Sciacca
(Agrigento)

Castello Nuovo (o dei conti Luna)

Tutte le città che si rispettino in Italia e, possiamo dire, in tutti i Paesi di antica storia, hanno il loro bravo castello, più o meno imponente, più o meno restaurato e messo in evidenza. E come il quadro antico dell'illustre antenato che spesso vediamo in bella mostra nelle case di quelle famig1ie che possono vantare di appartenere a un nobile casato. Anche Sciacca, che vanta antica e nobile origine, possiede un castello medievale, non privo di imponenza, che fu dei conti Luna, e che di recente è stato acquistato dall'Ente Regionale Palazzi e Ville di Sicilia allo scopo di salvarlo e valorizzarlo. 

Fu fatto costruire nel 1380 da Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta, che fu, dopo la morte del re Federico III (1377), uno dei quattro Vicari del regno di Sicilia. Passò poi in possesso dei Luna quando, morto Nicolò Peralta (figlio di Guglielmo), una delle sue tre figlie, Margherita, andò sposa al conte Artale di Luna, catalano, zio di re Martino. 

Sorge sulla viva roccia, in posizione dominante, nella parte alta e orientale della città, ed è inserito nel perimetro delle antiche mura che tuttora, in buona parte, esistono. Comprende quattro parti: la cinta, il mastio, il palazzo comitale e la torre cilindrica. La cinta che serviva alla difesa esterna, ha pianta poligonale ed è formata di alte e robuste mura, capaci di resistere ancora per molti secoli all'usura del tempo. Entro il perimetro della cinta, a nord, si ergeva il mastio, cioè la torre maestra, a pianta quadrangolare, che di molto superava l'altezza del complesso dei fabbricati e che aveva la funzione di sorvegliare la cinta il terreno esterno e il cortile interno. 

Di esso, rimasto integro fino al 1740, oggi resta solo la base, ma possiamo farcene un'idea attraverso un disegno di Ignazio di Mino che lo ritrae così come era nel 1867, prima che l'Amministrazione comunale del tempo, provvedesse a farlo demolire perché danneggiato in seguito alle scosse sismiche del 13 giugno 1740 e del 27 ottobre 1855. 

Esiste, invece, tuttora, sempre inserita nel perimetro della cinta, a sud, una torre cilindrica, a due piani, dalle volte costruite con conci accostati a coltello, come usa coi mattoni di terracotta. 

Il palazzo del Conte, a pianta rettangolare, occupava il lato ovest del Castello, compreso tra il mastio e la torre cilindrica. 

Era composto di un piano terreno, adibito come abitazione della servitù, e di un piano superiore dove abitava il Conte con la sua famiglia. 

Di esso oggi resta l'alto muro esterno con quattro ampie finestre dalle quali si può ammirare tutta la pittoresca, multiforme distesa di tetti, terrazzi e logge delle case di Sciacca, tutto il panorama della città con le sue torri e le chiese e i campanili e le cupole e le vie e le piazze e i giardini e il porto e il mare. 

L'ingresso era situato a nord ed era munito di ponte levatoio. Da esso si entrava nel cortile dove a sinistra erano le scuderie e i locali degli uomini d'arme, nonché una cappella dedicata a S. Gregorio, e a destra una scala che portava al piano nobile del palazzo. Nel complesso il castello dei Luna di Sciacca non è di dimensioni sesquipedali, come qualcuno, spinto dall'amor di campanile, ha voluto descriverlo, tuttavia, nell'insieme, non è privo di una sua solenne monumentalità, e, oltre a rappresentare per il suo profilo caratteristico uno dei più interessanti esempi di architettura civile e militare del '300 esistenti in Sicilia, per la sua posizione dominante su tutto l'abitato di Sciacca, costituisce un elemento insopprimibile del panorama della nostra città a cui conferisce lustro e decoro, e una fisionomia inconfondibile.

Oggi l'edificio si compone di quattro parti: la cinta muraria, la torre grande (mastio) e quella cilindrica entrambe a nord, e il Palazzo del Conte a ovest. La cinta è formata da alte mura che servivano alla difesa. Della grande torre a pianta quadrangolare rimane la base, mentre la torre cilindrica che si presenta a due piani con accostati a coltello, si conserva ancora. Rimane ben poco invece del Palazzo del Conte, posizionato fra mastio e torre cilindrica e di cui ci resta solo i tetti e gli alti muri, dove si possono notare dipinti dell'epoca e ammirare (tramite le sue finestre) un bel panorama di Sciacca.

Castello Vecchio (o dei Perollo)

Così detto per distinguerlo dal Castello Nuovo o dei Luna, che fu eretto dal Gran Conte Ruggero insieme con le prime mura che come una morsa chiudevano la città al tempo dei Normanni. Passò ai Perollo, secondo la tradizione locale, in seguito al matrimonio della contessa Giulietta, figlia del gran conte Ruggero, con Gilberto Perollo (sec. XII) e ai Perollo rimase fino alla sua quasi totale distruzione operata dai partigiani di Sigismondo Luna nel 1529, durante il famoso Caso di Sciacca. Situato nella parte orientale della città, all'incirca tra Porta S. Pietro, Porta Bagni e il Monastero di S. Caterina, comprendeva gli attuali cortili Chiodi, Rizza e Carini. Secondo il Savasta entro le mura del Castello erano "cinque grandiosi palagi con corti e sale e nobili quartieri abitati dai cinque rami principali della famiglia Perollo". 

Il castello aveva tre entrate. La porta principale, detta del Cotogno, era vicina a Porta Bagni, un'altra detta di S. Pietro, era così detta perché vicina alla omonima chiesa del castello, detta S. Pietro in Castro, la terza era rivolta a oriente e si trovava fuori le mura della città. Delle tre entrate rimane oggi solo quella che guarda a occidente, attraverso la quale si accede all'attuale Cortile Chiodi, in origine spazio interno dell'antica Rocca normanna. 

Il castello era munito di torri angolari, come può vedersi da un vecchio disegno di Ignazio Di Mino. 

La torre principale, detta di S. Nicolò, doveva essere non lontana dalla omonima chiesa. Si vuole, dice il Ciaccio, che il castello avesse avuto anche dei sotterranei, da cui potevasi nell'occorrenza evadere sia dal castello che dalla città.

Dall'antica rocca ruggeriana ben poco oggi avanza e questo poco viene di giorno in giorno manomesso e compromesso dai privati cittadini che, infischiandosene del suo valore storico, ne vanno facendo scomparire ogni traccia. Fino a non molti anni or sono, dal cortile Carini o dalla parte superiore di via Valverde era ancora visibile la torre angolare di sud-est che poi è stata trasformata in casa privata. 

Oggi resta solo la porta ad arco che guarda ad occidente con il sovrastante stemma marmoreo dei Perollo.

Castello Incantato
 

Alle falde del Monte Kronio e a pochi chilometri da Sciacca, sorge il “Castello Incantato”, suggestivo museo all’aperto, ricco di mistero e fascino.

È un giardino con un’infinità di misteriosi volti scolpiti nella roccia e nei tronchi d'ulivo saraceni, realizzati dalla insolita creatività di Filippo Bentivegna. Un personaggio che per oltre 50 anni non ha fatto altro che scavare e scolpire teste, creando più di tremila volti, alcuni forse somiglianti a illustri personaggi storici, altri con espressioni stralunate, dal sorriso inquieto e indescrivibile, altri ancora bifronte.

Un individuo dalla mente forse compromessa ma che dimostrava una grande abilità nella attività manuale finalizzata alla creazione delle sue sculture, dimostrando una notevole capacità ideativa ed espressiva. Sicuramente una figura molto eccentrica e in una certa misura forse anche delirante.

La storia personale di Bentivegna fu inconsueta e bizzarra ed è fondamentale per comprendere il suo operato artistico ed è strettamente legata al suo mondo immaginario ed incantato fatto di teste umane scolpite nella pietra.

Nato a Sciacca il 3 Maggio 1888, figlio di pescatori, a causa delle misere condizioni economiche, vive nell’alfabetismo e nella precarietà. A vent’anni, nel 1908, si arruola nella marina e vi rimane fino al 1912. Povero e disoccupato, nel 1913 emigra negli Stati Uniti, prima a New York poi a Chicago dove è assunto da una compagnia che lavora alla costruzione delle grandi linee ferroviarie.

Lì la vita si rivelò per lui alquanto amara, non riuscì ad inserirsi né a convivere con persone che avevano idee troppo diverse dalle sue, basate sulla discriminazione razziale e sulla sopraffazione. Per la sua indole e per le sue idee poco conformiste venne duramente emarginato.

Si racconta che la sua ispirazione artistica sia legata all’amore per una donna. Innamoratosi di una giovane americana il saccense è coinvolto in una rissa dal rivale in amore da cui viene violentemente malmenato. Il conseguente trauma gli provoca alterazioni psichiche rimaste celate sino a quel momento. Tornato a Sciacca per curarsi, Filippo Bentivegna è ormai un uomo completamente diverso.

Acquista un piccolo podere nell’attuale Contrada S. Antonio, iniziando la sua nuova impulsiva vita d’artista involontaria. Analfabeta e mai interessato ad alcuna forma d’arte, comincia a dipingere e scalpellare alberi e massi che estraeva dalle pareti rocciose, sviluppando una forma d’espressione “inconsapevole” che gli permette di sviscerare i propri ricordi sublimandoli. La sua arte ha come unico soggetto le teste umane d’ogni forma e dimensione.

Le sue sculture sono tutte diverse e raffigurano personaggi famosi e non, a cui dava anche un nome e che, nel suo immaginario, rappresentavano i sudditi del regno che egli aveva creato (il giardino incantato) e di cui era il “Signore”, amava infatti farsi chiamare dalla gente “Sua Eccellenza”.

Al centro del podere sorge la casetta dove il Bentivegna viveva, le cui pareti sono decorate da disegni raffiguranti grattacieli che ricordano il suo soggiorno in America e un pesce che contiene nel proprio ventre un pesce più piccolo che forse simboleggia la traversata dell’artista all’interno della nave che lo condusse a New York.

Teneva in gran conto una sua opera composta da alcune teste terminanti in una specie di fallo, definito da lui “chiave dell’incanto”. Si dice che si aggirasse per le vie della città con in mano un corto bastone che reggeva come fosse uno scettro, autoproclamandosi “Signore delle caverne” per i numerosi cunicoli che scavava nella terra per trovarvi energia.

Filippo Bentivegna trascorse gran parte della sua vita nel proprio podere e, in solitudine, vi rimase fino alla morte avvenuta l’1 marzo 1967.

L’anno successivo alla morte di Bentivegna, con il suo lavoro in stato di abbandono e talvolta  oggetto di furto e sciacallaggio, arriva a Sciacca un collaboratore di Jean Debuffet che riconosce l’importanza artistica dell’opera del “Pazzo di Sciacca”.

Oggi alcune teste di Bentivegna sono esposte al museo dell’Art Brut di Losanna, istituito in memoria di Dubuffet.

Porte e Torri

Le tre porte d'accesso alla città sono tutte rimaneggiate:

Porta Palermo, che collega Piazza Don Luigi Sturzo con Piazza Guglielmo Marconi e fu riedificata nel 1753 durante il regno di Carlo III di Borbone – ha delle belle colonne in cima adornate da un gruppo scultoreo con una grande aquila, in stile barocco.

Porta San Salvatore, del XVI secolo, che si trova in Piazza Carmine, è ricca di belle sculture rinascimentali.

Porta San Calogero, che dà le spalle all'omonimo monte e funge da ingresso per il quartiere di San Michele, è del 1536.

A queste si aggiungono 2 porte ormai scomparse ma di altrettanta importanza, che insieme alle 3 precedenti, formano le cosiddette "5 Porte" di Sciacca:

Porta Bagni, fra Corso Vittorio Emanuele e Parco della Vittoria;

Porta di Mare, che permetteva il collegamento fra Marina e il centro (probabilmente situata fra Campidoglio e Terme).

Queste cinque sono quelle più importanti soprattutto dal punto di vista politico-storico, ma esistono altre porte meno importanti, come quella di San Pietro e quella di San Nicolò La Latina

Particolare attenzione meritano le torri: la Torre Campanaria si trova nella salita di San Michele a poca distanza dalla Chiesa di San Michele, risalente al 1550. La Torre medievale si trova all'angolo della via Molinari e risale al XV secolo. La Torre del Pardo si trova in via Incisa (appartenente prima agli Incisa e poi al mercante catalano Antonio Pardo) risale al XV secolo e si compone di tre piano (nel primo abbiamo una finestra la cui cornice è retta da due cariatidi).

Torre Ficani, fu eretta da Calogero Ficani nel 1453, al tempo della caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, per la difesa dalle incursioni dei pirati. La Torre, coronata dai merli piani con feritoie, è a pianta quadrangolare con solidi cantonali in conci di dura pietra di intaglio della Perriera, è composta da un piano terra e da due piani sopraelevati. Un tempo isolata, oggi è inserita nell' angolo Sud-Est di un vasto baglio, al quale si accede attraverso un possente portale ad arco.

Chiesa di Maria SS. del Soccorso]

La prima Chiesa Madre fu fondata dalla contessa normanna Giulietta agli inizi del sec. XII e durò fino al 1656. Dell'antica chiesa rimangono le tre absidi utilizzate dal Blasco per la nuova, mentre le volte a crociera costolonate, recentemente rimesse in luce e restaurate, e due portali ad arco gotico sono del sec. XIV. La chiesa attuale, eretta tra il 1656 e il 1683, su progetto di Michele Blasco, pittore e architetto, benché realizzata in piena età barocca, ci offre un bell'esempio di equilibrata architettura che richiama alla mente classiche forme rinascimentali. È l'unica chiesa di Sciacca che, oltre che per la facciata  principale, si fa ammirare anche per quelle laterali e per il corpo triabsidato di età normanna che si conserva quasi intatto.  

La facciata principale, rimasta incompleta, è ornata di tre bianche statue di marmo provenienti  dall'antica chiesa, collocate, una, raffigurante S. Maria  Maddalena, sopra il frontone della porta principale, e le altre (S. Pietro e S. Paolo) in nicchie ad edicola situate sopra i frontoni delle due porte laterali.

Altre due statue di marmo (S. Giovanni Battista e S. Calogero), pure provenienti dall'antica  chiesa  normanna  e  della stessa mano, sono collocate, pure in nicchie ad edicola, la prima sopra la porta della fiancata settentrionale e la seconda sopra la porta della fiancata meridionale alla quale si accede con un'ampia scala a due rampe dal corso Vittorio Emanuele. Tutte e cinque le statue sono opera di Antonio e Gian Domenico Gagini. 

La ringhiera con colonnine e pilastri di pietra che recinge il sagrato dinanzi alla facciata principale è stata realizzata di recente su disegno dello scultore saccense, prof. Giuseppe Cusumano. Alla facciata mancano, sul lato destro, il corpo (campanile) che dovrebbe fare pendant con quello realizzato sul lato sinistro e il frontone.

L'interno suddiviso da due file di pilastri in tre navate, comprende dieci cappelle, oltre a quella dell'altare maggiore. La decorazione delle navate e delle cappelle in stucco è stata realizzata su disegni di Salvatore Gravanti negli anni 1830-31 e 1839-40. La vastità dell'insieme, il vivo senso di luminosa spazialità creano una suggestiva atmosfera di solennità e di eleganza insieme.

Componente di spicco, inoltre, all'interno il vasto affresco della volta a botte della navata centrale, raffigurante l'Apocalisse ed episodi della vita di Maria Maddalena, capolavoro di Tommaso Rossi (1778-1862), figlio e allievo di Mariano Rossi, uno dei più rinomati affreschisti italiani del sec. XVIII (Sciacca 1731 - Roma 1807). 

Sono inoltre degni di nota le seguenti opere d'arte, quasi tutte provenienti dall'antica chiesa Madre: all'inizio della navata sinistra, fonte battesimale in marmo del 1495, alla cui base si può leggere la data e il nome dell'arciprete di quel tempo, Antonio De Piscibus, e del donatore Andrea Burgio.

L'opera è attribuita ai Gagini. Dietro il fonte battesimale, un rilievo raffigurante la Decollazione di S. Giovanni Battista, del sec. XVI, che faceva parte di altro fonte battesimale appartenente all'antica chiesa di S. Pietro in Castro (sec. XI) oggi non più esistente. 

Proseguendo nella navata sinistra, nella seconda cappella, sull'altare, una statua della Madonna di Monserrato e in una nicchia, a sinistra, un'altra della Madonna delle Grazie, entrambe di marmo, provenienti dall'antica chiesa. 

Nella cappella in fondo alla navata, a sinistra del presbiterio, un interessante Crocifisso ligneo del '500. 

Sull'altare maggiore è collocata la statua della Madonna del Soccorso, dal 1626 patrona della città; è opera di Giuliano Mancino e Bartolomeo Birrittaro (1503). 

Ai lati dell'altare maggiore sono: a destra una Crocifissione di S. Pietro e a sinistra una Sacra Famiglia, dipinti su tela dei quali non si conosce il nome dell'autore.

Nella cappella a destra del presbiterio è una icona marmorea di Antonio Gagini (1581). Rappresenta: (in ordine, dall'alto in basso) Padre Eterno benedicente, episodi della passione di Gesù, Resurrezione, Crocifissione, con ai lati, in nicchia, S. Pietro e S. Paolo, Angeli in adorazione e ai lati, in sei scomparti, altre scene della Passione e Santi Apostoli.

Nel lato destro della crociera è la statua di marmo raffigurante la Madonna della Catena (1457), proveniente dall'antica chiesa normanna. 

Sul penultimo altare della navata destra, la statua lignea di S. Calogero, l'arcario e la cerva è attribuita al trapanese N. Milante. Sono pure di qualche interesse, sebbene assai rovinati due sarcofaghi cinquecenteschi di marmo, dei quali uno di Bartolomeo Tagliavia, collocato attualmente nella prima cappella della navata destra, le cui caratteristiche stilistiche e iconografiche sono simili a quello del Conte Gaspare II Naselli esistente nella chiesa dell'Immacolata di Comiso, attribuito ad Antonello Gagini, e altro di Gerardo Noceto, famoso botanico saccense del '500, che si trova in un locale a piano terra, sottostante alla sagrestia, adibito a circolo ricreativo di giovani cattolici.

In un angolo della sagrestia c'è, posata a terra, una Madonna degli Angeli, statua marmorea di mano gaginesca e, appesi alle pareti, una Maria Maddalena, antico dipinto su tela di Ignoto, e un interessante Crocifisso ligneo che in origine era attaccato al centro del soffitto dell'antica chiesa. Anche nell'ufficio dell'arciprete sono conservate alcune opere d'arte meritevoli di attenzione. Sono due formelle marmoree del 1577 raffiguranti S. Maria Maddalena tra due leoni rampanti, che è l'antico stemma religoso e civico di Sciacca (oggi solo religioso), e sotto di esse due stemmi delle nobili famiglie Perollo e Garro-Maurici provenienti dall'antica chiesa.

Nel luglio del 1991 papa Giovanni Paolo II l'ha elevata alla dignità di basilica minore.

Chiesa del Carmine

È questa la terza chiesa eretta nello stesso sito. La prima, dedicata al Salvatore, fu fondata dal conte Ruggero subito dopo la liberazione della città dalla dominazione musulmana (1087). Prese il nome del Carmine con la venuta a Sciacca, verso il 1200, dei Carmelitani i quali fondarono, attiguo all'antica chiesa normanna il loro convento. 

Nel sec. XVI, demolita l'antica chiesa normanna perché fatiscente, fu costruita una seconda chiesa di più grandi dimensioni che fu aperta al culto nel 1579. Divenuta anche questa pericolante, si pose mano verso la fine del '700 alla terza chiesa che è quella attuale, contigua da mezzogiorno alla precedente chiesa e di questa più grande, che fu aperta al culto nel 1817. Di questa terza chiesa è autore il noto architetto A. Giganti (1731-1787), un sacerdote trapanese, le cui prime opere sono di gusto barocco (vedi ad esempio il Palazzo Bonagia a Palermo, gravemente danneggiato dai bombardamenti durante l'ultima guerra mondiale e ridotto a brandelli e assunto oggi quasi a simbolo della più nobile ed elegante architettura palaziale barocca), mentre le successive sono di stile Impero (vedi ad es. la chiesa di S. Paolino dei Giardinieri del 1786 sempre a Palermo). 

La facciata è una sorta di palinsesto architettonico che ci consente di leggere le tre fasi della costruzione: la prima di età normanna (periodo della Contea), la seconda cinquecentesca e  la  terza neoclassica. Essa, infatti, ingloba, insieme a un brano della facciata della seconda chiesa, l'intero prospetto della chiesa del Salvatore con i suoi spioventi del tetto a capanna, con le sue finestre originarie rettangolari strombate con le sua struttura a piccoli conci di bianco tufo marmoso a faccia vista, tipica delle costruzioni di età normanna, nonché il rosone che è un inserto di età gotica, realizzato con la venuta dei carmelitani a Sciacca (sec. XIII). Oltre che in facciata, resti della seconda chiesa cinquecentesca si trovano incorporati nell'abside. A differenza del prospetto della chiesa del Salvatore che è costruito con piccoli conci di pietra bianca, quello neoclassico, rimasto incompiuto, è costruito con blocchi di tufo conchigliare compatto della Perriera, di colore giallo-dorato. 

Anche il campanile, attiguo alla chiesa da est, è coevo alla seconda chiesa. Da notare, al sommo della costruzione, la cornice che ha la stessa sagoma della cornice del vicino palazzo Argomento-Perollo, prospettante in via Incisa le due sculture raffiguranti due teste di mori, un ricordo-simbolo delle incursioni piratesche, frequenti in quel tempo, e gli altri elementi lapidei aggettanti nei quali venivano infisse le bandiere (o le torce) durante le festività.

La chiesa è sormontata da una scenografia cupola, datata 1807. Sull'alto tamburo, 4 finestre che si aprono tra coppie di pilastri ionica a faccia vista, permettendo alla luce di fiottare abbondantemente nell'interno. La calotta, insieme alla soprastante lanterna, è rivestita di mattonelle invetriate di un bel verde smeraldo in parte rifatte in seguito a un recente restauro 1985.

Chiesa di S. Caterina  

Quella attuale è la terza chiesa dedicata a S. Caterina, Vergine e Martire alessandrina, il cui culto a Sciacca ha antiche origini. La prima, non più esistente, fu fondata, stando all'iscrizione in lingua  latina che si trova sulla facciata interna sopra la porta, nel 1109 da Giulietta, Comitis Siciliae Rogerii Filia, e si trovava nelle vicinanze di Porta S. Pietro; la seconda, che era dove oggi c'è quella attuale, fu eretta nel 1520,  anno in cui fu ampliato l'antico piccolo monastero annesso alla prima chiesetta normanna; la  terza chiesa  è  il risultato dell'ampliamento della seconda della quale ingloba il presbiterio, già ricostruito nel 1722, parte  dei muri perimetrali e lo stesso prospetto del quale, a causa del recente scrostamento dei muri, attualmente si  può notare un arco a tutto sesto. La terza chiesa, iniziata nel 1796 e terminata in rustico nel 1825, fu rifinita nel 1838-39 su progetto Salvatore Gravanti. La  facciata, intonacata a calce, delimitata ai lati da robusti cantonali in conci di tufo conchigliare a vista che ne accentuano lo sviluppo verticale, è ravvivata al centro da un alto portale dal timpano curvilineo e soprastante balcone (fino a pochi anni fa chiuso da grata di ferro) e alla sommità da una pittoresca loggia-campanaria di sobrio stile barocco. 

L'interno, ad una sola navata, aveva originariamente cinque altari costruiti in muratura incrostata da cristalli colorati in disegni in oro, dei quali rimane solo l'altare maggiore, essendo stati  gli  altri  quattro  di recente  demoliti. Sull'altare maggiore di  marmo  è  una  pregevole statua lignea cinquecentesca di S. Caterina di recente restaurata a cura della Soprintendenza ai Beni Storici e Artistici di Palermo. La bella antica spada, sulla cui elsa la Santa appoggia la mano, è prezioso dono dei marchese S. Giacomo. 

Sugli altri altari notevoli sono i dipinti SS. Annunziata e Strage degli Innocenti di Gaspare Testone. Il secondo è ritenuto una delle opere artisticamente più valide di questo nostro artista che fu maestro di Mariano Rossi. Un terzo dipinto, raffigurante La diramazione dell'ordine di S. Benedetto (primo altare a sx), di cui gli eruditi locali non fanno alcun cenno, per lo stile e il colore a me sembra che possa attribuirsi a Michele Blasco. (Di questo artista vedasi specialmente L'Immacolata che si trova nel primo altare a sx della chiesa del Collegio), di recente (1987) restaurata. Di buona mano sono anche due statue di marmo di ignoto autore, raffiguranti S. Benedetto e S. Scolastica,attualmente sistemati in due nicchie ai lati del presbiterio, e un Crocifisso ligneo collocato nel secondo altare a sx. Eliminati i quattro altari laterali e scomparsi gli "arredi sacri e vasi preziosi" dei quali era "discretamente Provvista" la chiesa appare oggi agli occhi del visitatore squallida e disadorna.  

Chiesa di S. Michele Arcangelo

È questa la terza chiesa dedicata a S. Michele Arcangelo. La prima si trovava all'incirca nel sito dove è il cappellone della chiesa di S. Maria dell'Itria. La seconda, ancora oggi esistente ma di recente assai manomessa all'interno, si trova attigua da sud alla terza. Fondata dal conte Guglielmo Peralta nel 1371, terminati pochi anni dopo di rustico, fu rifinita in seguito da Artale Luna, genero ed erede, di Nicolò Peralta, figlio di Guglielmo. 

Questa chiesa doveva essere molto bella se il Fazello la definisce fanum insigne. Sin dal 1400 ospitava la Confraternita di S. Michele. Oggi, assai manomessa, ospita ragazzi delle scuole elementari. La terza chiesa fu costruita per volontà di Natale Amodeo, ricco conciapelle e calzolaio, il quale, prima di morire, spinto da pietà religiosa verso l'Arcangelo S. Michele, dispose che tutto il suo patrimonio fosse destinato a tale opera. La costruzione, iniziata nel 1614, fu terminata nel 1620 e aperta al culto nel 1638. 

La facciata, dallo schema architettonico lineare, ha chiare superfici intonacate a calce esaltate dalle paraste di pietra dorata a vista ed è completa, a differenza delle altre chiese di Sciacca del periodo barocco che in genere mancano di qualcosa. Il primo ordine è contrassegnato da tre portali. Sul timpano della porta principale, che guarda a ponente, è collocata una quattrocentesca statua di marmo bianco di S. Michele che era nella seconda chiesa dedicata al Santo. Sotto l'arco del portale, ornato di fini motivi barocchi, è la data di inaugurazione della chiesa, 1638. 

L'interno, con pianta a croce latina, è diviso in tre navate da una serie di snelle colonne sulle quali poggiano gli archi a tutto sesto. Nonostante le più o meno recenti manomissioni (è stato, ad esempio, sostituito l'antico pavimento in ceramica con altro in fredde piastrelle di marmo di Carrara) questa chiesa, per la vastità dell'insieme, è una delle più belle di Sciacca. Sul lato interno della facciata è un'imponente tribuna cantoria del sec. XVIII, fastosamente intagliata con gusto barocco, e un organo costruito nel 1832 da Francesco La Grassa. Nella navata destra sono conservate alcune pregevoli opere di scultura e pittura, provenienti da antiche chiese non più esistenti. 

Sul lato interno della facciata si ammira una preziosa Croce lignea in stile gotico catalano, nella prima cappella, Dormitio virginis, bassorilievo marmoreo del XV secolo, diviso in due scomparti, in cui sono raffigurati, in quello inferiore il Transito della Vergine e in quello superiore l'Assunzione di Maria. Segue un S. Girolamo, dipinto su tavola del XV secolo proveniente dall'antica chiesa di S. Michele eretta dai Peralta ed ora non più esistente. Il dipinto porta la data e il nome del committente: Hoc opus fieri fecit Iacopu Amodeo et Margaritella uxor 1454. Si ignora, invece, il nome dell'artista. 

Murato  vicino è un Angelo Raffaele e il bambino Tobia, bassorilievo marmoreo del secolo XV proveniente dall'antica chiesa. Sul secondo altare è stato collocato di recente un S. Giovanni e l'Addolorata, dipinto su tela del saccense Vincenzo Tresca, firmato e datato 1788, che prima era in sagrestia. Sull'altare maggiore è una seicentesca statua lignea raffigurante S. Michele fatto scolpire in in Roma nel 1380 da Guglielmo Peralta (G. Licata). 

Rappresenta il Santo giovinetto, dal volto fanciullesco incorniciato da una prolissa chioma inanellata, nell'atto di tenere il piede destro sul corpo atterrato del demonio, dalla lunghissima coda a tortiglione, che, invano, tenta divincolarsi aiutandosi con le mani e coi piedi dalle dita unghiute come artigli di rapace. (Il corpo snello e forte del Santo sembra non sentire il peso della preziosa armatura della quale è vestito). 

Nella navata sinistra tra le cose degne di nota sono: un Fonte battesimale dì marmo, del 1586, ornato di angeli, racemi e fiori, proveniente dalla seconda chiesa, una Annunciazione di G. Sabella (1818) e in fondo alla navata, ai piedi di un Crocefisso, in nicchia chiusa da un minicancello, un Ostensorio-reliquiario d'argento dorato nel quale si conservano due spine della corona di Cristo. Per finire: presso la prima colonna della navata centrale, a s. e un'antica acquasantiera di marmo bianco, ornata con testine di angeli finemente scolpiti, e presso la prima colonna a destra altra pila per l'acqua santa di marmo rosso, proveniente dall'antica chiesa. 

Tra la chiesa di S. Michele e il campanile vi è la piazzetta detta comunemente dai vecchi del quartiere "Firriatu di S. Michele" perché in origine aveva forma circolare ed era circondata da un'inferriata. In questo spazio era nel sec. XV il cimitero di una confraternita di nobili che aveva la sua sede nell'antica chiesetta, oggi trasformata in scuola, che confina a sud con la scalinata attraverso la quale si scende in via Pietre Cadute. 

Nell'edificio attiguo alla chiesa, di cui avanza il portale gotico, erano fino a non molti anni fa conservati dei cadaveri imbalsamati disposti ritti lungo le pareti.

Dalla piazzetta si gode un vasto panorama di tetti che comprende buona parte del centro storico della città, caratterizzato e dominato dalle eminenti moli del Castello Luna, della chiesa di S. Caterina, della Chiesa Madre e di quanto resta del Castello Vecchio. Il mare, sullo sfondo, è la stupenda cornice del quadro. 

Dalla chiesa di S. Michele ha inizio il corso Tommaso Fazello dove, quasi a metà strada, al n. 98, è la casa natale di Mario Ciaccio, storico di Sciacca, alla cui memoria nel 1931 è stata murata sulla facciata una lapide di marmo e collocato su una mensola un busto, opera dello scultore saccense Giuseppe Cusumano. Accanto è il vasto Cortile Celso nel quale si entra attraverso un antico portale ad arco ribassato che in origine, come tutti gli antichi cortili, per ragioni di difesa, era chiuso da una robusta porta. 

La torre campanaria si trova, isolata, nella piazzetta detta comunemente dagli anziani del quartiere Firriatu di S. Michele, a pochi metri di distanza dalla chiesa omonima. Fu eretta, secondo gli eruditi locali, nel 1550 dalla Confraternita di S. Michele. La poderosa costruzione, di forme perfettamente geometriche, con base quadrata, un parallelepipedo dalle nude superfici di conci a vista prive di finestre, tranne una sul lato meridionale, ha tutte le caratteristiche di un'opera di difesa. La sua struttura massiccia (i muri perimetrali hanno uno spessore di oltre due metri) è assai simile a quella delle coeve opere di fortificazione (Porta Salvatore, bastioni di S. Margherita e di S. Agata, Porta S. Calogero, mura di Vega ecc.) costruite a Sciacca al tempo di Carlo V (sec. XVI) quando più pressante era la minaccia di incursioni da parte dei pirati barbareschi e il pericolo di uno sbarco dei Turchi. 

Non a torto si ritiene che la torre sia stata originariamente innalzata per l'avvistamento e successivamente utilizzata come campanile.  Confermerebbe questa ipotesi il fatto che la più grande delle campane collocate in cima alla torre fu fusa nel 1587 cioè 37 anni dopo l'erezione dell'edificio, e che i supporti in muratura che la reggono hanno tutti i caratteri di una costruzione posticcia che, sia per la forma sia per la struttura, è in netto contrasto con il possente fabbricato di pure forme geometriche. In cima alla torre sono tre campane delle quali la maggiore, opera di Natale Garbato, del 1587, pesa circa 1800 chili. Su quest'ultima, oltre alla data, è la seguente Iscrizione: Piango i morti, respingo i fulmini, chiamo i vivi.

Ai piedi della torre campanaria (lato sud-est), in via Gallo, sono alcune abitazioni in grotta le cui origini risalgono a tempi remoti. Il luogo è raggiungibile attraverso la scalinata che fiancheggia l'antica chiesetta di S. Michele, detta via Pietre Cadute. Da questa via può interessare raggiungere il cortile Grotte (dove sono altre abitazioni scavate in parte nella roccia) sul quale si affacciano le finestre di una casa d'età catalana, delle quali una reca incisa sull'architrave di pietra la data 1559 e la sigla I H 5 (Jesus Hominum Salvator). La casa, che appartiene alla famiglia Grisafi, si trova all'interno del cortile omonimo al quale si accede attraverso un portale ad arco ribassato da via Amato. Altre finestre cinquecentesche si affacciano sullo spiazzo Gallo raggiungibile dal vicolo Castello.  

Chiesa di S. Francesco da Paola

Iniziata nel 1627, fu portata a termine nel 1749. Successivamente, il 7 maggio 1768 si aprì la chiesa. A una sola navata, secondo il gusto francescano settecentesco, con crociera e cappelle affondate, ha nove altari. 

Tra le opere d'arte che si conservano in questa chiesa meritano particolare menzione i dipinti Sacra famiglia, Madonna della Luce e Deposizione di Mariano Rossi, e il Crocifisso ligneo sull'altare a sinistra provenienti dalla demolita chiesa di Santa Lucia. 

Quando nel 1580 vennero a Sciacca i Padri Minimi di San Francesco di Paola, in un primo tempo furono ospitati in alcune case annesse alla chiesa di S. Vito e in seguito  (1610) nella casa grande dei Signori Tommaso e Giuseppe Medici e Tallarita, che fu adattata a convento con lavori che si protrassero a lungo e furono portati a compimento nel quinquennio 1744-49. 

Allo stato attuale l'edificio conserva sostanzialmente integro il prospetto sulla via Licata, mentre all'interno risulta manomesso a causa delle trasformazioni subìte in relazione all'uso cui sono stati destinati i locali del convento dopo la soppressione del'66. 

Ospita da vari anni l'Archivio Notarile. Distrettuale e altri uffici.

Chiesa di S. Calogero  

È questa la terza chiesa eretta sul monte Kronio o pendici (la prima, costruita subito dopo la morte di S. Calogero e dedicata a S. Maria di Dolcevalle, si trovava in contrada Lucchesi, la seconda, dedicata a S.Giacomo Apostolo, in contrada La Chiave). 

La costruzione, iniziata nel 1530 da don Mariano Manna, priore di S. Nicolò la Latina, fu portata a termine nel 1644. Notevoli lavori all'interno della chiesa e del convento attiguo furono compiuti nel XVIII sec. ad opera di Diego Noguera e Giacomo Giuseppe Serra, due nobili spagnoli che, abbandonato il secolo, vestirono l'abito degli eremiti di San Calogero, assumendo rispettivamente il nome di Fra Placido e Fra Calogero. L'interno è di età barocca. Sull'altare maggiore è una stupenda statua marmorea di San Calogero, opera di Antonello e Giacomo Gagini (1535-38). Ai lati dell'altare maggiore san due dipinti a olio dei primi del'900: a dx San Calogero che scaccia i demoni dalla montagnadi Luciano Vitabile, e a sx San Calogero che sale al monte di Benedetto Violante. 

Sugli otto altari, ai lati dell'unica navata, sono varie opere di pittura del Sei-Settecento non prive di qualche interesse. Lato destro: 1° altare, S. Margherita da Cortona; 2°, S. Girolamo, dipinto su tela di forme michelangiolesche e rosseggiante, che qualcuno vorrebbe attribuire al nostro Mariano Rossi; 3°, Natività di Ignoto (sec. XVII); 4°, S. Ignazio di Lojola e S. Francesco Saverio di Ignoto. 

Lato sinistro: 1° altare, S. Zosimo che fa la comunione a S. Maria Egiziana, bella tela di Gaspare Testore, che ci dà la misura della validità di questo dignitoso pittore saccense che fu degno maestro di Mariano Rossi; 2° Immacolata di Ignoto; 3° Crocifisso reliquiario (sec. XVII); 4° Madonna della Mazza patrona civitatis, di ignoto autore. 

Tutti gli altari sono in legno e di età barocca (sec. XVIII). I putti in stucco sulle arcate delle cappelle, di gusto serpottiano, rappresentati in vivaci atteggiamenti naturali, nonché le statue in gesso di Santa Rosalia e di S. Maria Maddalena, sono dello scultore saccense Emanuele Bentivenga e furono realizzati tra il 1914 e il 1918. La chiesa è stata elevata alla dignità di Basilica Minore da Papa Giovanni Paolo II il 20 settembre 1979.   

Attaccato al Santuario è il convento. L'antico eremo, fondato nel sec. XVI, è stato ristrutturato e ammodernato alcuni anni or sono, dopo che, insieme con la chiesa, è stato ceduto dall'Amministrazione dell'Ospedale di Sciacca ai Padri del Terzo Ordine Regolare di S. Francesco (1948). 

Chiesa del Collegio

È una delle più belle chiese di Sciacca per la grandezza, per l'eleganza e per la magnificenza dell'architettura. Sorge nell'area dov'era il palazzo di G. B. Perollo, che fu demolito per dar luogo alla costruzione. È dedicata a S. Giovanni Battista in omaggio al fondatore, G. B. Perollo, il quale per erigere chiesa e Collegio dei Gesuiti donò quindicimila scudi. La costruzione fu terminata nel 1626 ma i lavori di rifinitura all'interno si protrassero fin verso la metà del '700. Fu aperta al culto dai Gesuiti nel 1615, mentre era ancora incompleta. Fu consacrata il 16 ottobre 1825 dal Vescovo di Siracusa, Mons. Giuseppe Amorelli, come si legge su una lastra di marmo affissa al muro.

La facciata, incompleta, a sviluppo verticale, dallo schema che riecheggia forme fondamentalmente manieristiche, è divisa in due ordini. Pilastri binati (paraste) la dividono in tre campate nell'ordine inferiore, in due nel superiore. La campata centrale, in basso, è animata da un elegante portale barocco, costituito da corinzie e scanalate, impostate su alti zoccoli e sormontate da timpano ad arco spezzato. Di sagoma barocca sono anche le due nicchie (ai lati del portale) a forma di finestre a edicola. 

L'interno, a pianta basilicale con una sola grande navata di tipo vignolesco, (m. 62 x m. 24) fiancheggiata da cappelle con nove altari tra loro comunicanti, e collegata con il presbiterio in modo da formare un continuum strutturale, e con la cupola sull'intersezione del transetto con la navata. Componenti interessanti della suggestiva atmosfera chiesastica sono l'organo, sei tribune con le grate dorate dalle quali i religiosi una volta assistevano alle sacre funzioni, la fastosa decorazione in stile rococò e i bassorilievi in stucco eseguiti da maestranze locali nel 1765. Non mancano opere d'arte pregevoli. 

Sull'altare maggiore è una grande tela, raffigurante S. Giovanni Battista, attribuita al Domenichino, e, ai lati del presbiterio, due teli raffiguranti, a sinistra Decollazione di S. Giovanni e a destra S. Giovanni che battezza Gesù, eseguite nel 1850 dal Sac. Giovanni Patricolo, palermitano, allievo di Giuseppe Velasco e Giuseppe Patania. Degni di nota anche quattro busti-reliquiari in legno dorato del Seicento, simili a quelli esistenti nella Chiesa dei Cappuccini, raffiguranti i Santi Cosma e Damiano. Altre opere d'arte sono nelle cappelle. Lato destro della navata: nella prima cappella, I Re Magi, tela di Giovanni Portaluni da Licata. In questo dipinto quello dei tre Re Magi che guarda verso l'osservatore è forse il ritratto del pittore. Gli altri due Re Magi guardano rapiti il Bambino. Nella seconda cappella, Crocifisso ligneo di età barocca cui fa da sfondo un coevo grande reliquiario dorato. 

Ai piedi della Croce, sulla destra, statua dell'Addolorata e Angelo piangente. Lato sinistro: Nella prima cappella, immacolata, ovvero Incoronazione di Maria, tela di Michele Blasco, e recentemente restaurata a cura della Soprintendenza ai Beni Culturali (1987). Nella seconda e terza cappella le statue del Cuore di Gesù e della Sacra Famiglia sono lavori realizzati negli anni Venti. Nel braccio sinistro della crociera, nella cappella dedicata al SS. Redentore, la statua proviene da Napoli (1840). Sotto l'altare sono le reliquie di S. Privato. Ai lati a sinistra, Trasfigurazione, a destra Trionfo della Croce, dipinti su tela di Tommaso Rossi. Nel braccio destro della crociera, sull'altare statua lignea di S. Alfonso, che regge con la sinistra il Crocifisso e con la destra lo indica. 

Ai lati dell'altare, S. Alfonso in estasi dinanzi alla visione della Madonna e S. Alfonso che consegna la regola alle suore e ai padri redentoristi, dipinti su tela di Tommaso Rossi. Dei due dipinti il primo è copia di un originale attribuito a Domenico Provenzani (1736-1794). Sotto l'altare, dentro un'urna, sono le reliquie di S. Vittore Martire. In questa cappella si trova inoltre il sarcofago marmoreo di G. B. Perollo, fondatore della chiesa. Altre opere d'arte si trovano in vari ambienti. In un locale di passaggio, che dalla chiesa porta in sagrestia, è un ritratto di Giovanni Portaluni, e un'epigrafe, che ricorda ai posteri che la chiesa fu fondata a spese del munifico barone. Qui si trova pure una grande tela raffigurante Gesù che regge la Croce. Altre due grandi tele si trovano vis-a-vis nel corridoio che porta alla sagrestia. Di esse una rappresenta la Sacra Famiglia, ed è copia dell'omonima opera di Mariano Rossi, esistente nella chiesa di S. Francesco di Paola, eseguita dal figlio Tommaso, l'altra, la Pietà, opera datata 1790, ma non firmata. 

Altre opere meritevoli dell'attenzione degli amatori d'arte si trovano, infine, nella sagrestia. Sono: Immacolata e Madonna di Trapani di Michele Blasco, Madonna della Mazza e Santa Rosalia, Sacra Famiglia e S. Agnese, Madonna e S. Stanislao che tiene in braccio Gesù Bambino di autori ignoti. 

Da segnalare, infine, La morte di re Ciro, tela attribuita a Pietro Novelli, il Monrealese, che attualmente si trova nel corridoio del piano superiore, attuale dimora dei Padri Redentoristi. Per gli amatori degli arredi di sagrestia c'è qui da ammirare un grande armadio barocco e per gli intenditori un bellissimo chiavistello in ferro battuto recante la data 1631 e il nome del fabbro, Barresi. Sempre in sagrestia, una Addolorata in cera, chiusa in cornice barocca a cassetta incassata nel muro. Un'altra immagine sacra in cera dello stesso formato faceva pendant a questa ma non si sa dove sia andata a finire. 

Numerosissime le reliquie: del legno della S. Corona, del braccio di S. Martino, dello stinco di S. Saturnino e di S. Benigno, della spalla di S. Faustino e di S. Marcello, della gamba di S. Simplicio, delle ossa di S. Vittorino, della coste di S. Corona, della gamba di S. Pantaleone e di S. Massimo, della testa di S. Proto ecc. ecc. 

Chiesa di San Domenico

Fondata contemporaneamente al convento nel sec. XVI, è stata rifatta e ampliata tra il 1776 e il 1791 su disegno di Ermenegildo Vetrano. Una lapide, posta sopra la porta d'ingresso all'interno della chiesa, ricorda inoltre che questa è stata restaurata nel 1859.

La facciata, semplice e severa, costruita, come il lato nord della chiesa, con blocchetti di tufo conchigliare, è animata dal portale, da una finestra, in asse con esso, e dall'aggettante cornice sommitale, elementi che con le loro zone d'ombra sottolineano la nuda superficie del paramento murario.

L'interno, di sobrie forme barocche, a una sola navata, comprende otto cappelle (tre in più rispetto alla prima chiesa fondata dal Fazello), oltre alla cappella maggiore. Sugli altari della navata, a destra sono tre quadri raffiguranti: S. Tommaso d'Aquino, S. Giacinto (179S), S. Domenico e una scultura, raffigurante il SS. Crocifisso. A sinistra: SS. Crispino e Crispiniano, tela di Giuseppe Tresca, datata 1784, Assunzione della Vergine, lavoro giovanile di Giuseppe Sabella. Sul dipinto si può leggere il nome del donatore e la data, 1804. Seguono una statua del Sacro Cuore, e una statua lignea di S. Vincenzo Ferreri che proviene dall'Oratorio della Congregazione, fondato nel 1650 e poi rifatto nel 1770, che si trovava in fondo all'arcata destra della portineria. Sull'altare maggiore, attorno al simulacro della Madonna del Rosario, lo stellario è opera di Vincenzo Tresca Junior. 

Lo stemma sulla volta dei presbiterio è della famiglia Del Medico. Dei due seicenteschi sarcofaghi marmorei attualmente collocati all'inizio della navata, quello a destra, di Giacomo Tagliavia, proviene dalla cappella di S. Giacomo. Quello a sinistra conserva i resti di Caterina del Medico, baronessa del Nadore e della Culla, figlia di Antonio Li Medici, fondatrice della cappella gentilizia. Delle varie tombe di nobili famiglie saccensi esistenti nella chiesa non rimane più traccia, essendo state di recente distrutte le pietre tombali in occasione del totale rifacimento del pavimento. Anche l'iscrizione riguardante l'antica sepoltura dei congregati, collocata nel 1724 nella cappella dei SS. Crispino e Crispiniano, non esiste più. 

Il Convento, fondato nel 1534, fu ricostruito su progetto di P. M. Ermenegildo Vetrano e portato a termine nel 1742. In seguito alla legge della soppressione dei conventi del 1866, passato al demanio dello Stato, è stato destinato a sede di vari uffici e scuole. All'interno di notevole c'è il chiostro per il quale è previsto un radicale restauro per riportarlo alle sue forme originarie, e, conservato in un locale attiguo, il portale dell'antica chiesa di S. Luca Evangelista che si trovava vicino a Porta Bagni. 

Chiesa di Santa Margherita

Era una delle più ricche chiese di Sciacca. Gli anziani raccontano che il suo pavimento di maiolica veniva lavato ogni anno con il moscato. È chiusa al culto e completamente abbandonata dal 1907. Fu fondata nel 1342 da Eleonora d'Aragona, nipote di Federico III d'Aragona e moglie di Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta e capitano a guerra di Sciacca, che fu uno dei quattro vicari del regno di Sicilia al tempo della regina Maria. Verso il 1350 venne concessa ai Cavalieri Teutonici, che vi annerissero il loro Ospizio o Grancia, che avevano stabilito pochi anni prima nella vicina chiesetta di S. Gerlando (Ciaccio). Soppresso l'Ospizio, nel 1390 la chiesa fu aggregata alla chiesa della Magione di Palermo al cui regio abate era soggetta. Fu completamente trasformata e ampliata nel 1594, avendo il ricco mercante catalano Antonio Pardo destinato, con testamento del 14 febbraio 1393, metà del suo patrimonio a beneficio della chiesa della quale, a giusto titolo, è considerato secondo fondatore. Tracce della prima chiesa, che è inglobata nella seconda, sono visibili all'esterno nei muri perimetrali, specialmente nel lato meridionale. 

Una visione globale dell'edificio si può avere da piazza del Carmine. Isolata da tre lati, la chiesa si delinea nettamente come un blocco geometrico dalle piatte superfici animate da ampie finestre e due portali, mentre le paraste angolari e le possente trabeazione in pietra conchigliare locale, sottolineano la geometria delle forme. Chiude l'alzato un aggettante poderoso cornicione lapideo, sostenuto da una serie continua di modiglioni finemente intagliati, dal quale sporgono, come bocche da fuoco, 10 pesanti gronde di pietra. Sulla facciata principale, che è rivolta a occidente,notevole è l'originario portale, in stile gotico-catalano, caratterizzato, al vertice, da un fiorone e ai lati, da due pilastri ottagonali, posti quasi come contrafforti della triplice ghiera a bastoni che continuano nei piedritti. 

Un altro portale, di marmo bianco, eseguito nel 1468, impreziosisce con la finezza dei suoi rilievi scultorei il lato settentrionale della chiesa. Questo portale, quasi certamente, apparteneva alla prima chiesa fondata da Eleonora d'Aragona e fu poi adattato alla seconda. Da un sommario esame salta agli occhi, la discordanza stilistica tra l'arco inflesso del fastigio, che è gotico, e l'arco della lunetta che è rinascimentale. L'arco rinascimentale è un'aggiunta successiva e il suo inserimento tra l'arco inflesso e l'architrave ha determinato lo spostamento dei due pilastrini e l'aggiunta di lastre di marmo tra pilastrini e stipiti del portale.

L'interno è una festa di colori: di oro, di stucchi e di grandi bei quadri; ove si celebravano splendide funzioni solenni. Entrando in chiesa, si è subito attratti dalla magnificenza della decorazione barocca. Stupefacente è la decorazione del presbiterio e del transetto eseguita da Orazio Ferraro, rinomato stuccatore siciliano del Seicento. Angeli, santi, putti in stucco, medaglioni, volute, rabeschi, festoni, ghirigori coprono tutte le superfici. Le pareti laterali del presbiterio sono occupate da due affreschi di grandi proporzioni. Raffigurano, quello a sinistra la Crocifissione, l'altro, a destra, la Madonna dell'Itria. Sono di Orazio Ferraro, che, oltre che scultore, fu anche pittore. Una serie di medaglioni, raffiguranti episodi della Via Crucis, opera di Giovanni Portaluni orna l'intradosso dell'Arco Trionfale. Anche nel transetto angeli e puttini in stucco del Ferraro, disposti in vari atteggiamenti, formano un insieme ricco e fastoso. Movimentata una SS. Trinità tra un coro di santi e angeli e non priva di delicatezza una Annunciazione alla Vergine che indubbiamente è il lavoro più interessante del Ferraro in questa chiesa. Rozzamente modellato appare invece un Adamo gigantesco collocato a sinistra dell'Annunciazione.

Sempre nel transetto sono inoltre due quadroni, Adorazione dei Magi e Nascita di Gesù di Gaspare Testone e un sarcofago con iscrizione latina, recante la data 1602, nel quale sono conservate le ceneri di Antonio Pardo che prima erano nella vicina chiesa di S. Gerlando. Passando dal transetto alla navata, la decorazione si attenua, la plastica dello stucco si appiattisce, le statue a tutto tondo cedono il posto a figure di minore rilievo. Qui, sulle pareti spaziose sono sei grandi quadri, dipinti a olio, del celebre pittore licatese Giovanni Portaluni. 

Sul lato destro della navata vi è l'unica cappella della chiesa ed è dedicata a S. Barbara. Qui si trova una icona marmorea dallo schema compositivo simile a quello della icona di A. Gagini che si trova nella Chiesa Madre. L'opera è di Giuliano Mancino e di Bartolomeo Birrittaro, scultori carraresi operanti nel '500 a Palermo. Nella stessa cappella si trova anche una bella tela di Michele Blasco, pittore saccense del '600. Rappresenta l'invenzione del corpo di S. Stefano ed è interessante esempio dell'arte di questo pittore che nella violenza delle tonalità e nell'oscuro marcato delle ombre ci fa vedere chiaramente la sua derivazione dall'arte tenebrosa che il Caravaggio prima introdusse in Sicilia e che Pietro Novelli largamente diffuse nell'isola. Anche gli altri dipinti, affreschi della volta e tele sulle pareti (in alto) sono del Blasco e furono eseguiti nel 1658.

Chiesa di Santa Maria dell'Itria

Sorge nella parte piè alta della città e forma, insieme con l'annesso monastero, detto comunemente Badia Grande, il complesso monumentale più imponente della città. 

Fu fondata nel 1380 dal conte Guglielmo Peralta, che fu uno dei quattro vicari del regno di Sicilia dopo la morte di Federico III, e ricostruita di pianta tra il 1776 e il 1784 su progetto dell'ing. Luciano Cambino di Trapani.

La facciata, dallo schema compositivo estremamente semplice nel primo ordine, simile ad altre antiche chiese di Sciacca, assume slancio imponente e preziosità barocche grazie alla sovrastante scenografica loggia e all'attico. 

L'interno, a una sola navata, con sei cappelle, tre per lato, è ricco di decorazione in oro zecchino e di opere d'arte. Sull'altare maggiore, è una tela raffigurante Maria SS. dell'Itria e ai lati due tele S. Michele Arcangelo a destra, e Angelo Custode a sinistra opere di Gaspare Testone. Dello stesso pittore sono gli altri dipinti che sono: a dx sul primo altare Santa Scolastica, sul secondo Sacra Famiglia, sul terzo S. Benedetto che rovescia gli idoli e scaccia i demoni da Monte Cassino; a sinistra sul primo altare Martirio di S. Eufemia, sul secondo Il transito di S. Giuseppe. 

Altari e pavimenti sono tutti di marmo rosso di Sciacca. In chiesa c'è pure una lapide sepolcrale delle religiose, sebbene esse siano sepolte nella tomba che si trova dentro la clausura.

Chiesa di San Nicolò La Latina

È la chiesa più antica di Sciacca e uno dei più interessanti esempi di quell'arte siculo-bizantina che, ricca di elementi d'arte islamica, fiorì sotto la dominazione normanna. Risale al periodo più antico di tale dominazione. Come quasi tutte le chiese di questo periodo, anche di S. Nicolò la Latina si ignora il nome dell'architetto, si sa solo che fu fondata, tra il 1100 e il 1136, dalla contessa Giulietta, figlia del gran conte Ruggero. La chiesa, in parte nascosta da casupole addossate ai suoi lati, sorge in uno dei quartieri più caratteristici di Sciacca che al tempo degli arabi e dei normanni restava fuori la cerchia delle antiche mura e costituiva il borgo del Rabato. 

Dedicata a S. Nicolò di Bari, venne, nel 1172, denominata S. Nicolò la Latina, perché in tale anno passò alle dipendenze dell'abazia di S. Filippo di Argirò, a sua volta dipendente dal monastero benedettino di S. Maria la Latina di Gerusalemme. Ad essa era annesso un monastero benedettino, dalla fine del '500 non più esistente, del quale rimane qualche traccia nell'attiguo cortile S. Nicolò, e un orto. S. Nicolò la Latina è di piccole dimensioni e di estrema semplicità.

Un portale e tre finestre con le loro cornici a doppio rincasso ravvivano la nuda superficie del paramento murario a piccoli conci, la cui parte superiore aggetta leggermente su quella inferiore, creando un suggestivo contrasto di luce e ombra. 

Tre piccole absidi di forma cilindrica, simili a quelle, imponenti come torri di mastodontico castello, della coeva chiesa madre, anch'essa fondata dalla contessa Giulietta, accentuano, con la loro perfetta geometria, i caratteri arabi di tutto l'edificio. 

La pianta è a forma di croce latina, con una sola navata, coperta da soffitto ligneo e le nude pareti  sono ravvivate in alto da piccole finestre strombate che richiamano alla mente le feritoie del vicino castello dei Luna. La nudità delle pareti e la mancanza di elementi decorativi, insieme con la rustica semplicità del tetto a capriate, mettono maggiormente in evidenza la bellezza e la coerenza strutturale e stilistica della costruzione, dominata dalla solennità degli archi acuti su alti piedritti, di pure forme islamiche, del transetto, del presbiterio e delle absidi.

Costruzioni civili

Posto sulla vetta del monte Kronio, adiacente al Santuario del Santo, Il Grand Hotel San Calogero è una delle opere incompiute più longeve d'Italia. Dal 1954, data di inizio dei lavori ad oggi, la struttura ha avuto ben due ristrutturazioni ed altrettante inaugurazioni, ma non è mai stato aperto al pubblico.

In piazza Duomo si trova la Casa Museo Scaglione, che conserva oggetti artigianali, ceramiche, tele ed oggetti vari d'inestimabile valore. Il Bastione di Sant'Agata si trova in Piazza Mariano Rossi.

Degno di nota è anche il Palazzo Manno, residenza settecentesca della nobile casata siculo-fiorentina. L'edificio non è più visibile integralmente per come era in passato, a causa delle ristrutturazioni a cui fu sottoposto per essere trasformato in albergo nel XX secolo.

Non poco lontano dalle terme vi è una colonna votiva con in cima una statua bronzea raffigurante Notre-Dame de Fourvière. Tale colonna fu fatta erigere per volere di don Michele Arena in seguito all'incidente del dirigibile francese Dixmude nel 1923.

Pregevoli sono le costruzioni civili: Palazzo Amato nell'omonima via del XIII secolo; Palazzo San Giacomo Tagliavia, XV secolo, con le sue facciate in stile impero sul Corso Vittorio Emanuele e in Via Licata e con quella forse più ricca di fascino rivolta a levante sulla Piazza S. Fricia in stile neogotico opera dell'architetto Gravanti; Palazzo Arone di Valentino sempre in Corso Vittorio Emanuele del XIX secolo; Palazzo Bertolino-Tommasi dalla candida facciata neoclassica opera dello stesso architetto Gravanti in Corso Vittorio Emanuele; Palazzo Ventimiglia nel Vicolo Gino del XV secolo; Palazzo Graffeo o Grifeo nel Vicolo Orfanotrofio del XVIII secolo; Palazzo Inveges nell'omonima piazza del XVII secolo; Palazzo Maurici in Piazza Scandagliato del XVIII secolo; Palazzo Ragusa in via Licata del 1770; Palazzo Perollo in via Incisa del XV secolo e Palazzo Steripinto o Sortino in via Gerardi del XVI secolo, esempio d'arte spagnola, Palazzo Venuti. Tra le residenze di campagna si ricorda la Villa Venuti Tagliavia, residenza settecentesca in stile barocco e che comprende anche una cappella.    

Terme

I romani, rinomati cultori delle terme, sfruttarono per primi e in modo compiuto le acque calde di Sciacca chiamandole “Thermae Selinuntinae”. Le prime notizie scritte sul loro utilizzo risalgono al Medioevo, quando nell’eremo di San Calogero i religiosi le usavano per curare gli infermi. 

Nel XVIII e nel XIX secolo due scienziati, Bellitti nel 1783 e Farina nel 1864, accertarono le qualità terapeutiche di queste acque sulfuree. Tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 fu inaugurato il collegamento ferroviario per Sciacca, facendo di fatto uscire la cittadina dal suo isolamento: fu così promossa la costruzione di uno stabilimento termale, che si sviluppò negli anni ‘50, ma chiuse dopo pochi anni. Solo negli anni ‘70, contestualmente alla costruzione di alberghi termali e due centri sanitari, Sciacca è tornata in auge come località di turismo termale oltre che balneare. 

Il patrimonio idro-termo-minerale di Sciacca è fra i più ricchi e completi, ma storicamente non è stato del tutto utilizzato. Bagni e fanghi sulfurei risultano efficaci per la cura di patologie osteoarticolari e reumatiche, mentre inalazioni, nebulizzazioni, humages, irrigazioni e aerosol curano le malattie dell’apparato respiratorio e la sordità rinogena. Il complesso termale è dotato di attrezzature moderne utili anche per trattamenti riabilitativi ed estetici. 

Famose sono anche le Grotte vaporose di San Calogero: secondo la leggenda furono opera di Dedalo il quale convogliò in questi antri i vapori che emergevano dal sottosuolo.

Ceramiche

La ceramica di Sciacca costituisce un importante elemento di attrazione per i turisti e rappresenta il fiore all’occhiello della produzione artistica ed artigianale della città. 

A Sciacca la tradizione del maestri maiolicari risale probabilmente al XIV secolo, ma è solo 200 anni dopo che la città diventa una delle capitali della ceramica artistica nazionale. 

Ritrovamenti di manufatti di ceramica di Sciacca a Gela e ad Agrigento confermano come la maiolica saccense adornava i palazzi nobiliari dell'epoca. Il ritrovamento a Sciacca di forni per la cottura e pezzi di maiolica consentono inoltre di affermare che la città era centro di produzione e di commercializzazione di ceramica fin dai tempi più remoti. I rinvenimenti danno la possibilità di conoscere i nomi dei maestri che lavoravano la ceramica tra il XV e il XVII secolo: Lu Xuto, Scoma, Francavilla, Piparo, Di Facio, Lo Boj, Bonachìa e Lombardo. 

La ceramica saccense nei secoli ha contribuito all'arricchimento artistico di monumenti, chiese e nell'arredamento urbanistico, come il Duomo di Monreale, decorato con migliaia di mattoni del maestro Lombardo (1498), la locale chiesa di S. Margherita, decorata con mattoni forniti dai maestri Scoma e Francavilla (1496). 

Attualmente una cinquantina di botteghe producono, con le stesse antichissime tecniche piatti, vasi, anfore, statue, piastrelle e oggetti di varie forme e dimensioni nelle tradizionali sfumature dei colori del giallo, del verde e del blu cobalto. I giovani che vogliono intraprendere questa preziosa attività artigianale possono frequentare i corsi del Liceo Artistico Bonachia ed ottenere il diploma d'istruzione superiore secondaria. 

Da anni in città si tenta di istituire un Museo della Ceramica, un luogo dove esporre in modo permanente alcuni pezzi pregiati della maiolica saccense, oggi custoditi nei musei di tutta Italia o in collezioni private. di Giuseppe Recca

Carnevale

Città del mare e della ceramica, Sciacca ospita una festa che conta oltre cento anni di storia e che monopolizza ogni anno un pubblico di circa 200.000 visitatori, conquistando sul campo un ruolo di primissimo piano tra gli appuntamenti del divertimento in Italia. 

Le origini del Carnevale di Sciacca risalgono forse all’epoca romana, quando venivano festeggiati i Saturnali; con più probabilità si collocano nel 1616, quando il viceré di Sicilia Pedro Téllez-Girón (1574-1624), terzo duca di Osuna, stabilì che l’ultimo giorno di festa tutti dovessero vestirsi in maschera.

Le prime manifestazioni sono ricordate come una festa popolare in cui venivano consumate salsicce, cannoli, vino e il popolo si riversava per le strade, travestito in vari modi. Successivamente furono fatti sfilare i primi carri addobbati alla meglio, che portavano la gente in costume sulle sedie in giro per le viuzze della città.

Negli anni venti compare una grande piattaforma addobbata, trascinata da buoi o cavalli, recante comitive in maschera.

Nel dopoguerra i carri vennero intitolati, e iniziarono a fare chiaro riferimento alle novità del progresso. Stelle filanti e coriandoli incominciavano a essere lanciati dai carri in movimento.

Di lì a poco, la folla in delirio fece sorgere le prime Compagnie di rivista, e furono allestiti carri allegorici sempre più sofisticati che riprendevano temi e personaggi locali in chiave satirica. Oggi i carri allegorici vengono ideati, progettati e realizzati nei mesi antecedenti la festa, coinvolgendo numerosi abitanti.

Il carnevale di Sciacca si vive per le strade e per le piazze della città dove impazzano dieci giorni di vivaci attività, con ospiti, grandiose sfilate in maschera e maestosi carri allegorici. Il primo a parlare della festa popolare di Sciacca è stato lo studioso palermitano Giuseppe Pitrè nel 1889, ma un anno dopo lo storico saccense Ciaccio fa riferimento ad un "Carnevale". Una volta la festa era una sorta di gioiosa manifestazione cittadina con gente che si vestiva in maschera e si divertiva ballanda e bevendo vino. C'era un personaggio, "Peppe Nappa", che è stato adottato dai saccensi come maschera locale, un pupazzo di cartapesta che apre e chiude la festa. Per oltre tre mesi migliaia di giovani  imparano musiche, canzoni, coreografie. 

L'artigianato locale, con ceramisti, pittori, scultori e artisti vari, è pienamente coinvolto per la costruzione dei carri e delle maschere. 

I carri allegorici vengono costruiti ogni anno da gruppi ed associazioni di persone che si riuniscono per realizzare nuove idee. Sono costruiti con cartapesta ma con una struttura portante in ferro che permette di realizzare i caratteristici movimenti che rendono unici i carri allegorici. Terminata la costruzione, i singoli pezzi dei carri allegorici vengono trasportati e quindi assemblati all'esterno.Poi le sfilate per le vie della città e le esibizioni in piazza Scandaliato, dove ogni carro dà vita anche ad una recita satirica in dialetto.  

"Filippu di li testi" e il suo giardino

Ai piedi del monte Kronio, a pochi chilometri da Sciacca, sorge il Castello Incantato, un museo-giardino unico nel suo genere, dall’atmosfera grottesca e magica al contempo, dove si trovano migliaia di sculture realizzate da Filippo Bentivegna, detto “Filippu di li testi”. Lo spettacolo che appare al visitatore è straordinario, unione di creatività umana e natura, dove, tra gli ulivi e i mandorli, si affacciano le teste scavate e scalpellate nella roccia da uno dei maggiori esponenti dell’Art Brut (o Outside Art).

Alla domanda "Perché scavate nella pietra?” Rispose "Cerco la Grande Madre... Dentro la terra è il seme dell'uomo." 

La storia di Filippo Bentivegna ebbe origine a Sciacca il 3 maggio del 1888, le tracce della sua vita e della sua famiglia giungono a noi tanto confuse quanto scarne, dipanate solo da leggende e dicerie popolari. Ritenuto da tutti un contadino, in effetti le sue origini familiari si dipartono dai quartieri della marina di Sciacca dato che il padre era un pescatore, mentre la madre era una laboriosa casalinga.

Filippo, nel 1913, imbracciò la classica valigia dell’emigrante per andare oltre oceano, negli Stati Uniti, sulle orme dei suoi due fratelli maggiori e di una sorella. Infatti, a Boston, lo aspettava la sorella ed in quella terra il giovane emigrante analfabeta riponeva le speranze di una vita nuova. Ma come sappiamo non tutti gli emigranti ebbero fortuna nel Nuovo Mondo e Filippo Bentivegna fu tra questi.

Tante sono le versioni che ci raccontano di questo sfortunato sogno Americano, ma è accertato che il manovale saccense in terra d’America, subì un grave trauma cranico per cui patì anche di amnesia e non fu più in grado di lavorare: “considerato improduttivo e dichiarato inabile al lavoro fu rimpatriato”.

Fra le leggende che accompagnano questo ulteriore enigma del Bentivegna, si narra che Filippo si accese d'amore per una bellissima donna dagli occhi neri, ma questa era già promessa per cui l’ardito immigrato siciliano sfidò il rivale ed ebbe la peggio subendo un colpo in testa che chiuse definitivamente le porte degli Stati Uniti, ma aprì all’ignaro innamorato le porte senza tempo dell’arte. Dopo circa sei anni dalla partenza fece così ritorno alla nativa Sciacca, anche se quello che tornò era un Filippo differente da quello che era partito. 

Nel 1919, l'Italia era reduce dalla Grande Guerra ed il Bentivegna emigrante, nel frattempo, essendo iscritto nelle liste della leva di mare era stato dichiarato disertore e condannato in contumacia a tre anni di carcere, per cui una volta rientrato allo scopo di eseguire la condanna venne sottoposto ad una visita psichiatrica. La commissione di visita non ebbe alcun dubbio: il disertore Filippo Bentivegna era pazzo. 

Nella sua città natale, con i soldi che era riuscito a risparmiare durante l’avventura Americana, acquistò un appezzamento di terreno alle falde del monte Kronio, ove si ritirò in eremitaggio per mezzo secolo e li realizzò il suo “Castello incantato”. Museo a cielo aperto, sito culturale di interesse unico.

Le sue sculture sono tutte diverse e nel suo immaginario rappresentavano i sudditi del regno da lui creato e di cui era Signore (amava infatti farsi chiamare “Sua Eccellenza”). Al centro del podere sorge la casetta dove egli viveva, le cui pareti sono decorate da disegni raffiguranti grattacieli che ricordano il suo soggiorno in America e un pesce che contiene nel proprio ventre un pesce più piccolo, probabilmente simbolo della traversata dell’artista all’interno della nave che lo condusse a New York. Morì nel 1967, all’età di settantotto anni. Un gruppo di quattordici sue opere sono esposte presso il Museo dell’Art Brut di Losanna.

L'oro di Sciacca

Esistono al mondo ventisette specie di corallo rosso, ma solo cinque di esse sono lavorabili. Tra queste vi è il Corallo di Sciacca, una tipologia dalle caratteristiche uniche al mondo: si tratta infatti prevalentemente di un sub-fossile già morto per un processo naturale - pertanto ecosostenibile - e che presenta tonalità di colore diverse e uniche allo stesso tempo.

Grazie al microclima eccezionale creatosi conseguentemente ai fenomeni vulcanici (come ad esempio quello che diede origine all’Isola Ferdinandea), vennero alla luce vaste estensioni di banchi di corallo che, a causa dei frequenti terremoti e delle eruzioni, furono strappate dalla roccia vulcanica e si depositarono sul fondale marino, dando origine a tre grandi giacimenti.

Nel corso dei secoli, l’azione dei fanghi e dei gas vulcanici ne modificarono la struttura genetica, trasformando il Corallo Rosso del Mediterraneo (Corallium rubrurri), che cresce copioso di fronte a Sciacca, nello straordinario e unico Corallo di Sciacca: esso si distingue per le incredibili tonalità di colore che vanno dall’arancio intenso al salmone rosa pallido, caratterizzato da macchie brunastre e talvolta nere proprio a testimoniare e a “certificare” le sue origini vulcaniche.

Il Corallo di Sciacca grezzo, appena pescato, appare opaco, mentre una volta pulito e accuratamente lavorato presenta una lucentezza vitreo-porcellanosa.

Pag. 1