Fortezza di Diyarbakir e il paesaggio culturale dei giardini Hevsel 
Turchia

 PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 2015

    

Diyarbakır o Diyarbekir è una città del sudest della Turchia, situata lungo le sponde del fiume Tigri, e capoluogo della provincia omonima.

Dell’antica città resta la muraglia e notevoli i resti della cittadella (prima metà XIII sec.), dove sono venuti alla luce alcuni ambienti del palazzo, con īwān e piscina centrale, riccamente decorati di mosaici figurati e geometrici ispirati a quelli della tarda antichità. Resti della chiesa di S. Maria e di quella di S. Tommaso (eretta nel 629 e trasformata in moschea nell’XI sec.), e il ponte sul Tigri, a 10 archi.

È nota principalmente come città di interesse culturale, per il suo ricco folklore e per la produzione di angurie.

È inoltre una delle città turche a contare la maggior presenza di Curdi, tanto da essere talvolta definita, dai curdi stessi e da alcuni osservatori esterni, come "la capitale del Kurdistan turco". Questa definizione non è comunque ufficiale, né tantomeno accettata dal governo di Ankara. Stando ad uno studio il 72% degli abitanti della città parla curdo (oltre che persiano), e lo utilizza come lingua primaria al posto del turco. Nei pressi della città è inoltre molto sentita la festa del Nawruz, il capodanno curdo festeggiato il 21 marzo.

Amida venne fortificata da Costanzo II tra il 324 e il 327, conquistata da Shāpūr II nel 359 e ripresa da Giuliano l'Apostata nel 363. Ricaduta in mano ai Persiani con l'assedio di Kawādh del 502, ritornò bizantina due anni più tardi grazie alla tregua caldeggiata da Anastasio. Presa da Cosroe II nel 602 e liberata da Eraclio nel 628, fu definitivamente occupata dagli Arabi nel 639 e vani furono i tentativi di riconquista greca nel IX e X secolo.

La città preesistente a Costanzo, che Ammiano Marcellino definisce di dimensioni modestissime, doveva coincidere, con tutta probabilità, con l'odierna area della cittadella. I lavori del 324-327 la estesero forse fino alla linea dell'attuale rettifilo nord-sud: in questa fase la porta meridionale - oggi murata - poteva fungere da accesso sul cardo. Nel 363 l'arrivo dei profughi da Nisibi, ceduta dai Romani ai Persiani, comportò l'installarsi di un vero e proprio sobborgo nella piana a ovest della città. Come attestano le fonti, Gioviano dispose subito di inglobare questa nuova area nella cinta urbana; ma i lavori furono condotti a termine dai suoi successori Valentiniano, Valente e Graziano tra il 367 e il 375, se si presta fede a un'iscrizione reimpiegata nella porta di Harput. In coincidenza con questo ampliamento, che raddoppiò la superficie di Amida fino a farle raggiungere la dimensione attuale, furono certamente aperti anche gli assi viari principali, in direzione nord, sud, ovest (verso le porte di Harput, di Mardin, di Urfa), il cui tracciato non coinvolse però la metà preesistente dell'abitato con la porta sul Tigri (Yeni Kapı o Porta Nuova).

Il grandioso circuito delle mura, a struttura tripartita (murale, antemurale, fossato), si sviluppa per una lunghezza di km. 5,5 ca., includendo nell'angolo nordorientale la cittadella, e si apre all'esterno con quattro porte maggiori. Dell'antemurale rimangono tracce abbastanza chiare solo nel tratto meridionale, mentre la cinta principale, mantenuta e restaurata per tutto il periodo islamico, è giunta quasi nella sua interezza, a eccezione di due lacune a nord e a est, la prima delle quali è il risultato di una demolizione del 1931. Tanto la cinta principale quanto l'antemurale sono realizzati in conglomerato di malta e pietrisco, con paramento esterno e interno a conci squadrati di basalto, il cui colore ha valso alla città l'appellativo turco di Kara Amid, 'Amida. la nera'. Le variazioni strutturali e tipologiche presenti nei diversi settori (solo in parte spiegabili come un adeguamento alla natura del terreno) inducono a escludere che i lavori siano stati condotti in un'unica campagna, come aveva ipotizzato van Berchem (1954), il quale in base a Procopio, supponeva un'integrale ricostruzione di età giustinianea. Infatti, l'originario impianto della fine del IV secolo, già seriamente danneggiato durante l'assedio di Kawādh (502), dovette essere totalmente rifatto nei settori nord e ovest dopo il 504, per iniziativa dell'imperatore Anastasio; mentre il successivo intervento giustinianeo avrebbe comportato solo sporadici consolidamenti, specie nel settore sudorientale, quello più antico, compromesso forse dal terremoto del 528.

Numerosi sono i monumenti dell'Amida bizantina noti oggi esclusivamente dalle testimonianze documentarie: il ponte sul Tigri, costruito dal vescovo Giovanni tra il 479 e il 484, probabilmente nella stessa ubicazione di quello attuale, finito nel 1065; uno xenodochéion, forse del V secolo, presso la porta di Harput; varie chiese e cinque monasteri esistenti nel V e VI secolo. 

L'edificio religioso di cui restano le tracce più cospicue è la chiesa della Vergine (al-'Adhra), databile in base alle sculture della zona est (l'unica superstite) entro la prima metà del VI secolo. Secondo i rilievi di Guyer (1920), essa doveva presentare un impianto a tetraconco con profondo coro rettangolare absidato, una tipologia che rientra nel ben noto gruppo di analoghi edifici di Bosra (Ss. Sergio, Bacco e Leonzio), Ruṣāfa (chiesa episcopale), Apamea e Seleucia Pieira, tutti collocabili tra fine V e prima metà del VI secolo. In assenza di conferme di scavo resta però ipotetica la scansione dello spazio interno, per il quale la soluzione più coerente sembrerebbe comunque quella del trifoglio o quadrifoglio colonnato, documentata a Ruṣāfa e, in un contesto particolarmente simile alla chiesa di Amida, nel martýrion di Seleucia. Come nei casi affini, risulta invece difficile poter pensare a una copertura a cupola per il nucleo centrale. 

Una sorte non certo migliore ha avuto la chiesa di Mar Kosmo, rilevata e fotografata al principio del Novecento, ma oggi integralmente scomparsa. A giudicare dalle modanature e dai capitelli del settore orientale (che trovano confronti in al-'Adhra e nella Ulu Cami di Amida., nonché in altri monumenti mesopotamici), l'edificio doveva risalire alla prima metà del VI secolo. Ma restauri documentati nei secoli XIII e XVII ne avevano già sostanzialmente alterato la struttura, tanto da rendere impossibile un'esatta ricostruzione della sua planimetria primitiva (centralizzata secondo Bell, 1910; basilicale secondo Guyer, 1912). 

Ma il monumento certamente più problematico, anche per l'Amida cristiana, è la Ulu Cami o Grande moschea. Sorta forse sul luogo di un edificio preesistente (la grande chiesa per Guyer, 1916; un palazzo per Berliner, 1922), essa ingloba nella sua struttura, in massima parte del XII secolo, una grande quantità di elementi scultorei e architettonici più antichi. Nella corte, il fianco nord e, soprattutto, le facciate est e ovest costituiscono dei veri e propri palinsesti di controversa lettura. Le colonne, i capitelli e gli architravi di reimpiego risultano ricomposti, assieme a pezzi islamici che a essi si ispirano, in un contesto architettonico di epoca artuqide improntato a un gusto fortemente classicistico.

La probabile esistenza di un'ulteriore fondazione ecclesiastica paleobizantina è testimoniata, infine, dai fusti di colonna e dai capitelli erratici presso la chiesa armena (oggi in parte scomparsi), che Strzygowski (1930) ha supposto pertinenti a un battistero. Cronologicamente discusso, ma probabilmente tutto di età islamica e di destinazione profana, è l'edificio a due corpi cupolati nell'angolo nordorientale della cittadella, il cui settore più antico, quello a est, era stato considerato una chiesa nestoriana.