Durante
il Neolitico il territorio di Gela era abitato da popolazioni
mediterranee, che vivevano in capanne costruite in legno, paglia e
fango.
Tra
il 3000 a.C. ed il 1500 a.C. Gela fu abitata prima dai Sicani, in
seguito dai Siculi che, passato lo stretto di Messina, combatterono
contro i Sicani costringendoli a ritirarsi aldilà del fiume Imera,
nella parte occidentale dell'Isola.
I
Siculi si stanziarono nella parte sud-orientale, con roccaforti nella
zona del Disueri. Sono state trovate testimonianze di questa popolazione
nelle necropoli di Disueri, Mangiova, Manfria e Settefarine in cui sono
state rinvenute, in tombe scavate nella roccia, utensili, gioielli, armi
e giocattoli.
Gela
fu fondata da coloni Rodi-Cretesi guidati da Antifemo ed Entimo intorno
al 689 a.C., precisamente, secondo Tucidide, 45 anni dopo la fondazione
di Siracusa e 108 anni prima della fondazione di Agrigento. La città
prese il nome di Lindioi e poi Gela, dal nome indigeno del fiume alla
cui foce si erano insediati i colonizzatori.
Questi
occuparono ben presto, il circondario di Gela fondendo la cultura
indigena con la propria. In campo religioso Telines, sommo sacerdote di
Demètra e Kore, impose il culto delle proprie divinità esteso al resto
della Sicilia e sopraggiunto anche a Roma.
Gela
in breve tempo si arricchì di abitazioni, templi dedicati a Demetra e
Kore, Athena, Hera, ed altri numi benefici, dando inizio alla
colonizzazione delle zone attigue. Nel 580 a.C., coloni di Gela, guidati
da Aristinoo e Pistilo, fondarono Agrigento che si rese autonoma dieci
anni dopo.
Grazie
all'opera dei suoi tiranni (Cleandro, Ippocrate, Gelone) Gela si affermò;
in breve tempo, guida per l'unità di tutti i popoli greci della
Sicilia. Si impossessò di Camarina, occupò Gallipoli, Nasso e Leontini
confermandosi padrona incontrastata della Sicilia greca, creando un
blocco contro la minaccia dei Cartaginesi che occupavano la Sicilia
occidentale.
Nel
485 a.C. Gelone spostò la sua residenza a Siracusa e nel 480 a.C. Gela
partecipò con la sua cavalleria accanto ad Agrigento e Siracusa, alla
grande battaglia di Imera che vide la sconfitta di Amilcare e il suo
esercito cartaginese forte di trecentomila uomini.

A
seguito di questa vittoria Gela si ingrandì ancora e le testimonianze
del suo splendore si possono ammirare nel Museo archeologico nazionale.
Gelone, della famiglia dei Dinomenidi, inviò due ricchi tripodi d'oro
presso il santuario di Apollo a Delfi, dove i Gelesi avevano da tempo
costruito un thesauros. A Gela il tiranno innalzò un tempio dedicato a
Demètra e Kore, di cui tutt'ora rimane, una colonna in stile dorico.
Gela
visse un momento di grande prosperità e abbondanza tanto che Roma, come
ci tramanda Erodoto, colpita da siccità e carestia, ne conobbe la
generosità, avutone gratuitamente venticinquemila medinni (4859 salme)
di frumento spedito con triremi geloe.
Divenuto
tiranno di Siracusa, a Gelone succedette, al governo di Gela, il
fratello Gerone. Gelone riordinò Siracusa e mise pace fra le fazioni
opposte. Gelone morì nel 478 a.C. e per lui cantarono Pindaro, Epicarmo
ed Eschilo che elesse Gela a dimora definitiva. Qui morì nel 456 a.C.
colpito, dice la leggenda, da una testuggine lanciata da un aquila in
volo. Morto Gelone, a Siracusa gli successe il fratello Gerone. A Gela
si insediò il terzo fratello, Polizelo, grande mecenate, più volte
vincitore dei giochi olimpici. Di lui esiste, a Delfi, una scultura
bronzea, l'Auriga, donata dopo aver vinto una delle gare più
prestigiose.
Nel
424 a.C. Gela fu scelta per celebrare la prima convention della Sicilia:
il congresso della pace. Il motivo della riunione fu dettato dal
pericolo che gli Ateniesi si impadronissero dell'Isola approfittando
delle discordie tra le grandi e potenti città siceliote. Lo storiografo
Tucidide tramanda il discorso tenuto dal siracusano Ermocrate in cui si
invitano tutti i partecipanti a deporre le armi fra di loro per
affrontare il nemico comune. L'accordo ebbe breve durata.
Sconfitti
gli Ateniesi, un altro pericolo appariva all'orizzonte: quello punico.
L'avanzata dell'esercito punico metteva in pericolo anche Gela, e come
se questo non bastasse, il popolo insorse contro gli aristocratici della
città. Intervenuto Dionisio I, accordò al popolo ogni ragione e dopo
aver confiscato i beni degli aristocratici, li condannò a morte.
Sconfitta
Agrigento i Cartaginesi invasero Gela e Camarina, distruggendole. Gli
scampati si rifugiarono a Leontini. Era la primavera del 405 a.C. Dopo
otto anni i profughi gelesi provarono a ritornare nella loro città.
Sotto
la guida di Timoleonte, Gela ritornò ad essere prospera e visse un
lungo periodo di pace: continuò a coniare monete e fiorì nel campo
delle arti. Fu questo il periodo in cui vissero i gelesi Archestrato,
padre della gastronomia; Apollodoro, poeta e commediografo; Timagora,
filosofo; Euclide, matematico.
Morto
Timoleonte (336 a.C.) ricominciarono i dissidi tra le varie fazioni
risvegliando sogni espansionistici tra i popoli nemici della città di
Gela. Nonostante l'impegno di Agatocle, l'avanzata cartaginese si fece
sempre più minacciosa. Lo scontro tra i Cartaginesi, forti di 45 mila
uomini e i Sicelioti, tra i quali anche Geloi, fu un disastro per questi
ultimi ed i loro alleati. La sconfitta fu l'inizio della fine per Gela.
Nel 282 a.C. la città fu distrutta dagli Agrigentini guidati da Finzia.
Questo
l'amaro destino di una gloriosa città condotta al massimo splendore dai
Dinomenidi di Gela, spartendo le sorti con Agrigento da lei fondata.
Dopo
la distruzione della città ebbe inizio l'occupazione dell'Isola da
parte dell'esercito romano guidato dal console Marcello che, dopo
occupata Siracusa, attrasse alle spire di Roma il resto della Sicilia. I
Cartaginesi furono affrontati e sconfitti da Marcello sulle rive dell'Imera
meridionale. Tracce di questo importante periodo storico sono state
riscontrate nelle campagne di Gela (ceramiche, necropoli bizantine ecc.)
e, a riprova si sa che nel 208 a.C. Gela soccorse i Romani (console
Levino) con uomini, armi, viveri e denari; nel 202 a.C., Scipione, dopo
la conquista di Cartagine, restituì quello che rimaneva dell'antica
città molti degli oggetti che i Cartaginesi avevano loro trafugato; nel
76 a.C. Cicerone accusò Verre, il famoso "ladro" romano, di
peculato e concussione per le infami ruberie perpetrate anche a Gela; da
lui sappiamo inoltre che Gela, dopo la distruzione, fu impinguata di una
colonia di Romani, inviata da Publio Servilio.
Nel
603 d.C. la città era chiamata "Massa quae dicitur Gela" e
sicuramente consisteva in un piccolo borgo il cui centro doveva trovarsi
nelle vicinanze del cimitero monumentale, ove più tardi, nel 1099 fu
costruita una piccola chiesa, detta di S. Biagio, tutt'ora esistente.
Il
nome della città subì vari cambiamenti e Gela fu chiamata, per le
colonne che vi sorgevano, anche "Città delle colonne" o
"Eraclea"; il nome rimase negli atti ufficiali civili fino a
quasi tutto il 1700 e negli atti ecclesiastici fino ad oggi.
Nell'837
d.C. la città di Eraclea fu occupata dal condottiero arabo Asad ibn
al-Furat. Gli Arabi vi introdussero la coltivazione del cotone e nuovi
sistemi d'irrigazione e chiamarono il fiume Gela "Wadi 'as Sawari",
ossia "Fiume delle Colonne", e l'abitato "Calat 'as
Sawari", Citta' delle Colonne.
Sotto
il dominio normanno Eraclea ebbe il privilegio di città demaniale
decretato dal conte Ruggero e confermato dal re Martino e dai regnanti
successivi.
Nel
1233, passata la Sicilia sotto il dominio svevo, Gela fu riedificata da
Federico II che la chiamò Terranova, per distinguerla dal vecchio sito
ubicato nella parte occidentale della collina, facile preda di
incursioni saracene.
Terranova,
il cui stemma raffigura l'aquila sveva di Federico II che si poggia su
due colonne, sorse nella parte orientale della collina, nel sito attuale
ove è ubicato il centro storico che va da Porta Licata a Porta Vittoria
e da Porta Marina a Porta Caltagirone. Gli abitanti, poco alla volta, si
trasferirono nella nuova città e la circondarono di mura, tutt'ora
testimoni silenziosi di quel tempo. Alla morte di Federico II Terranova
si dichiarò comune "autonomo" e si pose sotto la protezione
della Sede Apostolica. In seguito passò agli Angioini e nel 1282, dopo
i Vespri Siciliani, elesse un regime autonomo diretto dal governatore
Anselmo Cannizzaro.
Nel
frattempo furono costruite la chiesa principale "Santa Maria della
Platea" (nel luogo dell'Agorà o piazza) e la vecchia chiesa di S.
Giacomo (oggi scomparsa).
Durante
il periodo feudale il territorio di Gela fu acquistato da Don Carlo
D'Aragona e Grujllas, da cui discesero i duchi di Terranova, tenutari
del secondo posto al Parlamento del Regno e più volte viceré di
Sicilia durante la dominazione spagnola.
Nel 1437 Terranova divenne città baronale. A Don Carlo D'Aragona
successe la figlia Giulia Agliata e dal 1640, per oltre 100 anni, la
città passò in mano ai marchesi Pignatelli.
Nel
1788 gli abitanti di Terranova per liberarsi dal vassallaggio nei
confronti dei duchi di Monteleone pagarono un riscatto presso il reale
Patrimonio, incaricando della questione Don Giuseppe Mallia, barone di
S. Giovanni.
Il
3 marzo 1799 il paese venne funestato da un memorabile fatto di sangue,
conosciuto come "U ribellu". Le dispute tra conservatori e
giacobini culminarono nell'uccisione di cinque rivoluzionari. Non
mancarono episodi esilaranti che videro il notaio D'Anna nascondersi
sotto il baldacchino del Santissimo, accanto al parroco Mallia che,
preoccupato per la tensione tra le due parti, aveva improvvisato,
qualche ora prima, una processione del Corpus Domini.
Nela
seconda metà dell'800 le idee anarchico-socialiste erano diventate
patrimonio comune della povera gente e degli intellettuali della nostra
città. Nel novembre del 1892, anno in cui nasceva il partito
socialista, veniva costituito il "Fascio dei Lavoratori" che
contava, a Terranova, oltre mille affiliati. Primo presidente fu Mario
Aldisio Sammito, un patriota intellettuale che aveva avuto rapporti
epistolari con Garibaldi, Mazzini e altri eroi risorgimentali. Il
Fascio, che rivendicava più giustizia sociale e meno imposizioni
fiscali, venne sciolto due anni dopo dal governo Crispi e i suoi
dirigenti furono imprigionati.
L'abolizione
del feudo, decretata nel 1812, rimase un atto puramente formale. Il
ricco patrimonio del comune di Terranova era ancora nelle mani di poche
famiglie; a nulla valsero le denunce di onesti consiglieri comunali
contro gli illegittimi possessori che, tra l'altro, erano anche
amministratori della città. Le terre demaniali (Farello, Gibilmuto, Zai,
San Leo, Scomunicata e altre contrade) non riuscirono ad essere
reintegrate nel patrimonio comunale, nonostante la sentenza emanata il
27 novembre 1915 dalle Sezioni Unite del Collegio Supremo.
Nel
1927 la città fu autorizzata a chiamarsi con l'antico e glorioso
toponimo greco. Dopo lunghi decenni di decadenza, dovuti alla generale
questione meridionale, alle ultime guerre e alle ricorrenti crisi
agricole, fu scoperto il petrolio nel sottosuolo gelese (1956).
La favorevole posizione geografica, la presenza del greggio, La fame
atavica del luogo, indussero l'ENI e lo Stato alla costruzione di uno
stabilimento petrolchimico, munito di porto-isola, che doveva favorire
l'industrializzazione di Gela e del circondario.
Lo
stabilimento, purtroppo, in assenza di una seria politica di governo si
è rivelato una cattedrale nel deserto, lasciando insoluti i problemi di
sempre e disattendendo le speranze dei gelesi.

Centro
storico
Il
centro storico di Gela, seppur vittima della caotica espansione edilizia
dell'ultimo cinquantennio, è ricco di monumenti e testimonianze
storiche.
In
piazza San Giacomo è esposto il portale con arco ogivale dell'antica
chiesetta di S. Giacomo (XIII secolo). Lungo corso Salvatore Aldisio
prospetta il neoclassico ex Convitto Pignatelli 1878). A sud della
Villa Garibaldi (1878) si trova la Chiesa dei Cappuccini, risalente
al Trecento ma rimodulata e ampliata nel corso del Novecento. Presenta
un prospetto in stile neogotico e, al suo interno, un pregiato
polittico in legno intarsiato.
Attorno
al centro storico federiciano (1233 sopravvivono le vestigia
dell'antico sistema difensivo con tratti di mura, torrioni e
porte incastonati nei prospetti delle moderne abitazioni. In particolare
risultano interessanti: i tratti di mura di via Matteotti con un
torrione del Quattrocento e quattro grandi arcate in pietra, e via Verga
(carcere vecchio) dove le mura si sono conservate nella loro altezza
originaria e senza grosse superfetazioni, in via Istria. Qui è
possibile osservare un bastione trecentesco, in parte crollato negli
anni 40. Sempre in via Istria, vicino alle scale di via Filippo Morello,
è possibile osservare la torre detta ‘dello Sperone', dal nome del
quartiere dove è situata e quattro poderosi contrafforti all'altezza
con la via Miramare, sebbene rovinati dalla presenza di alcuni balconi
in cemento; il tratto di viale Mediterraneo con il bastione di porta
Marina e almeno due torrioni; i ruderi del Castello federiciano o
Palazzo ducale in piazza Calvario e altri tratti di mura in via Porta
Vittoria. Quasi tutte le porte furono distrutte nell'800, tranne Porta
Marina, smantellata negli anni sessanta dalla Sopraintendenza di
Agrigento, in previsione di un futuro rifacimento.
In
piazza Roma è sita la Chiesa del Carmine risalente al Settecento, che
custodisce un crocifisso ligneo quattrocentesco ritenuto
miracoloso dai gelesi.
Sul
corso Vittorio Emanuele, la via più elegante della città, si erge la
Chiesa del Rosario (1796-1838) che esternamente presenta un'alta torre
campanaria con cuspide maiolicata e tre bei portali, mentre l'interno si
presenta in linee tardo-barocche. Nel cuore cittadino, piazza Umberto I,
dove si trova una statua bronzea di Cerere opera dello
scultore Silvestre Cuffaro (1954), spicca con la sua imponente
ed elegante mole la Chiesa Madre (1766-1844), esempio di neoclassico.
Il prospetto è caratterizzato dai due ordini di colonne doriche e
ioniche. Interessanti anche la torre campanaria e la cupola. L'elegante
interno a schema basilicale con croce latina, conserva bei dipinti,
tra cui: quello bizantino che ritrae la patrona Maria SS. dell'Alemanna,
e poi il Transito di Maria e l’Assunzione della Madonna,
opere rispettivamente di Deodato Guinaccia e del Tresca. Elementi degni
di nota sono anche il prezioso altare principale in marmo policromo
misto a vetro e il monumento funerario marmoreo al Mallia, opera di
Filippo Pennino. Sotto la chiesa è stata scoperta la cripta trecentesca
appartenente alla precedente chiesetta di S. Maria de' Platea.
Alle
spalle della chiesa Madre è ubicato l'ex Monastero di clausura
femminile con annessa chiesa di San Benedetto (XV secolo). Il complesso
ha ospitato dal 1910 al 1969 l'Ospedale civile. La chiesa prima di
essere parzialmente distrutta da un incendio conservava una stupenda
cantoria lignea ornata d'oro zecchino e recante l'aquila sveva, stemma
di Gela. Il Monastero è sorto sul sito di un antichissimo palazzo
nobiliare di cui rimane un grande torrione con stemma nobiliare
all'angolo sud-est.
Accanto
al moderno Palazzo di Città (1951), sorto dove un tempo vi
era il convento quattrocentesco dei padri Francescani, c'è la chiesa di San
Francesco d'Assisi (XIII secolo) che vanta nell'interno un
ricchissimo soffitto a cassettoni lignei ornati d'oro zecchino
e dipinti.
Nella piazza
S. Agostino, la più bella della città e un tempo ornata da ben cinque
chiese di epoche diverse, si possono oggi ammirare: la Chiesa e il
Convento di S. Agostino (1439-1783); il Teatro Eschilo (1832);
la chiesa di San Francesco di Paola con l'annesso convento dei
padri Minimi poi divenuto Educatorio, entrambi in stile tardo
barocco. È da notare il fatto che il centro storico gelese è uno dei
pochi ad avere una pianta ortogonale con vie piuttosto rettilinee e
regolari. Un discorso a parte meritano i basolati delle vie del centro,
realizzati dagli scalpellini locali in pietra calcarea bianca ed in
basalto.
Un
tempo le vie principali, come il corso Vittorio Emanuele e la via
Giacomo Navarra-Bresmes, erano lastricati con basoli lavici disposti a
spina di pesce. Oggi questo tipo di basolato si può trovare in via
Marconi, in via Matrice ed in via Rossini. Quest'ultimo basolato era
bruttamente fagocitato da chiazze d'asfalto. Per evitarne il degrado nel
luglio 2014 iniziarono dei lavori di riqualificazione. Mentre per le vie
traverse si utilizzarono basoli calcarei bianchi, disposti secondo
precisi disegni e a seconda della grandezza della via. Infatti, nelle
vie secondarie, troviamo una fila di lastre disposte verticalmente al
centro della carreggiata e altre due ai lati per lo scolo delle acque,
con il resto della carreggiata costituita da basoli disposti
orizzontalmente, tranne in via Pisa, dove vi è un'unica fila centrale
con quattro basoli gli uni accanto agli altri, invece nei vicoli che si
affacciano su queste strade, troviamo i basoli disposti a spina di
pesce, con o senza le file verticali per lo scolo delle acque
reflue.
Un
altro tipo di pavimentazione era costituito da quadrucci calcarei
bianchi, simili ai sampietrini, disposti entro quadrati delimitati da
basoli rettangolari. Questo sistema fu utilizzato per la piazza Sant'
Agostino, e oggi se ne conserva un esempio nel tratto terminale di via
San Nicola, ma in generale si usava per cortili, piazzette ecc.
Infine,
poco distante dal centro, si può visitare un esempio d'arte medioevale:
la chiesetta di San Biagio (1099) con l'annessa ex Commenda
dei Templari, la più antica rimasta in città dopo la distruzione della
vicina chiesetta di S. Ippolito sempre dell'XI secolo. Alle spalle di
San Biagio si trova un'altra piccola chiesa, San Nicola da Tolentino (XIX
secolo), il cui campanile neoclassico è stato smontato alcuni anni
addietro.
Nelle
adiacenze si trova l'ingresso del Cimitero Monumentale nel cui
viale principale si possono ammirare diverse cappelle e mausolei
ottocenteschi e novecenteschi negli stili neoclassico, barocco, gotico e
liberty.
Mura
timoleontee
Le
fortificazioni greche di Caposoprano, scoperte tra il 1948 e 1954,
possono essere considerate uno degli esempi più straordinari e meglio
conservati dell' architettura militare antica. Il muro di cinta si
sviluppa per circa 300 metri marginando l'estremità occidentale della
collina di Gela e racchiudendo la città greca nel periodo compreso tra
il IV e il III sec. a.C. , forse a partire dal momento della sua
ricolonizzazione ad opera di Timoleonte fino al momento della sua
distruzione ad opera del tiranno agrigentino Phintias.
Qualche studioso ha ritenuto di poter datare la costruzione del muro già
alla fine del V sec. a.C. poco prima della presa di Gela da parte dei
Cartaginesi; ad età Timoleontea sarebbe, invece, da attribuire solo la
sopraelevazione in mattoni crudi. Particolare è la tecnica di
costruzione del muro: la parte inferiore, dello spessore di m. 2,80, è
in blocchi di pietra arenaria ed è costituita da una doppia cortina di
conci squadrati concatenati e con riempimento in mattoni crudi, pietrame
e terra; la parte superiore è realizzata in mattoni di argilla cotti al
sole.
La fase
originaria è costituita dal basamento in conci di arenaria, sul quale
si sovrappone uno strato di mattoni crudi che al momento della scoperta
apparivano di colore verdognolo. L'altezza superstite del muro di questa
fase è di metri 2 sul lato meridionale e di metri 3 sul lato
settentrionale. In età agatoclea, a seguito di un rapido insabbiamento,
si costruì una sovrastruttura in mattoni crudi provvista di merlatura
all'esterno e con camminamento di ronda all'interno: i mattoni di questa
seconda fase sono di colore più chiaro.
A questo periodo è da riferire anche un tratto del muro a speroni, che
si sviluppa a Sud e che originariamente doveva giungere fino allo
strapiombo della collina, verso il mare, per impedire l'accesso alla
città da questo lato. Un ulteriore insabbiamento, avvenuto poco prima
della distruzione della città ad opera di Phintias, determinò un
occultamento della struttura e la conseguente aggiunta di altri filari
di mattoni crudi, di dimensioni più piccole e di colore più scuro; di
quest' ultima fase è visibile un tratto sostenuto da moderni pilastrini
di cemento.
Lungo le mura di cinta sono ricavate, a livello di fondazione, le
canalette per lo scolo delle acque mentre nel tratto meridionale si
apre, dietro uno spigolo della cortina, una postierla a falso arco
acuto, che fu occlusa con i mattoni crudi in età agatoclea; quando fu
costruita anche una torretta quadrangolare in prossimità della
postierla suddetta, pur essa in mattoni crudi, della quale resta il
basamento addossato alla cortina. L'estremo tratto occidentale del muro,
che si sviluppa in senso NE-SW e nel quale si apriva in origine, tra il
311 e il 310 a.C., una porta ostruita con materiale lapideo, era difeso
da due torri quadrate in mattoni crudi, che sostituirono strutture
identiche di età più antica, costruite in blocchi calcarei, ma andate
distrutte.
Acropoli

L'Acropoli
di Gela, posta su un colle dalla forma allungata, dominava la fertile
pianura bagnata dal fiume omonimo che veniva utilizzato anche come zona
d'ormeggio e come via di penetrazione verso l'interno per le navi. Nella
parte occidentale della collina sorgeva invece la Necropoli. L'Acropoli,
fino al 405 a.C., ospitò i principali edifici sacri della città dai
quali provengono le decorazioni architettoniche e gli ornamenti in
pietra conservati nel Museo di Gela.
Nel periodo in cui Gela fu governata da Timoleonte, che ricostruì le
mura della città nel 338 a.C. dopo le distruzioni operate dai
Cartiginesi nel 405 a.C., l'Acropoli perdette il suo carattere sacro e
si popolò di abitazioni disposte sui fianchi del colle opportunamente
spianati.
Dalle scoperte archeologiche è scaturito un vero e proprio quartiere
cittadino di quel periodo con case e negozi.
All'interno dell'Acropoli, nel cosiddetto Parco delle Rimembranze, sono
stati ritrovati i resti di un tempio in stile dorico, il più semplice
ordine architettonico greco, caratterizzato da sei colonne sui lati
brevi e undici su quelli lunghi.
Più a ovest, in un luogo già abitato e sede di culto in età pre-greca,
è stato scoperto un bellissimo tempio dorico dedicato a Athena, la dea
greca della scienza.
Bagni
greci
Il
complesso termale venne alla luce nel 1957, in prossimità dell'Ospizio
di mendicità, a sud del moderno Ospedale, nell'area compresa tra via
Palazzi, viale Indipendenza e via Europa e consta di due ambienti: il
primo ambiente, a nord-ovest, all'interno del quale vi sono due gruppi
di vasche collegate ad un condotto di scarico; il secondo
ambiente, invece, comprende un locale di riscaldamento sotterraneo, un
vero e proprio ipocausto. Le due stanze, coperte dal tetto con tegole,
erano separate in origine da un muro in mattoni crudi del quale restano
solo le tracce dell'assise inferiori. Il muro doveva essere intonacato.
Il primo gruppo di vasche era formato in origine da 14 vasche disposte a
ferro di cavallo attorno ad un pavimento di lastre quadrate di
terracotta; restano al momento 12 vasche. Attorno alle vasche del
settore nord correva un muro di pietrame al quale esse si addossavano;
all'esterno, a ovest, un altro muro con andamento trapezoidale costruito
in un secondo momento, forse per ampliare l'ambiente; esso è formato da
pietre. Le vasche del primo gruppo sono del tipo greco a sedile e hanno
inferiormente una cavità emisferica destinata a poggiarvi i piedi o per
essere svuotata agevolmente, visto che non hanno foro di scarico e
dovevano essere vuotate a mano. Le vasche delle file rettilinee sono
costruite con conglomerato (detriti di arenaria e frammenti di
terracotta) e ricoperte da intonaco bianco. Alcune vasche del primo
gruppo, e precisamente quelle del tratto occidentale, sono portatili e
realizzate in terracotta, e, forse, facevano parte del complesso più
antico trasformato, così come anche il pavimento. Il secondo gruppo è
costituito da 22 vasche disposte a cerchio attorno ad un'area
pavimentata in conglomerato. Tutte le 22 vasche sono mutile della metà
posteriore, forse perché il complesso non era stato portato a termine.
Il secondo ambiente ad est è costituito da un impianto di riscaldamento
con cameretta e due corridoi sotterranei, nei quali avveniva la
combustione. L'ambiente superiore, il cui pavimento era sorretto dalle
pareti dei corridoi sotterranei, doveva servire per vere e proprie
saune. L'impianto termale di Gela, che è l'unico complesso del genere
in Sicilia, trova confronti con quelli greci di Delfi, di Olimpia, di
Colofone, di Gortys, pur essi databili al IV-III sec. a.C.; la datazione
è confermata dal ritrovamento di unguentari, di oscilla, di anfore di
tipo italico e punico, presenti negli ambienti suddetti, nonché dalle
monete di età timoleontea recuperate sul pavimento.
L’impianto fu distrutto da un incendio intorno al 282 a.C.
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