Al ritorno da campagne militari
particolarmente brillanti a fianco del padre, verso il 1238, il
diciottenne principe dei Ganga, il futuro raja Nrsimhadeva I, volle
ascoltare il consiglio della madre su come investire la propria parte di
bottino. Chissà se sospettava che l'impresa in cui si stava imbarcando
- la costruzione di un tempio al dio Sole, Surya - lo avrebbe assorbito
per i successivi vent'anni.
All'epoca ci si prese anche la briga
di calcolare il costo dell'edificazione: immaginando di fondere lingotti
in oro del peso del re, ne sarebbe stato necessario un migliaio per
finanziare il tempio. Agli architetti furono necessari sei anni e tre
mesi di pianificazione, e poco più del doppio per la costruzione. I
tempi sarebbero stati anche più lenti, ma a Nrsimhadeva I premeva
inaugurare il tempio una domenica in cui cadesse il compleanno di Surya,
il che avviene ogni sette anni. Non volendo pazientare sino al 1265, il
re forzò il lavoro anche durante la stagione delle piogge, celebrando
il completamento del tempio nel 1258.
Il programma iconografico era
particolarmente ambizioso. Dato che il re aveva chiesto di edificare un
tempio al dio Sole, l'architetto immaginò di eternare nella pietra il
carro stesso del dio, con tanto di muta di destrieri. Il carro
richiamava a sua volta i ratha, ossia i carri lignei utilizzati per
trasportare la statua cultuale in processione in occasione di
particolari cerimonie.
Nrsimhadeva era discendente di una
principessa della dinastia Cola, Rajasundari, senza contare che sua
moglie stessa era una Pàndya. Queste parentele attestano con
sufficiente sicurezza l'influenza esercitata su un progetto così
monumentale dalle architetture patrocinate dalle dinastie Cola e Pandya,
che sono casate meridionali: difatti, se ci spostiamo sui siti Cola di
Darasuram e Cidambaram, ritroviamo l'idea riproposta del carro-tempio.
L'architettura in Orissa decollò ai
primi del VII secolo, in virtù di un sano spirito agonistico tra i re
mecenati Sasanka del Bengala, Harsa del Kanauj e Pulakesin II dei
Calukya occidentali. La leggenda ci dice che Sasanka costruì il primo
tempio saivita (dedicato cioè a Siva) dell'Orissa, a Tribhuvanesvara.
In realtà, al di là dell'aneddoto, nulla ci rimane dell'architettura
del periodo di Sasanka e nemmeno, purtroppo, del periodo di Harsa.
Possiamo solo constatare che la maggior parte dei templi saiviti
nell'Orissa sono della corrente Pàsupata, che era la corrente
abbracciata proprio da Sasanka.
L'Orissa costituisce per gli storici dell'arte un caso
assai felice, dato che gli artisti avevano a disposizione veri e propri
manuali, canoni cui si attenevano, i quali proponevano un lessico
coerente e ben strutturato; cosa ancor più importante, queste opere ci
sono pervenute. Non che altrove non vi fosse una coerenza terminologica
nel nomare le diverse parti dei templi, ma per l'Orissa siamo
particolarmente ben documentati. La cella templare e il pronao, vimana e
mandapa in altre parti dell'India, in Orissa prendono il nome
rispettivamente di deul e jagamohan. Il deul presenta uno sviluppo
ipertrofico verticale, una sorta di copertura turrita, chiamata sikhara.
Il jagamohan, invece, ha una copertura a pidhà, a piattaforme basse,
simili a palcoscenici.
Il
tempio di Konarak è la realizzazione in pietra del Gayatri Mantra,
detto anche Savitri, in quanto preghiera dedicata al dio Sole, Surya o,
appunto, Savitar.
Meditiamo
su questa eccelsa luce del Divino Sole; possa Egli illuminare la
nostra mente..
Così
recita una delle formule più sacre dell'induismo, chiamata Gayatri in
riferimento alla sua struttura poetica impostata su 24 sillabe, e
Savitri in quanto dedicata Savitar, altro nome di Surya, il dio
Sole.
Il
tempio di Konarak - o Konark - a circa 60 Km da Bhubaneshwar,
capitale dello Stato dell'Orissa, e a 35 da Puri è la
realizzazione in pietra di questo celebre verso, una colossale
rappresentazione del potere di Surya voluta dal re Narashimha I della
dinastia Ganga intorno al 1250. L'antica località di Konarak, è legata
al mito della guarigione dalla lebbra di Shamba, figlio di Krishna,
grazie all'intervento di Surya. Fu distrutta nel XVI secolo e, in
seguito alla profanazione, disertata come luogo di culto, nonché
lungamente saccheggiata dai locali, sovrani e cittadini, in cerca
di materiale da costruzione, statue e ornamenti. Furono gli Inglesi a
intervenire ed a proibire qualunque ulteriore devastazione, con un
intento anche pratico: la Marina inglese nel 1806 ne caldeggiò infatti il
restauro, poiché il tempio fungeva da segnacosta; era infatti noto agli
occidentali, naviganti e viaggiatori, come La Pagoda nera. Oggi dista
circa 2 Km. dalla costa.
Il
tempio di Surya è racchiuso in una vasta cinta con entrate su tre lati,
ed è concepito come il carro del Sole, trainato da sette cavalli, tre
sul lato nord e quattro su quello sud - due ancora presenti in loco - e
sostenuto da ventiquattro ruote di quasi 3 m. di diametro lungo il
basamento, simbolo per alcuni dei 12 mesi dell'anno sotto gli aspetti
diurno e notturno, per altri delle 24 ore del giorno. Sulla piattaforma
si innalza il Jagamohana, l'ampia sala dei fedeli oggi riempita
e sigillata per evitarne il crollo, sormontata da una struttura
piramidale a terrazze, e l'ancor più vasto Deul, la cella del
dio ormai priva dello Shikara, la torre esteriore, crollata a
metà del XIX secolo. Nella costruzione dello Shikara, che portò
il tempio a superare i 60 m. di altezza, vennero impiegate putrelle di
ferro battuto per creare un' intelaiatura di sostegno che comunque non
riusci a evitarne il crollo.
Il
tempio è innanzitutto la casa del dio, o del suo supporto iconico.
Quattro le immagini-chiave di Surya: nei tre templi nicchia e nel sancta
sanctorum. Nell'effigie a sud e ovest Surya è stante, eternato in un
sorriso un po' stereotipo e teso, che non ha la freschezza della
statuaria precedente; le sue braccia - rigorosamente solo due - reggono loti, in un
altorilievo talmente spinto da rasentare il tutto-tondo. A nord monta un
destriero, secondo un'iconografia utilizzata più frequentemente per
indicare il figlio del Sole, Revanta.
All'occhio dello spettatore, nel
complesso architettonico sono ben distinguibili quattro unità lungo
l'asse verticale: su un alto plinto (pista), si innestano bada (muro),
gaudi (proboscide: è il tetto piramidale) e mastaka (elemento coronante
finale).
È anche possibile distinguere
diverse unità orizzontali (bhumi), con costoloni orizzontali a
separarli (amalaka). Questa è la griglia base, ma la planimetria andrà
complicandosi con il tempo, con aggiunte e suddivisioni quasi
frattaliche. All'esterno, ad esempio, la planimetria è mossa
dall'aggiunta di templi ancillari, nisa, su ciascun lato, fatta
eccezione per quello orientale.
I templi nisa contengono aspetti
secondari della divinità cui è dedicato il tempio. Il tutto è
preceduto da una sala oggi scoperchiata, ma che - a giudicare dai
pilastri rimasti - doveva reggere un tetto piuttosto elaborato. È un
natamandapa, letteralmente un' "anticamera per il corteo
danzante", decorata a motivi fitomorfi, soprattutto foglie
lanceolate.
Ma l'aspetto che non bisogna dimenticare è che il tempio
sorge in un "bacino templare", un'area molto più vasta,
recintata, accessibile attraverso portici che scandiscono la visuale:
insomma, è tutto tranne che isolato - e generalmente, in Orissa punta
verso ovest.
Tre sono i tipi di pietra impiegati
nel tempio, e nessuno è reperibile nelle vicinanze. Anche a livello dei
materiali il monumento diviene così una vetrina delle impareggiabili
possibilità del committente regale. Possiamo distinguere la clorite,
"pietra verde" particolarmente tenera e quindi scolpibile con
facilità, per timpani e immagini importanti; la latente per il nucleo
di scale e basamenti; la kondalite per il resto. Il jagamohan e il suo
portico sono in arenaria rosa, i pannelli sono in pietra verde, tenera;
l'immagine centrale di Surya è appunto in pietra verde.
Nell'assemblare statue composte da diversi pezzi, gli
scultori non usarono mortari, ma tenoni acefali per giuntare le pietre:
spettava poi alla decorazione mascherare le giunture; si tratta di
un'innovazione dell'epoca, perché la tradizione statuaria precedente
non si faceva troppi problemi a lasciare a vista le giunture. Quando
Caitanya, il "santo" vaisnavita bengalese (1486-1533), arrivò
a Konàrak, gli si pararono innanzi sette destrieri in pietra, trainanti
un carro a dodici paia di ruote. Fece appena in tempo a scorgere la
cuspide terminale dello sikhara in rame puro che sarebbe stata poi
asportata come bottino nel Cinquecento, assieme all'oro e alle pietre
preziose della decorazione interna. È questa una dimensione che ormai
sfugge allo spettatore contemporaneo, inconsapevole di essere di fronte
a una meravigliosa carcassa depredata nel tempo.
Esistevano, custodite in quell'interno poi saccheggiato,
statuette in metallo, mobili, "portatili". L'icona cultuale
del tempio era infatti troppo pesante da portare in processione: se si
considera che durante la cerimonia l'icona del dio doveva passare
attraverso un lavacro sacro, essere vestita e unta, si può facilmente
indovinare quanto fosse ingestibile la statua principale in clorite.
Allo scopo vennero concepite "immagini-surrogato", delizie
tridimensionali in metallo. Ne è rimasta una, conservata nel Jagannatha
di Puri.
Ma a celebrare ancora la gloria del
mecenatismo di Nrsimhadeva I basta l'ornamentazione esterna,
precisissima, che non prende fiato neanche in un centimetro quadro: un
decorativismo che non riposa mai e, soprattutto, assolutamente dotato di
senso in ogni suo elemento.
Il programma iconografico del tempio
a Konarak si annuncia particolarmente complesso, dato che può giocare
su tre registri: il primo, ovviamente, è quello relativo al dio Sole,
con pianeti, destrieri del suo carro, case dello zodiaco; l'altro è
quello relativo alla parabola biografica del sovrano; in ultimo, la
citata moglie Pandya si chiamava Sitadevi, un nome che non poteva non
richiamare alla memoria degli artisti incaricati delle decorazioni Sita,
moglie di Rama e protagonista di una delle epopee più celebri del
subcontinente indiano: il Ramayana, "viaggio di Rama".
L'assonanza dei nomi permetteva di ravvisare nella dinasta Nrsimhadeva
nientedimeno che lo stesso, valentissimo Rama. La coppia regale diveniva
così proiezione della coppia epica.
Il sovrano compare difatti a più riprese nel fregio immane
dell'opera. Lo possiamo riconoscere ritratto in posa d'arciere,
prostrato davanti a Siva, Jagannatha e Durgà: non si tratta di tre
divinità a caso, dato che gli antenati di Nrsimhadeva edificarono, come
monolatri di tali divinità, i rispettivi templi a Bhubanesvara, Puri e
Jàipur. Altre metope lo immortalano mentre presenzia a simposi di
poeti, o si diletta in altalena nell'harem, o ancora riceve benevolmente
una giraffa da ambasciatori stranieri. A fianco del piede destro
dell'immagine principale di Surya vi è un personaggio in anjali mudra,
cioè nel gesto delle mani giunte, un segno di devozione e rispetto:
forse è ancora Nrsimhadeva I. Per l'immagine del re come arciere, lo
scultore Garìga Mahapatra venne pagato con abiti di seta, due orecchini
e cinque lingotti d'oro: l'aneddoto ha il duplice pregio di strappare un
artista all'anonimato e di fornirci preziose informazioni su quanto era
considerato il suo lavoro.
In ogni ruota del carro trovano posto otto raggi minori e
otto maggiori, per tre metri di diametro. Le dodici coppie di ruote
potrebbero scandire il percorso del sole lungo la cintura zodiacale o,
più semplicemente, i ventiquattro semimesi. Sappiamo che attorno alle
ruote del carro si celebravano - oltre ai riti annuali per il genetliaco
del Sole - cerimonie quotidiane, mensili, per gli equinozi e le eclissi.
Si privilegiava una particolare coppia di ruote a seconda del periodo
dell'anno: il cadenzamento era forse collegato ai passaggi del sole
nelle varie case dello zodiaco, e le ruote si trovavano così a
costituire un immane e tangibile calendario liturgico. I sette stalloni
-tre disposti a nord e quattro a sud - potrebbero rappresentare i sette
raggi del sole che precedono il suo sorgere, oppure i sette giorni della
settimana.
Tutto attorno al plinto del tempio
corre un fregio di processione di elefanti, come se passasse sotto lo
chassis del carro, tra le ruote: si tratta di una soluzione ingegnosa,
perché gli elefanti sembrano - e sono - di esigue dimensioni se
paragonati all'analogo fregio al Kailasanatha di Ellora, ma proprio per
questo moltiplicano la magnitudine relativa del carro! La trabeazione
della soglia raffigura i navagrha, i nove "pianeti" o meglio i
nove astri, dato che corrispondono a Marte, Mercurio, Giove, Venere,
Saturno, Sole, Luna, Luna crescente e Luna calante.
Si tratta di una scelta iconografica
piuttosto standard per un portale nell'architettura templare indiana,
anche se particolarmente indovinata per un tempio del Sole. Lascia
semmai esterrefatti la constatazione che la trabeazione è un monolito
di clorite a grani particolarmente compatti. Una clorite del genere non
è eccessivamente dura per la lavorazione, ma è assai resistente per
accogliere ogni minuzia nei particolari; una pietra amata dagli scultori
quando si tratta di evidenziare i monili di una divinità, o i suoi
tratti somatico-facciali, ma che si rivela pesantissima da alzare. Ci
vengono in soccorso i testi, i quali ci rivelano che vennero impiegate
pulegge azionate da elefanti per sollevare tanto carico.
Ogni personaggio planetario è assiso
in una nicchia, simile a sua volta a un tempio in miniatura. Prendiamo
il caso di Runa, "Luna calante": gli indiani immaginavano che
divorasse periodicamente la luna, causando così le eclissi. Il corpo è
tumido; il viso ampio, sorridente; l'acconciatura turrita,
verticalizzante; i monili miniaturistici.
Sul tetto del jagamohan, disposte su tre terrazze come
attori in sfilata su altrettanti palchi, si ergono sculture monolitiche
a tutto tondo. Si tratta di una serie di musiciste e una coppia di
bhairava: costoro sono protettori del sito benigni e terrifici (anugra e
ugra) con le loro quattro facce e sei braccia, danzanti in equilibrio su
un battello - non un battello qualsiasi, ma il samsarapota, il battello
del mondo. Decisamente di aspetto più accomodante le musiciste: a loro
volta, erano tipi femminili idealizzati, tendenti al divino; sappiamo da
un aneddoto che il capomastro scartò recisamente le statue desunte da
modelle dal vero, e uno scultore cercò invano di collocarne una
somigliante alla moglie per eternarla.
Le pareti, invece, sono fatte vibrare, in un continuo gioco
a rimpiattino con la luce del sole, da coppie di statue copulanti nelle
più svariate posizioni: si tratta dei cosiddetti
mithuna (celeberrimi sono quelli di Khajuraho, che svegliarono presto la
pruderie occidentale); a Konarak, rispetto al resto della decorazione,
la loro importanza risulta assai ridimensionata.
Le
ruote,
capolavoro di cesello, espletano con i loro raggi la funzione di
meridiana. Simulano il modello ligneo e sono intagliate in ogni
loro parte, anche nel mozzo che spesso include raffigurazioni erotiche. Edificato
su terreno sabbioso con scarsa attenzione per le fondamenta, il tempio
fu costruito utilizzando lastre di laterite per i basamenti e blocchi di
kondalite per l'alzato. Le pietre, portate con grandi sforzi da località
lontane, forse utilizzando un canale oggi asciutto, venivano connesse a
secco con grandissima precisione e quindi stuccate con calce e sabbia.
La scultura avveniva in un secondo tempo e in alcuni casi si utilizzava
la clorite verde. Gli esempi più felici sono la cornice del portale
principale, articolata in sette raffinate cordonature, le tre statue di
Surya alte più di 3 metri in diversi atteggiamenti nelle nicchie
esterne della cella - caratterizzato dai fiori di loto, simbolo dei suoi
raggi e da alti calzari usati nel mondo iranico a cui l'iconografia
solare si ricollega - e il basamento dell'idolo interno a
questa.