembra sottolinearne i cambiamenti, le modifiche, le popolazioni, quasi i ‘volti’ degli attori protagonisti.

È con questa fase stilistica, infatti, che i caratteri somatici, le ‘razze’, cominciano ad avere una vera rappresentazione formale: la rappresentazione del corpo, i tratti del viso, le acconciature dei capelli, i vestiti, sono solo alcuni degli elementi che lasciano ipotizzare contatti regionali, movimenti popolazionistici, integrazioni culturali: i pastori mediterranidi di Uan Amil, o le figure nilo-camitiche di Ti-n-Lalan rappresentano forse davvero aree diverse di provenienza e differenti caratterizzazioni culturali

Il periodo pastorale, lungo e punteggiato da importanti discontinuità, appare come il frutto di processi complessi, in cui confluiscono tradizioni differenti. L’arte pastorale dell’Acacus e del Messak ha al proprio centro il bovino, vero centro ideologico dei pastori preistorici.

L’importanza che il bestiame ha in queste società è osservabile in altre forme del mondo simbolico e rituale, rappresentato dal sacrificio di animali attraverso riti specifici, che culminano nel seppellimento votivo di parti dell’animale, talora corredate da vasi di ceramica.

Il Messak Settafet ha restituito elementi spettacolari: lungo le pareti degli uidian sono graffite scene di uccisione dell’animale, raffigurato con le zampe drammaticamente rivolte all’insù.

Poco distanti, le strutture in pietra proteggono i resti dell’animale, sepolto oltre 5000 anni fa, straordinari oggetti di culto di quei pastori oramai scomparsi.

Trascurate per molto tempo, le pitture della fase del ‘Cavallo’, così definite per l’introduzione da oriente di questo animale, e quindi preciso testimone cronologico, sono state recentemente rivalutate nell’ambito dello studio della nascita dello stato arcaico nel Fezzan, quello dei Garamanti.

Sebbene meno accurate di quelle antiche per aspetti tecnici – il colore meno saturo, il tratto più incerto, le composizioni scarsamente articolate – le pitture di questa fase mantengono un elevato grado di formalizzazione e conseguente interesse artistico, espresso in particolare dal ricorrente tema dei corpi umani rappresentati in stile ‘bitriangolare’, e dalla ubiqua presenza dei cosiddetti ‘carri volanti’. Elemento altamente spettacolare, la rappresentazione di questi carri, sia incisi che dipinti, e ancor più la loro distribuzione nel Sahara centrale, attrassero l’attenzione dello studioso francese Henri Lhote, che per primo ipotizzò che potessero essere collegati alle vie di commercio che attraversavano in età protostorica il Sahara: le prime vie carovaniere.

Le recenti ricerche di Mario Liverani stanno dimostrando come la civiltà dei Garamanti  rappresenti una complessa struttura sociale, fondata sul controllo politico, e forse militare, delle vie di commercio tra coste del Mediterraneo e Africa sub-sahariana: beni, persone ed animali viaggiarono lungo le rotte carovaniere, e l’arte ci fornisce ancora una volta elementi per sostanziare ed arricchire il panorama storico-archeologico. È in questo momento storico che vengono introdotti sistemi organizzati di irrigazione e la coltura della palma da dattero, elemento quest’ultimo spesso rappresentato nelle pitture dell’Acacus.

Aldilà degli studi ‘stilistici’ e sulle tradizioni storico-artistiche di questa regione, recentemente è stata avviata una nuova stagione di lavoro che mira alla valutazione dello stato di conservazione delle incisioni e delle pitture preistoriche e storiche dei siti più importanti inclusi nel progetto del "Parco Archeologico”. In questo senso l’affascinante patrimonio artistico custodito nelle grotte e nei ripari viene esplorato con criteri finora poco praticati, al fine di comprendere anche le relazioni spaziali tra i soggetti rappresentati e le aree decorate delle pareti. È stato inoltre introdotto il campionamento sistematico di pigmenti da sottoporre ad analisi radiometriche e chimico-fisiche, mentre una copertura fotografica criteriata costituisce un efficace supporto, utile alla contestualizzazione delle decorazioni stesse e dei siti, nonché per la conservazione delle stesse manifestazioni artistiche.

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