Castelluccio
Su una
collina di gesso, dove il Gela sbocca nella piana dopo le gole del
Disueri, si erge maestoso il Castelluccio a guardia della costa e a
difesa del percorso verso l'interno lungo la valle del fiume.
La menzione più antica del Castelluccio ci è pervenuta in un atto di
donazione del 1143 con il quale Simone, conte di Butera e membro della
famiglia Aleramica, dona all'abate di S. Nicolò l'Arena di Catania,
alcune terre site nell'area meridionale della contea perchè le faccia
mettere a coltura: il Castelluccio viene citato come termine di confine
all'estremità orientale dei beni assegnati al monastero. Lo stesso
termine, ora in latino Castellucium, e con riferimento allo stesso sito,
compare ancora in un documento del 1334 col quale la regina Eleonora
conferma allo stesso monastero gli stessi beni.
Un altro
documento, ricordato da autori del XVII e del XVIII secolo, conferma la
donazione del Castelluccio da parte di Federico d'Aragona a Perollo di
Moach milite caltagironese: i beni ubicati nel territorio di Eraclea
comprendenti il Castelluccio ed i territori circostanti sarebbero stati
assegnati in precedenza ad Anselmo di Moach ed in seguito confermati al
pronipote Perollo. Da questo documento emergono due elementi
interessanti: in primo luogo che l'edificio attuale (o un edificio
comunque fortificato definito Castelluccio) esisteva nella pianura
gelese, ed in secondo luogo che tale edificio, di proprietà del demanio
regio, era stato concesso in feudo già nel corso del XIII sec.
Ben poco si conosce delle vicende successive: l'edificio sarebbe stato
assegnato da re Martino al nobile Ruggero Impanella alla fine del XIV
sec., ma essendosi il nobile allontanato senza autorizzazione regia,
verso la metà del XV sec., re Alfonso gli avrebbe revocato il possesso
della rocca che avrebbe assegnato, con i terreni circostanti, a Ximene
de Corella coppiere regio. Quindi attraverso gli eredi, il Castelluccio
sarebbe passato al patrimonio degli Aragona di Terranova e quindi dei
Pignatelli.
Costruito in parte riutilizzando i blocchi di calcare bianco e
calcarenite gialla del muro greco di Caposoprano ed in parte a filari
regolari di pietra sgrossata, esso presenta un raro rigore formale nella
definizione generale e nei particolari architettonici, tutti tesi alla
concreta funzionalità, spogliata di ogni indulgenza decorativa.
Il cantiere di restauro, impiantato nel 1988, e lo scavo archeologico
dell'interno, ci restituiscono un Castelluccio rigorosamente simmetrico
che chiude con una fine violenta la prima fase di vita.
Una seconda fase vede la profonda trasformazione della parte orientale
con l'inserimento del camino con fasci di colonnine trecentesche alla
base l'apertura di una monofora sul prospetto settentrionale e la
costruzione della torre est.
Dopo un
altro incendio che chiude questa fase sarebbe seguito un abbandono
temporaneo dell'edificio, col crollo dello spigolo settentrionale della
torre est e quindi nel XV sec. (probabilmente in concomitanza con
analoghi lavori nel Castello di Mazzarino), un tentativo di
trasformazione del castello in Palazzo; furono sopraelevati i muri
meridionale e settentrionale (impostati sopra la merlatura originale),
restaurato lo spigolo crollato della torre est e la vecchia struttura
subì una serie di adattamenti.
Nel corso dei lavori il castello si lesionò profondamente. Il cantiere
fu interrotto e l'edificio abbandonato. Bombardato dagli incrociatori
alleati l'11 luglio del 1943, subì il crollo di parte della torre est e
dell'estremità orientale del prospetto sud.
Torre
di Manfria
Nel XVI
secolo i paesi costieri della Sicilia erano soggetti a frequenti
incursioni non solo di nemici, ma anche di corsari africani. Il governo
spagnolo pensò prudentemente di proteggere le coste con la costruzione
di torri, disposte sul litorale in modo che dall' una si vedesse
l'altra. Gli uomini destinati alla loro custodia avevano il compito di
avvertire durante la notte la città più vicina accendendo tanti fuochi
quante fossero le navi nemiche, o corsare, viste durante il giorno. Le
varie torri comunicavano tutte tra loro, cosicché in meno di un'ora
l'avviso di un pericolo incombente faceva il giro dell'isola.
Queste torri, tra cui quella di Manfria, nel territorio di Terranova,
furono costruite a partire dal 1554, ad opera del viceré Giovanni Vega,
ed erano alla dipendenza della Deputazione del regno. Il Parlamento
Siciliano, nella seduta tenuta a Palermo il 9 aprile 1579, deliberò il
finanziamento delle spese di manutenzione delle torri, nonché del
salario dei torrieri, della fornitura delle armi necessarie e del
relativo munizionamento. In quell'occasione venne stabilita la
concessione di un donativo di diecimila scudi annui per questa
importante necessità e tutela di tutto il regno.
Oltre a queste torri (in tutto trentasette, dipendenti dalla Deputazione
del regno), ne furono costruite delle altre a cura dei Senati della
varie città. Sul litorale di Terranova, la torre di Manfria fu eretta
nelle vicinanze del Piano della fiera, ove nei secoli passati c'era una
famosa città, chiamata dagli storici Ancira, antichissima colonia di
Eraclea Meridionale (Gela). Essa si presenta con un'architettura
essenziale e volumetricamente regolare e spicca da una pianta quadrata,
su un basamento parallelepipedo che serve da innesto ad un tratto a
tronco di piramide, sovrastato da un volume chiuso con tetto a due
falde. Due affacci diagonali a mensola permettevano ai torrieri di
sporgersi oltre le pareti dell'edificio per meglio perlustrare il mare
ed effettuare segnalazioni.
La torre di Manfria, detta pure di Ossuna, dal nome del vicerè Pietro
Giron, duca di Ossuna, sorge su un poggio, sulla costa alta, a poca
distanza dal mare.

Lago
Biviere
Il
Biviere di Gela è un lago costiero incassato tra le dune del
golfo, ad appena un chilometro e mezzo dal mare, dal quale, in passato,
era in gran parte alimentato. Compreso tra Gela (da cui dista otto
chilometri) e il fiume Dirillo, si allunga parallelamente alla linea di
costa per circa due chilometri in direzione nord-ovest sud-est,
occupando un'area di 120 ettari. Largo da 150 a 600 metri ha un
perimetro di circa sei chilometri, una profondità massima di sei metri
ed una capacità di oltre cinque milioni di metri cubi.
Tali dati, tuttavia, sono alquanto indicativi, vista la forte escursione
volumetrica alla quale è soggetto a causa del suo utilizzo a fini
irrigui. In tal senso, infatti, il Biviere ha subito nel tempo imponenti
interventi tendenti alla sua trasformazione in bacino artificiale
tramite costruzione di argini e canali che vi hanno convogliato le acque
dei torrenti Monacella e Ficuzza e di parte del fiume Dirillo. Le
variazioni in volume si traducono in vistose modificazioni in estensione
e perimetro dello specchio d'acqua provocando altresì sbalzi di salinità
dell'ordine di 1-2 grammi per litro. Tutto ciò influisce sulle comunità
vegetali e animali sottoponendole a repentine mutazioni ambientali che
precludono un qualsiasi tipo di adattamento.
Oltre all'alterazione dei fattori fisici e chimici, si è avuta una
variazione della stessa fisionomia paesaggistica del lago ad opera delle
bonifiche che ne hanno decurtato alquanto la superficie, e delle colture
sviluppatesi fin a ridosso delle sponde. Anche la vegetazione è
cambiata per l'inserimento di nuove specie usate come frangivento che
hanno finito per imporsi su quelle originarie. L'azione antropica ha
prodotto effetti anche sulla fauna.
Oggi, visitandolo, è facile vedere la garzetta, l'airone, il cavaliere
d'Italia, il cormorano, l'avocetta e molte altre specie del vastissimo
patrimonio ornitico stanziale e migratorio di quest'area umida. Sul
piano ecologico va distinta una vegetazione lacustre, legata
all'ambiente acquatico, ed una litorale più esterna. La prima annovera
idrofite tutte o in parte sommerse come i potamogeti e il ceratofillo,
tipiche di acque calme e calde. Sulle rive, sempre strettamente in
rapporto con l'acqua si riscontrano elementi dello Scirpeto-Fragmiteto
con tife e scirpi all'interno e cannucce di palude più arretrate in
quanto meglio tolleranti gli abbassamenti di livello. Addossata alla
suddetta associazione sta la canna comune che forma una cintura
discontinua da tempo preposta dagli agricoltori come frangivento;
sporadicamente si riscontra la rara canna egiziana, di sicura
introduzione, facilmente riconoscibile per i culmi pieni.
La vegetazione litorale è in gran parte costituita dal tamariceto con
due specie di tamerici che nella cosiddetta "zona degli
acquitrini", forma una intricata boscaglia periodicamente allagata,
habitat ideale per la nidificazione di molti uccelli. Tra la componente
erbacea merita menzione il giunco pungente che forma densi cespugli, e
il panico strisciante, una graminacea tipicamente igrofila presente al
Biviere in modo consistente.
Chiesa
Madre
La chiesa
madre di Gela o chiesa
di Santa Maria Assunta, derivata dalla primitiva chiesa di Santa
Maria de' Platea, è un esempio di neoclassico che
primeggia nel centro storico della cittadina del golfo. Interessante
appare il prospetto esterno alla pari dell'interno ricco d'opere d'arte.
La chiesa
madre sorse nel 1760,
dinnanzi la principale piazza cittadina (piazza Umberto I, già del
Duomo), in sostituzione della trecentesca chiesa di Santa Maria de'
Platea, e fu completata con la realizzazione nel 1844 della
facciata neoclassica in pietra arenaria e
con l'innalzamento della torre
campanaria nel 1837 su
progetto di Emanuele
Di Bartolo. Per la sua costruzione probabilmente vennero
sfruttati i massi della vecchia chiesetta provenienti a loro volta dai
templi e monumenti dell'antica città greca.
La
facciata presenta due ordini di colonne doriche e ioniche e
due gruppi di statue. Vi si aprono l'ingresso principale e due ingressi
secondari laterali, con sopra delle lapidi iscritte. Nella parte
superiore della facciata è una grande finestra. L'imponente facciata è
preceduta da una scalea sulla piazza.
Il
fianco meridionale presenta un ingresso e diversi finestroni a forma di
semicirconferenze; sul fianco settentrionale si trovano un ingresso
laterale, l'orticello parrocchiale, il campanile e la vecchia casa
parrocchiale. Un tempo su largo Matrice (sud) si trovava un piccolo
cimitero parrocchiale.
L'interno,
ampio e luminoso, presenta: pianta a croce latina con schema basilicale
e cupola ed
è suddiviso in tre navate da
pilastri e arcate neoclassiche, decorate in oro zecchino; diversi
affreschi con iscrizioni latine sono presenti sulla volta della navata
centrale. Le navate laterali presentano volte a vela.
Nella
Madrice si trovano diverse pale dipinte del Settecento e dell'Ottocento
(Tresca e Vaccaro sono alcuni degli autori), un notevole dipinto su
tavola del 1563 che raffigura il Transito di Maria attribuito a Deodato
Guinaccia, alcuni affreschi, tre monumenti e un grande organo del 1939
con 31 canne di facciata, disposte a cuspide; nella canonica,
interamente ricostruita nel 1988, sono conservate diverse tele
raffiguranti i parroci della chiesa e il Cardinale Panebianco, nonché
due pregiate icone, dipinte su tavola con fondo in oro raffiguranti
Maria SS. d'Alemanna (o della Manna) con Bambino, patrona di Gela la cui
festa ricorre l'8 di settembre, e la Madonna col Bambino attaccato al
seno materno.
Infine, nell'archivio sono conservati antichi
documenti cartacei, nonché i registri di morte, battesimo e matrimonio
a partire dal 1500.

Durante
gli ultimi lavori di rifacimento della pavimentazione sono venute alla
luce diverse cripte, probabilmente settecentesche e ancora con diversi
cadaveri, che in un prossimo futuro saranno visitabili; oltre a numerosi
resti di scheletri e a centinaia di cocci, sono venuti alla luce anche
reperti di epoca greca come ad esempio una grossa pietra squadrata
definita dagli archeologi come una componente della base di un tempio.
Pare
che durante il XVIII secolo la Chiesa Madre di Terranova, oggi Gela, fu
per qualche tempo Cattedrale in quanto il vescovo di Siracusa (alla
cui diocesi apparteneva la città) in fuga da Siracusa si stabilì
proprio in questa chiesa che aveva sede nella località prossima al
confine diocesano.
All'interno
si trova l'antico quadro medievale della Patrona Maria Ss.
dell'Alemanna. Si dice che, dove sorge oggi il santuario, un contadino
arava la terra e ad un punto della terra non si poteva continuare, così
si fermò e iniziò a scavare sperando di trovare un tesoro, ma appena
finì di scavare trovo la Sacra Icona,oggi conservata nella Chiesa Madre
di Gela, e girandosi si accorse che i suoi buoi si inginocchiano davanti
alla Santa Madre con in braccio il Bambin Gesù.
Dopo
tanti anni avvenne in quasi tutta la Sicilia un terremoto che colpì
anche Gela, e proprio qui furono portati in processione le sacre
immagini della Madonna dell'Alemanna e del SS. Crocifisso e la città si
trovò salvata. Un altro grande miracolo fu quello dell'8 settembre
2017, giorno della festa. In quel giorno cadde tanta acqua (temporale) e
fu un bene per i contadini perché quell'anno c'era molta siccità ma
all'improvviso,poco prima della processione, il cielo si rassenerò e
tornò a splendere il sole sulla città grazie alla Madre di Dio.
Chiesa
di San Biagio

All'interno
del recinto del cimitero monumentale di Gela, nelle immediate vicinanze
della Biblioteca Comunale e contigua alla chiesetta di S. Nicola da
Tolentino, esiste la chiesuola rurale di S. Biagio, da tempo
sconsacrata, databile forse ad epoca bizantina; particolarmente
interessanti risultano il basso abside, la facciata principale con
l'ingresso e il rosone e, all'interno, l'arco trionfale a sesto acuto.
La chiesa di S. Biagio fino al 1873 faceva parte dei beni della Commenda
del Principe di Capua; il 3 luglio dello stesso anno fu incamerata dal
Demanio dello Stato e successivamente nel 1899 acquistata dal Comune di
Gela con la somma di ottocentolire. Aperta al culto fino al 1910, dopo
la relativa sconsacrazione, fu adibita a lavatoio per il contiguo
ospizio di anziani e poi a camera mortuaria prima di essere
completamente abbandonata.
La chiesuola, ridottasi per la vetustà alle sole mura perimetrali, dal
1981 al 1985 ha subito diversi interventi di consolidamento e
sistemazione con finanziamenti della Soprintendenza Regionale ai Beni
Ambientali e Architettonici e del Comune di Gela. Durante la prima
ristrutturazione andò perduta una caratteristica mattonella rossa,
posta sopra l'ingresso Sud, con impresso l'anno 1099.
Oggi la chiesetta di S. Biagio è adibita a sala per mostre e
conferenze.
Chiesa
dei Cappuccini
La chiesa
dei Cappuccini è una chiesa consacrata
alla Madonna
delle Grazie (la cui festa si celebra il 2 luglio).
Essa
sorge sull'antico cenobio dei padri conventuali che vi si trasferirono
nel 1481,
e che quando cadde in rovina venne ceduto ai padri
cappuccini nel 1572.
Tra il 1935 e
il 1962 vennero
costruite le due navate laterali,
oltre a quella centrale preesistente.
Nel 1944 venne
rifatta la facciata della
chiesa, secondo il progetto dell'architetto A. Borra. Il progetto
prevedeva due guglie, un rosone e
tre portali.
Nel 1960 venne
abbattuto l'ex convento e ne venne costruito un altro, che dal 1995 ospita
la scuola di teologia.
Ai lati
delle navate si trovano 7 finestre per ogni lato, in cui nei vetri sono
istoriate le 14 tappe della via
crucis.
Nella
navata centrale si trovano il coro,
il tetto di legno a capriate e
4 finestre rappresentanti san
Corrado, san
Lorenzo, san
Francesco e san
Giuseppe; dal lato opposto si possono osservare san
Antonio, san
Bonaventura, Madonna
delle Grazie e Gesù.
Sull'altare
maggiore vi è il tabernacolo intagliato
nel 1601 dai
frati Girolamo e Innocenzo da Malta e
un polittico con
al centro una pala raffigurante santa
Maria, con san
Francesco e sant'Antonio.
Ai lati ci sono i santi Apollonia, Cecilia e Venanzio.
In
vicinanza dell'altare si trova una lapide che
afferma la pestilenza avvenuta
nel 1816 a Terranova
di Sicilia.
Nel transetto sinistro
sono raffigurati san
Giovanni Battista che battezza Gesù e
un quadro della Madonna
delle Grazie (del XVII
secolo circa), mentre in quello destro vicino all'altare vi
è un crocifisso di legno del XVII
secolo.
Al
centro del transetto vi è una coppia di pale che costituivano l'antica
entrata della sacrestia della
chiesa.
Chiesa
del Carmine
La Chiesa
del Carmine, che si affaccia sull’antistante piazza Roma,
è dedicata alla Madonna del Monte Carmelo e risale probabilmente
al 500′. Fu edificata assieme all’attiguo convento, dai PP.
Carmelitani.
Essa
presenta un’unica navata con campanile postero-laterale, dieci
finestre laterali, sui cui vetri si trova istoriata una croce e otto
cappelle con altari.
La
torre campanaria ha una cuspide rivestita da mattonelle di maiolica. In
origine c’era il vecchio campanile a cupoletta danneggiato
dall’ultima guerra.
L’architettura
ella chiesa è semplice nello stile, con capitelli in stucco. Sul
pavimento della chiesa, dopo l’ingresso, vi è un riquadro con su
scritto "CAN.ROSARIO DAMAGGIO FECE NEL 1938".
Sul
soffitto della navata si osservano due riquadri con decorazioni in
stucco e una tela dove è raffigurata la scena della "Tempesta
sedata".
Sul
lato destro troviamo un’acquasantiera di marmo del 1571, con
vasca sul cui bordo vi è raffigurato lo stemma dei carmelitani.
Negli
interni dell’edificio religioso esistono diverse pale dipinte del
1700.
Sul
lato destro: i dipinti "i Santi Carmelitani" e "San
Giuseppe" e le statue di San Rocco e della Madonna del Carmine.
Tra
la terza e la quarta cappella, un pulpito in legno realizzato da
Baldassare Accomando, artista locale.
Sul
lato sinistro: i dipinti "Martirio di San Lorenzo" e
"L’Annunziata" e poi la statua cuore di Gesù.
E’
particolare un dipinto su tavola, su fondo oro, della Crocifissione (forse
l’opera d’arte più pregiata della chiesa), raffigurante Cristo in
croce, la Madonna e San Giovanni. Questa tavola veniva usata per
chiudere la custodia del Crocifisso di carta pesta.
Vi è
poi un organo del 1917 con 9 registri e infine una statua
del XV secolo in cartapesta del Crocifisso, nella cappella
centrale.
Il
Crocifisso è in stile bizantino, dipinto in nero ebano, adagiato
su uno strato di bambagia, in un tabernacolo di legno con cornice
dorata.
Nel
1602 si dice, cominciò a trasudare sangue e acqua per cinque
giorni. L’evento stupì tutti ed ebbe talmente tanto clamore che
richiamò i religiosi e laici di tutta la Sicilia. Per accertarsi che
l’evento accaduto fosse reale, si decise di appoggiare la statua su di
un letto di cotone e chiuderlo in una stanza. Dopo qualche giorno si
vide che il cotone era inzuppato di sangue. E’ per questo motivo che
è tuttora ritenuto dalla popolazione gelese, un simulacro miracoloso e
venne allora eletto patrono della città. Oggi continua ad essere
oggetto di venerazione ed è celebrato l’11 gennaio.
Sotto
tale statua vi è un dipinto con cornice a raggiera che raffigura
L’Addolorata, mentre ai lati si notano due angioletti in legno dorato.
Sulla volta della cappella vi sono affreschi che raffigurano lo Spirito
Santo, angeli, l’apparizione della Madonna del Carmine al papa Onorio
III, e infine l’apparizione della Madonna a San Simone Stock. Sul
pavimento vi è un riquadro raffigurante lo stemma dei carmelitani, un
monte con la croce e tre stelle.
Chiesa
del Rosario
La
chiesa del SS. Salvatore e Rosario, ad unica navata e con campanile in
posizione postero-laterale, si erge in direzione sud-nord su una
superficie rettangolare delimitata da quattro vie: il Corso Vittorio
Emanuele a sud, la via Navarra a nord, la via S. Damaggio Fischietti a
est e la via Picceri a ovest.
Esternamente
essa ha un aspetto rustico, per l'estrema semplicità della forma
architettonica con cui è stata costruita e per l'assenza di una
qualsiasi intonacatura; simile definizione non si può certo dare al suo
interno il quale possiede pienamente le ricchezze di stile e di forme
architettoniche in uso ai primi del 1800 negli uffici di culto.
Nella
cella campanaria del campanile si trovano cinque campane di diverse
dimensioni che, oltre a varie decorazioni sulla loro superficie,
presentano anche delle scritte in rilievo che qui di seguito, per ognuna
di esse, riportiamo.
L'interno
della chiesa presenta una buona illuminazione diurna grazie alla
presenza di nove ampie finestre.
Attualmente
l'accesso all'edificio avviene mediante due ingressi: uno, il
principale, dal Corso Vittorio Emanuele, l'altro dalla via Picceri.
Anche sulla via S. Damaggio Fischietti vi sono ancora due ingressi, di
cui uno, quello più a sud, non è utilizzabile perché rialzato di
qualche metro rispetto al piano della stessa via e l'altro, più a nord,
dal quale si accede alla sacrestia. Degli ingressi citati solo quello
principale è sprovvisto di portale.
Le
pareti e il soffitto della navata sono ornate da pregiate decorazioni, e
sempre nelle stesse pareti esistono a intervalli regolari dei pilastri
appena emergenti con capitelli corinzi. La bellezza architettonica della
chiesa raggiunge il suo massimo splendore nell'abside dove in
particolare, dietro l'altare maggiore, con un bassorilievo in gesso
raffigurante l'Agnello divino tra trofei di Angeli) vi sono due colonne,
emergenti per tre quarti, con capitelli in stile corinzio e le basi a
forma di plinto, che sorreggono il cornicione semicircolare (dello
stesso abside) su cui poggiano sei grossi vasi; al di sopra di questi
ultimi vi è infine un catino, al centro, predomina una raggiera con
angioletti.
In
prossimità della bussola dell'ingresso principale, nella parte destra,
si scorge un'acquasantiera in marmo finemente scolpito, mentre in quella
sinistra si trova un pulpito in legno intarsiato.
Subito
dietro l'altare maggiore vi è l'ingresso che porta alla sacrestia; qui
secondo il racconto del sacrestano, fino a qualche decennio fa, si
trovavano tra l'altro due dipinti, uno raffigurante il Crocifisso e
l'altro di San Giovanni Battista, un antico lavabo, al centro del quale,
superiormente, predominavano delle statue in marmo della Madonna del
Rosario, Di Santa Caterina e di S. Domenico.
Verso
la fine del mese di agosto del 1987, durante i lavori di rifacimento del
pavimento della chiesa, sono venute alla luce diverse sepolture
gentilizie, costituite da loculi e cripte intercomunicanti; all'interno
di una di esse sono state trovate alcune casse mortuarie con degli
scheletri.
Le
sepolture presenti nella chiesa del Rosario, utilizzate fino al 1840,
erano quelle di: D. Girolamo Navarra ed eredi, Giuseppe di Fede, Rosaria
Cannizzo e Giudice ed eredi, M.o Rosario Catalano ed eredi e Confrati
laici defunti. La chiesa del SS. Salvatore e Rosario fino al mese di
agosto del 1987 era accudita dal Sac. Giovanni Fasulo.
Chiesa
San Francesco d'Assisi
Vicino
al palazzo municipale si erge la Chiesa San Francesco d’Assisi.
Edificata nel 1499 dai resti di una vecchia chiesa, a causa della sua
vetustà, nel 1615 fu in parte diroccata e ricostruita intorno al 1659,
da un gruppo di artigiani locali e all’interno decorata da artisti che
all’epoca erano molto rinomati in Sicilia.
La
Chiesa ha due ingressi: uno con scalinata ad ovest che dà sulla
piazzetta del municipio, con portale in elegante stile settecentesco.
L’ingresso laterale è invece, in via Donizetti.
Priva
di una torre campanaria, dispone di quattro campane suonate con sistema
elettronico automatico.
E’
ad unica navata e al suo interno, in stile tardo barocco, conserva
statue lignee del 1700 (S. Michele Arcangelo, un Crocifisso, il Sacro
cuore di Gesù, Sant’Antonio da Padova, San Francesco d’Assisi) e
diversi antichi dipinti del 1600 e 1700 di famosi pittori.
La
tela “Il Martirio di Sant’Orsola” è del Paladino, il
dipinto “La vita di San Francesco” è dello Zoppo di Gangi e
la “Deposizione del 1768” appartiene a Vito d’Anna.
Un’altra
importante opera è l’acquasantiera di marmo attribuita a uno dei
Gagini è del XVI secolo.
Ma
ciò che più affascina di questa struttura è sicuramente il
caratteristico soffitto a cassettoni in legno, celeste e con borchie
dorate, risalente al 1500.
La
Chiesa è dedicata al culto della Immacolata Concezione, festa che viene
celebrata l’8 dicembre e che richiama molti devoti.
Recentemente
sono venuti alla luce diversi antichi affreschi e sono stati rimesse in
luce le antiche dorature degli altari. La chiesa è dedicata al culto
dell'Immacolata Concezione, la cui festa ricorre l'8 di dicembre.
Chiesa
di San Francesco da Paola
La
chiesa di San Francesco di Paola (denominata do’ Santu Patri) e
l’attiguo convento furono edificati nel 1738 dall’Ordine dei Padri
Minimi di San Francesco di Paola. I Padri Minimi lasciarono
definitivamente la chiesa e l’annesso convento nel 1809. Dello stile
originario del tardo barocco siciliano della chiesa rimane solamente la
facciata con l’ingresso, mentre l’interno ha tutte le
caratteristiche dello stile ottocentesco.
La
torre campanaria, edificata posteriormente alla facciata, possiede una
cella campanaria con due campane di diverse dimensioni sulla cui
superficie si trovano in rilievo delle decorazioni e delle scritte. La
cantoria, accessibile solo dal primo piano dell’attiguo ex convento,
possiede una grata lignea sulla balconata e un tondo sulla parete
corrispondente al rosone della facciata; essa era fruibile per le
funzioni religiose dai Padri Minimi e poi dalle Figlie di Sant’Anna,
queste ultime presenti nel convento fino agli anni Sessanta. Il convento
di epoca settecentesca, denominato un tempo anche Badiella nel corso
della sua storia, oltre ai P. Minimi e all’orfanotrofio femminile
“Regina Margherita”, ha ospitato un asilo infantile, diverse scuole
pubbliche e, attualmente, è sede della Piccola Casa della Misericordia
che si occupa dei poveri del territorio attraverso vari servizi di
volontariato quali centro d’ascolto, mensa, poliambulatorio e
dormitorio.
La
festa di S. Francesco di Paola, fino agli anni ‘60, si celebrava ogni
terza domenica di maggio (poiché la memoria liturgica del 2 aprile cade
solitamente nel tempo quaresimale): la statua del Santo era portata in
processione a spalla per le vie della città fino al pontile sbarcatoio,
dove si procedeva alla cosiddetta Varchiata, un breve giro nel Golfo di
Gela per la benedizione del mare. La devozione a S. Francesco di Paola
era molto forte ed attestata dal Tonson d’Oro (ancora conservato),
collare della massima onorificenza che la famiglia borbonica concedeva
alle statue ritenute miracolose.
Era
molto sentita anche la devozione a San Nicola da Mira o Bari, a cui i
bambini gelesi portavano i loro denti da latte, gettandoli nel barile
posto ai piedi della statua, dicendo: “San Nicola vola vola vola, iu
ti dugnu u vecchiu e tu mi duni u novu”. All’inizio del secolo
scorso si è sviluppata la devozione a Sant’Anna a cui le partorienti
si affidavano portando “l’anello di Sant’Anna”, una particolare
fede che le donne gelesi portavano nei mesi di gestazione e poi
riportavano insieme ai neonati.
La
chiesa di San Francesco di Paola, interessata già dal 1979 da diversi
restauri, nel maggio del 1987 fu chiusa a causa del cedimento di parte
del pavimento. La chiesa è stata riaperta al culto l’8 dicembre del
2016 in occasione del VII centenario della morte del Santo paolano, ed
oggi è sede del Centro Nazionale di Spiritualità della Misericordia.
Dal
23 aprile 2017 la chiesa è sede dell’Adorazione Eucaristica perpetua
cittadina. La chiesa e l’altare sono stati dedicati il 22 ottobre 2017
da S. E. Mons. Rosario Gisana; in quell’occasione sono state inserite
nell’altare le reliquie di San Giovanni Paolo II, di San Francesco di
Paola, di Santa Faustina Kowalska e del Beato Giuseppe Puglisi. Dal 8
aprile 2018 la chiesa ha assunto la nuova denominazione in “Chiesa
della Divina Misericordia in San Francesco di Paola”.
Chiesa
di Sant'Agostino
Edificata
ad unica navata a Gela nel 1439 assieme all'attiguo convento e con la
facciata in stile neo-classico realizzata nel 1783, la chiesa conserva
diversi dipinti e statue del XVII secolo ed una splendida acquasantiera
in marmo del 1541 attribuita ad Antonio Gagini; notevole è anche la
Cappella dei Mugnos, antica e nobile famiglia terranovese, del 1613
tutta in intaglio di travertino con colonne tortili e frontone spezzato. La
chiesa di Sant'Agostino è dedicata al culto di San Giuseppe la cui
festa ricorre il 19 di marzo.
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