Catania

 

Monastero di San Nicolò l'Arena

Il monastero di San Nicolò "la Rena" è un complesso ecclesiastico del centro storico, costituito da un importante edificio monastico benedettino e da una monumentale chiesa settecentesca.

Intorno alla seconda metà del XII secolo, sulle pendici dell'Etna, venne eretta una cappella e un ricovero per i monaci infermi dei vicini monasteri di Santa Maria di Licodia e San Leone del colle Pannacchio, nei pressi di Paternò. In seguito per volere di Federico III di Sicilia, vi si costruì il monastero, che venne costituito sede principale dei cenobi, prendendo la denominazione di "San Nicolò la Rena" per la devozione dei monaci a San Nicola di Bari e per la caratteristica terra sabbiosa - la rena rossa, da rena o arena che in latino indica "sabbia" - che ricopriva la zona. Attorno al monastero prese ben presto forma il paese di Nicolosi.

Il cenobio negli anni si espanse superando in importanza quello di Licodia (a testimonianza di ciò basti ricordare le numerose visite delle regine Eleonora d'Angiò e Bianca di Navarra e il favore sempre avuto dai regnanti a partire da Federico III) e accumulò notevoli ricchezze.

Nel 1483, i monasteri benedettini di San Placido CaloneròSan Nicolò l'ArenaSanta Maria NuovaSanta Maria di Licodia si costituirono in congregazione, la quale fu chiamata «Congregazione dei Monaci di San Benedetto in Sicilia». Essa fu approvata da Papa Sisto IV e furono concessi privilegi simili a quelli goduti dalla «Congregazione di Santa Giustina».

Nel 1504, con l'annessione dell'abbazia di Montecassino, la Congregazione benedettina di Santa Giustina mutò nome, chiamandosi appunto, Congregazione cassinese. Nel 1506 all'interno di quest'ultima confluì la Congregazione sicula.

Ma le scorribande di briganti che imperversavano nella zona (i cosiddetti bravi), favorite dal relativo isolamento di questo come del cenobio di San Leone, unite al clima rigido dell'Etna, spinsero i monaci a richiedere insistentemente il trasferimento a Catania, città munita e dunque più sicura e in più molto ben disposta ad accogliere una congregazione così ricca e importante, detentrice della reliquia del Santo Chiodo, molto venerata dai catanesi, che avrebbe aumentato notevolmente la ricchezza e il prestigio della città. L'eruzione del 1536-1537, che distrusse il monastero di San Leone, accelerò i tempi: i due cenobi superstiti, quello di Nicolosi e quello di Santa Maria di Licodia, con i monaci di San Leone che vi si erano rifugiati, ottennero il permesso di trasferirsi dentro le mura della vicina città demaniale.

I monaci Benedettini, trasferiti nel XVI secolo a Catania, ottennero il permesso di costruire la nuova sede del monastero entro le mura della città, nei luoghi attuali, allora detti "della Cipriana" e "del Parco". Iniziata la costruzione nel 1558 alla presenza del viceré di Sicilia Juan de la Cerda, duca di Medinaceli, nel 1578 ancora incompleto fu occupato dai monaci, e, poco dopo, venne iniziata anche la costruzione della chiesa. Nel corso del XVII secolo, con l'aumentare delle ricchezze a disposizione del cenobio, chiesa e monastero furono dotati di apparati sempre più fastosi, come nel grande chiostro sistemato nel 1608 con colonne di marmo bianco e ricchi ornamenti. Nel 1669, a seguito della devastante eruzione dell'Etna, la colata raggiunse e accerchiò Catania lambendo le mura del cenobio e lesionandolo, mentre una lingua di lava, staccandosi dalla principale, distrusse la chiesa di San Nicolò. Per ricostruirla dovettero passare moltissimi anni data la vastità del monastero.

Fu allora che i benedettini diedero vita ad un'imponente opera di ristrutturazione e completamento (con l'aggiunta fra l'altro della monumentale fontana marmorea nel chiostro) e contemporaneamente avviata la ricostruzione della chiesa di San Nicolò, iniziata nel 1687 su progetto dell'architetto romano Giovan Battista Contini.  

L'11 gennaio 1693, il terremoto che colpì la città provocò anche il crollo del monastero benedettino e la morte della maggior parte dei monaci lasciandone appena tre in vita. Le strutture della chiesa, ancora in corso di costruzione, furono risparmiate, ma i lavori furono interrotti per circa vent'anni.  

Inizialmente i monaci superstiti cercarono di trasferire il cenobio nella vicina località di Monte Vergine e lì cominciarono persino a costruire il nuovo monastero, ma costretti dal senato cittadino ritornarono a La Cipriana nel 1702 e cominciarono la ricostruzione sulle strutture superstiti. Il progetto fu affidato al messinese Antonino Amato, che ideò un impianto ancor più monumentale del precedente, certo in sintonia con le idee di ricchezza e grandiosità dei monaci stessi. L'impianto cinquecentesco originale fu ampliato ad oriente con la costruzione di un secondo chiostro accanto al più antico, mentre altri due chiostri avrebbero dovuto chiudere simmetricamente il complesso a nord sull'altro fianco della chiesa.

Nei successivi venti anni furono completati gli intagli in pietra dei prospetti principali ma i lavori di costruzione, ampliamento e decorazione continuarono per tutto il XVIII secolo, prima con il chiostro dei marmi, o "di ponente", - dove furono rimesse in opera le colonne seicentesche e la fontana - poi con l'ampliamento a nord ad opera degli architetti Francesco Battaglia e Giovanni Battista Vaccarini. Se al primo si deve l'avvio del prolungamento settentrionale verso l'alto banco lavico dell'eruzione del 1669, al secondo spetta la rottura della originaria simmetria progettuale: le sale comuni e di rappresentanza del monastero occuparono infatti l'area del terzo chiostro, preludio al definitivo abbandono del grandioso progetto originale.

L'opera del Vaccarini fu completata dopo il 1747 dal Battaglia, che si occupò anche di altre opere all'interno del complesso: il ponte verso la flora benedettina (ossia il giardino dei monaci ricavato sul banco lavico ad est del complesso e oggi occupato dall'Ospedale Vittorio Emanuele II), il Coro di Notte, la continuazione dei lavori della Chiesa di San Nicolò l'Arena (interrotti a causa di crolli e cedimenti strutturali nel 1755). 

Nel 1767, nel presbiterio della chiesa veniva inaugurato il grande organo di Donato Del Piano, ma occorsero ancora molti anni prima che venisse voltata l'intera navata. Solo nel 1780 Stefano Ittar portò a termine la cupola mentre la facciata progettata da Carmelo Battaglia Santangelo rimase incompiuta. Sempre Ittar si occupò anche della sistemazione spaziale del piano antistante la chiesa, l'attuale Piazza Dante Alighieri, progettando nel 1769 la grande Esedra con i tre monumentali palazzi, non solo per questioni estetiche e religiose (la piazza era teatro di varie feste religiose, soprattutto la processione del Santo Chiodo) quanto come avvio del necessario risanamento del quartiere circostante, il cosiddetto Antico Corso, fra i più poveri e malsani della città. A questo punto gran parte del monastero e della chiesa era già completata e i monaci si dedicarono nei decenni successivi alla decorazione interna degli ambienti, a dotare di marmi pregiati e dipinti le cappelle, a mettere insieme quelle grandi collezioni artistiche, archeologiche, librarie, naturalistiche e scientifiche, che lo resero famoso in tutta Europa.

Intorno al 1840, venivano affidati all'ingegnere Mario Musumeci i lavori di completamento dei chiostri, ultimi interventi architettonici di rilievo prima dell'incameramento al demanio dell'intero complesso nel 1866. Il monastero di San Nicolò l'Arena fu infatti interessato dalle leggi di soppressione delle corporazioni religiose e i monaci furono costretti a lasciare l'edificio: nel 1867 avvenne il passaggio dell'intero complesso dall'ultimo abate Giuseppe Benedetto Dusmet, divenuto quello stesso anno arcivescovo di Catania, alle istituzioni cittadine.

Negli anni successivi, il grande complesso fu adibito a vari usi e frazionato in più parti. Ospitò caserme, scuole e istituti tecnici, per un certo periodo anche il Museo civico (poi trasferito al Castello Ursino), l'osservatorio astrofisico del professor Pietro Tacchini, nonché il laboratorio di geodinamica di Annibale Riccò oggi sede del museo della fabbrica, ma soprattutto divenne sede della Biblioteca Civica di Catania formatasi a partire da quella benedettina e, con i successivi ampliamenti, divenuta l'odierna istituzione delle Biblioteche riunite Civica e A. Ursino Recupero.

Danneggiato dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale, l'intero complesso, esclusa la chiesa di San Nicolò restituita ai Benedettini, fu infine ceduto all'Università degli Studi di Catania che avviò subito un vasto progetto di recupero e restauro condotto dal professore e architetto Giancarlo De Carlo. Tale progetto ha reso possibile l'adeguamento dell'antico complesso monastico a sede delle Facoltà di Lettere e Filosofia e Lingue e Letterature Straniere, oggi accorpate nel Dipartimento di Scienze Umanistiche (DISUM), del predetto Ateneo.

UNA CITTADELLA NATA SULLA SABBIA - DALLE PENDICI DELL'ETNA ALL'ACROPOLI GRECA

Il monastero benedettino di San Nicolo l'Arena, deriva il nome dal luogo dì fondazione. Il primo nucleo sorse infatti nel XII secolo alle pendici dell'Etna, in una zona coperta di terra sabbiosa (rena); in origine semplice ricovero per i monaci infermi dei vicini monasteri di Santa Maria di Licodia e San Leone di colle Pannacchio, vicino a Paterno, divenne con il tempo il potente monastero di San Nicolo la Rena, che superò in importanza e ricchezza gli altri cenobi. 

Nel '500 il pericolo di eruzioni e incursioni banditesche spinse i monaci a trasferirsi in città, in un nuovo convento, costruito sul sito dell'acropoli greca, inaugurato nel 1578. Dopo la rovinosa eruzione del 1669, il complesso fu ricostruito secondo un ambizioso progetto dell'architetto romano Giovan Battista Contini, ma il terremoto del 1693 distrusse il convento e fermò i lavori, ripresi solo dieci anni dopo e continuati per tutto il 700. Sull'elegante esedra di piazza Dante (1), disegnata da Stefano Ittar, prospetta la facciata incompiuta (2) dì San Nicolo, una delle chiese più imponenti della Sicilia (105 metri per 48), sormontata dalla cupola (3) dello stesso Ittar. Da un portale barocco (4) si entra nel cortile a "L" del monastero, affiancato sul lato lungo dalle ex stalle, oggi aule universitarie (5). Un elaborato portale neoclassico (6) porta allo scalone d'onore e al complesso benedettino con i due chiostri: il primo (7), occupato da un giardino, ha al centro un chioschetto neogotico, il secondo (8), il più antico, i resti di una fontana del '600. Un corridoio porta all'ala del convento destinata, nei progetti originari, a due chiostri mai realizzati. Qui sorgono il grande Refettorio (9), oggi Aula Magna della facoltà di Lettere, le antiche cucine (10) decorate da vivaci maioliche, e la biblioteca dei monaci, con la sala Vaccarini (11), dai magnifici scaffali in legno scolpito, e le altre sale più piccole (12), oggi sede della Biblioteca Unita Ursino Recupero.  

MONASTERO - Gli edifici monastici di San Nicolò l'Arena occupano un'area enorme, che cinge su tre lati la grande chiesa, e che nonostante i cambiamenti subiti nell'ultimo secolo è ancora perfettamente riconoscibile. Il Monastero appare infatti diviso dal resto della città, di cui costituiva l'estremità occidentale, da un alto muro di cinta su cui si aprono i due portali principali: il primo a nord, divenuto alla fine del XIX secolo imbocco di via Biblioteca, è situato in fondo alla via Clementi, continuazione della via di Sangiuliano, in origine chiamata via Lanza, in onore del duca Giuseppe Lanza di Camastra che l'aveva tracciata subito dopo il terremoto del 1693; il secondo, affacciato su piazza Dante, in corrispondenza dell'antico monastero cinquecentesco, di cui i monaci avevano cominciato la ricostruzione dopo il grande sisma. Da questo secondo portale si accede all'enorme corte esterna che aveva più funzioni, principalmente di filtro tra il mondo esterno laico e quello religioso dell'edificio. 

Addossati al muro di cinta erano vari locali di servizio comprese le cavallerizze (scuderie), le stalle e le carretterie (rimesse per i veicoli). Circondato da questo grande cortile sorge in tutta la sua imponenza il monastero vero e proprio, celebrato da Patrick Brydone, in viaggio in Sicilia nel 1773, che lo definì Versailles siciliana. Esso presenta un basso piano terreno, con porte che si affacciano sul cortile, su cui poggiano i due piani principali. 

La costruzione del piano terreno, non appartenente alla tradizionale modalità costruttiva delle congregazioni religiose catanesi, fu dovuta alla volontà di allineare il secondo piano al livello del banco lavico del 1669, alto circa dodici metri, dove, nei progetti dell'ambizioso cenobio, dovevano sorgere la altre ali del palazzo. La soluzione, unita al filtro costituito dal muro di cinta che isolava il cenobio dalla città, comportò però anche numerosi accorgimenti, tanto funzionali quanto decorativi, che rendono ulteriormente originale nel panorama degli edifici monastici catanesi quello benedettino di San Nicolò; il primo piano risultò infatti gerarchicamente simile al secondo, presentando anch'esso grandi balconi alle finestre e una maggiore apertura verso l'esterno tutt'altro che monastica. 

Le due facciate meridionale ed orientale dispiegano nelle loro superfici tutto il repertorio tardo barocco e churrigueresco dei maestri lapicidi accorsi a Catania da tutta la Sicilia per prender pare alla ricostruzione. Una infinita serie di volute, fiori, frutti, mascheroni mostruosi, putti, e ninfe che adornano le mostre delle finestre e i balconi mentre le paraste giganti, bugnate a punta di diamante e coronate da capitelli corinzi, denunciano la loro natura essenzialmente ornamentale nel cornicione sovrastante che non vi poggia direttamente a causa di una frangia decorativa fatta di volute e conchiglie che sembra pendere dal cornicione. 

Al centro della facciata principale, ad interrompere la sua sfarzosa teatralità barocca, Carmelo Battaglia Santangelo verso la fine del 700 inserì il maestoso portale ormai quasi neoclassico nella sua semplice linearità. La struttura interna dell'edificio appare estremamente simmetrica con i due vasti chiostri quadrati sui cui lati corrono lunghi corridoi che si intersecano tutti ortogonalmente e su cui si aprono le porte delle celle dei monaci e dei frati, dell'appartamento dell'abate e di quello del re, allineati sulle facciate esterne. I collegamenti verticali sono assicurati da numerose scale, tra cui la principale è il grande scalone a tenaglia di Girolamo Palazzotto, adorno di stucchi neoclassici.

I chiostri - Il primo chiostro, quello di levante, è occupato da un folto giardino e circondato per intero di portici retti da pilastri ed archi a tutto sesto, con una terrazza continua soprastante. Essi furono inizialmente costruiti da Francesco Battaglia solo sul lato settentrionale a reggere il corridoio del Coro di notte al secondo piano. All'ingegnere Mario Musumeci furono affidati, nel XIX secolo, i lavori di completamento del chiostro di cui coprì con nuovi portici gli altri tre lati replicando quello esistente, risistemò i giardini e aggiunse al centro l'originale Caffeaos neogotico, decorato di maioliche variopinte.

Il secondo chiostro o chiostro di marmo, a ponente, è il più antico e fu infatti costruito sulle rovine del monastero precedente, di cui sono riconoscibili alcuni tratti delle fondazioni cinquecentesche nei sotterranei. In origine non ospitava come l'altro chiostro un giardino, bensì un lastricato monumentale in ciottoli e pietra lavica di cui ancora si intravedono alcune parti sotto lo sterrato, mentre al centro sta ancora la grande fontana marmorea seicentesca. Ai lati sono addossati i portici sorretti da colonne di marmo bianco, anch'esse seicentesche ed appartenenti al primo impianto monastico, rimesse in opera nel settecento. In questa parte del monastero particolarmente interessante è la biblioteca universitaria ricavata negli immensi sotterranei del monastero dove, oltre ai resti delle fondazioni cinquecentesche, si possono ammirare, nella Emeroteca, i mosaici di un'antica domus romana, tra cui uno in pregiato opus sectile, rinvenuti durante gli scavi negli anni ottanta e riportati alla luce e restaurati di recente.

Tra i due chiostri corre il cosiddetto corridoio dell'orologio, il più lungo dell'edificio, che unisce quest'ala del monastero, la parte privata, con quella di rappresentanza, dove si svolgeva la vita comune del cenobio. Nei progetti originari, questa nuova ala avrebbe dovuto presentare due chiostri speculari a quelli più antichi a sud della chiesa, ma con l'affidamento dei lavori di costruzione al Vaccarini a partire dal 1739, dopo che il Battaglia aveva già cominciato la costruzione del noviziato, il progetto fu notevolmente modificato. L'architetto palermitano prolungò il corridoio dell'orologio fino ai suo limiti ideali già tracciati, ma invece dei chiostri, ai due lati, costruì l'antirefettorio, i due refettori, le cucine, la grande biblioteca e il museo senza seguire alcuno schema simmetrico e ingegnandosi nella scelta di forme sempre diverse per ogni locale, concezione quanto mai barocca.

La biblioteca - Oggi i locali del museo, della biblioteca e del refettorio piccolo sono occupati dalle Biblioteche riunite Civica e A. Ursino Recupero. Nate a partire dalle collezioni librarie benedettine confiscate nel 1866 a cui si aggiunsero le biblioteche delle altre congregazioni religiose catanesi che formarono la biblioteca comunale nel 1869. Ampliate negli anni seguenti con la Biblioteca-Museo Mario Rapisardi e soprattutto con il lascito del Barone Antonio Ursino Recupero nel 1925 essa oggi possiede circa 270.000 volumi oltre a manoscritti, pergamene, corali, erbari (secchi e a stampa), cinquecentine, libri rari e di pregio, disegni, stampe, giornali e periodici e foto. Le antiche sale del museo, unite assieme da grandi arcate mistilinee furono edificate per ospitare le vaste collezioni d'arte dei monaci, poi passate al demanio, con cui fu creato il primo nucleo del museo civico, e trasferite negli anni trenta del XX secolo a Castello Ursino.

Oggi tutte le cinque sale del ex-museo contengono libri e tre di esse sono destinate alla consultazione, lettura, direzione. Il refettorio piccolo è di forma ovale e sormontato da un'alta volta adorna di stucchi, ma l'ambiente certamente più grandioso è la vasta sala della biblioteca, detta Sala Vaccarini, in onore del suo architetto, che sulla porta principale porta la data 1733; rettangolare, su due piani, rischiarata da grandi finestre ovali, con le alte scaffalature e il ballatoio in legno scolpito, il pavimento in maiolica di Vietri e la volta affrescata da Giovanni Battista Piparo con il trionfo delle scienze, delle arti e delle virtù. La Sala è rimasta immutata dal settecento anche nella disposizione dei volumi, divisi per facoltà.

Le biblioteche custodivano il Tabulario del monastero e quello proveniente dal Monastero di Santa Maria di Licodia.

Il seminterrato seicentesco - In questa parte del monastero particolarmente interessante è la biblioteca universitaria ricavata negli immensi sotterranei del monastero dove, oltre ai resti delle fondazioni cinquecentesche, si possono ammirare, nella Emeroteca, i mosaici di un'antica domus romana risalente al II secolo d.C., tra cui uno in pregiato opus sectile, rinvenuti durante gli scavi negli anni ottanta, riportati alla luce e restaurati. In particolare, è stata rinvenuta una sezione di mosaico in Opus tessellatum appartenente al Peristilio della domus e un Triclinio appartenente ad un'altra domus risalente al II secolo a.C. Il vano che ospita il triclinio è stato ribattezzato come "stanza della tavola imbandita" poiché le pareti presentano un affresco risalente al I secolo d.C. raffigurante un drappeggio per ornare la tavola.

Gli studenti possono fruire comodamente degli ambienti della biblioteca e dell'emeroteca grazie anche ad un ponte sospeso sopra l'area archeologica che funge da corridoio. Il ponte si trova sospeso grazie ad un sistema di tiranti in acciaio che spingono tutti i pesi sulle pareti cosicché non vi sono pilastri che intacchino i mosaici romani. Il seminterrato durante la confisca si ridusse quasi a magazzino e durante la seconda guerra mondiale fu usato come rifugio antiaereo; soltanto con i lavori di recupero dell'università negli anni novanta emersero i resti archeologici sotto il pavimento del piano cantinato.

Il refettorio grande - La costruzione del noviziato che, come dice lo stesso nome, ospitava i novizi del monastero, per lo più appartenenti alle migliori famiglie aristocratiche catanesi e siciliane, fu cominciata da Francesco Battaglia che riprodusse specularmente l'impianto dei due chiostri esistenti con il corridoio affacciato sul chiostro e le stanze dei novizi allineate sulla facciata esterna, ma la costruzione del grande refettorio sull'altro lato del corridoio da parte del Vaccarini modificò profondamente questa primitiva concezione sacrificando la simmetria alla grandiosità e allo sfarzo.

L'antirefettorio è un'ampia sala rotonda da cui si accede ai due refettori e alle cucine; decorato da massicce colonne tuscanine binate, che reggono una spessa trabeazione e da statue di putti e di personificazioni delle virtù in stucco, è sormontato da una grande cupola riportata solo nel 1981 al suo livello originario; era stata infatti rialzata di cinque metri per ospitare la Specola dell'osservatorio astrofisico. Il refettorio presenta una forma allungata, un rettangolo con due semicerchi alle due estremità, e una volta altissima illuminata da numerose finestre, che fanno sembrare questo grande ambiente più una chiesa che un refettorio.

Lungo tutto il perimetro della sala corre una sorta di marciapiede, in cotto siciliano, (come lo definì Federico De Roberto) dove erano collocati i tavoli dove i monaci consumavano i pasti, e al centro vi è un grande tappeto di maioliche siciliane decorate a mano, da qualche anno restaurate, che ridanno vita a quella che era l'originalità della grande sala. L'ampia volta fu affrescata al centro da Giovanni Battista Piparo, con una Gloria di San Benedetto, unica decorazione pittorica sopravvissuta della sala che per il resto oggi, sede dell'Aula Magna "Santo Mazzarino" del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'almo studio catanese, appare uniformemente bianca.

CHIESA DI SAN NICOLÒ - La chiesa di San Nicolò, una delle più grandi della Sicilia con i suoi 105 metri di lunghezza e 48 di larghezza, fu costruita su progetto dell'architetto romano Giovanni Battista Contini (1641-1723) a partire dal 1687. Il progetto rivela gli intenti funzionali e celebrativi dell'ordine. Da un lato, infatti, l'enorme superficie occupata dall'edificio religioso doveva servire ad accogliere quanti più fedeli possibili durante le feste religiose, soprattutto quella del Santo Chiodo, in settembre; dall'altro, la grandezza e la monumentalità del tempio dovevano evidenziare la potenza e la ricchezza raggiunte dal cenobio catanese. 

Ovvio esempio a cui ispirarsi per concretizzare tutte queste premesse, era la Basilica di San Pietro a Roma, di cui non poteva ovviamente non tener conto un architetto romano come il Contini, allievo di Carlo Fontana e di Gian Lorenzo Bernini, nonché principe dell'Accademia di San Luca. E i riferimenti alla basilica vaticana sono ben riconoscibili: nei pilastri che reggono le navate, con le paraste corinzie e i cornicioni plasticamente rilevati, nelle finestre, che riecheggiano motivi prettamente romani, e, infine, soprattutto nella pianta a croce latina e a tre navate, con transetto e cupola all'incrocio dei bracci, con cappelle laterali e sulle absidi del transetto, un coro sopraelevato molto profondo per accogliere gli stalli dei monaci.

Le navate divise da grandi arcate, con tutte le volte poste alla stessa altezza, con la luce forte e diffusa, proveniente dalle alte finestre, sui lati e in facciata, e ulteriormente accentuata dall'alta cupola, permette di abbracciare con uno sguardo l'intera superficie della chiesa fino all'altare maggiore, con le sole cappelle laterali poco più in ombra, a suggerire una spazialità e monumentalità maggiori. Le cappelle laterali sono tutte rivestite di marmi pregiati e di esse, infatti, si occuparono con particolare attenzione i monaci e gli abati del convento, che non solo fecero arrivare marmi da tutta Italia, ma anche per le pale d'altare si rivolsero a pittori non siciliani, o comunque attivi a Roma: Bernardino Nocchi (1741-1812) e Stefano Tofanelli (1752-1812), entrambi lucchesi, Vincenzo Camuccini (1771-1844), romano, Mariano Rossi (1731-1807), originario di Sciacca ma di formazione napoletana e romana, Ferdinando Boudard (1760-1825), di Parma.

Stefano Ittar, subentrato al cognato Francesco Battaglia dopo che la navata destra nel 1755 aveva subito alcuni cedimenti strutturali, innalzò entro il 1780 la grande cupola all'incrocio fra navata e transetto. La cupola è alta all'interno 62 metri e domina l'intera città. Da alcuni anni è in restauro.

Dal lato sinistro del transetto si accede alla sacrestia, opera di Francesco Battaglia, e al Sacrario dei Caduti, ricavato in alcuni locali dietro l'abside maggiore e sotto alcune aule del monastero. Il sacrario ospita le lapidi a ricordo dei caduti della Prima Guerra Mondiale ed è ornato dagli affreschi di Alessandro Abate, fortemente degradati a causa dell'umidità, mentre la sacrestia, con gli stalli lignei settecenteschi e gli affreschi di Giovan Battista Piparo comunica col chiostro orientale da cui prende luce.

Confiscata dal governo unitario nel 1866, sconsacrata durante l'ultima guerra mondiale e danneggiata dai bombardamenti, successivamente riconsacrata e dal 1989 ritornata ai benedettini, la chiesa è stata oggetto di numerose campagne di restauro e consolidamento, compresi i lavori di restauro della cupola tuttora in corso, ma versa ancora in condizioni di degrado.

La facciata - La facciata su piazza Dante fu cominciata su progetto di Carmelo Battaglia Santangelo, nipote e allievo di Francesco Battaglia, che aveva vinto il concorso bandito dal cenobio nel 1775. Il progetto, un ibrido un po' goffo tra l'ormai provinciale e pretenzioso tardo barocco siciliano e il più lineare neoclassicismo che trovava sempre più largo consenso anche nell'élite isolana, appare piuttosto freddo, con le otto poderose colonne libere che scandiscono la facciata, i tre grandi portali con le finestre balaustrate soprastanti e il timpano centrale, tutto elaborato in una scala grandiosa che non ha eguali in città e che si adegua alle dimensioni altrettanto grandiose della stessa chiesa. 

Complici i problemi tecnici che la costruzione comportava e la precaria situazione finanziaria dei monaci, più inclini a render maggiormente comodi e sfarzosi gli ambienti del monastero e la vita che vi si conduceva, piuttosto che la loro chiesa, la facciata fu innalzata solo parzialmente lasciando le colonne a metà e il tutto privo della trabeazione di coronamento con un timpano al centro, prevista dal progetto. Nel 1796, l'architetto firmava il finestrone centrale, ma a quel punto i lavori venivano interrotti definitivamente.

L'organo - L'area presbiteriale con l'abside è caratterizzata dal grande altare, dagli stalli lignei del coro scolpiti dal palermitano Nicolò Bagnasco e dal grande organo di Donato del Piano (1704-1785) in fondo all'abside. Questi lavorò per dodici anni (dal 1755 al 1767) a questo enorme strumento con 2916 canne in legno e lega di stagno, sei mantici, cinque tastiere e settantasei registri che poteva riprodurre qualsiasi strumento musicale ed essere suonato in contemporanea da tre organisti. 

Rimasto in funzione fino ai primi decenni del XX secolo, l'organo attraversò poi un periodo di totale abbandono, ulteriormente aggravato dai bombardamenti alleati del 1943, che danneggiarono la chiesa. Fu solo nel 1998 che con decreto ministeriale furono stanziati i fondi necessari al restauro, operato dalla ditta organaria Mascioni e rivelatosi fin dall'inizio molto difficile e lungo a causa tanto dell'incuria dell'uomo e dei saccheggi subiti, quanto dei materiali in cui era stato fatto lo strumento, facilmente degradabili. Gli interventi si protrassero fino al 2004 quando, rimontato nell'abside di San Nicola, tornò nuovamente a suonare dopo oltre cinquant'anni di silenzio.

La meridiana - Nel transetto si trova la grande meridiana che due famosi astronomi, il tedesco Wolfgang Sartorius von Waltershausen e il danese Christian Peters tracciarono sulla pavimentazione a partire dal 1839. In realtà, già da molto tempo si pensava a dotare la chiesa di una meridiana, ma i progetti precedenti patrocinati da vari abati non riuscirono ad andare in porto e fu solo con l'abate Giovan Francesco Corvaja che la meridiana fu effettivamente realizzata. 

Grandi furono le lodi che ricevette quest'opera al suo completamento nel 1841, tanto per le dimensioni quanto per il valore dei materiali e delle finiture, ma soprattutto per la precisione ed arditezza dei calcoli; si disse infatti che essa spaccava il secondo. Lo gnomone, ossia il foro praticato sulla volta del transetto, sta a 23 metri, 91 centimetri e 7 millimetri di altezza, mentre sulla fascia marmorea, il cui tracciato si estende per circa 40 metri tra le due cappelle di San Benedetto da Norcia e San Nicola di Bari alle due estremità del transetto, sono segnate le ore, i giorni e i mesi, nonché i segni zodiacali e varie iscrizioni che forniscono notizie sull'opera, sui suoi ideatori, sull'interpretazione corretta di tutti i dati, sui rapporti tra le varie unità di misura in uso al tempo.

La Meridiana si estende, trasversalmente alla navata principale, dalla cappella di S. Benedetto alla cappella di S. Nicola, per una lunghezza complessiva di metri 40,92. 

Il foro gnomonico è realizzato a Sud, in alto all'interno della cappella di S. Benedetto. Esso è a un'altezza di m. 23,92 dal pavimento. Le lunghezze progressive, dalla perpendicolare del foro gnomonico all'estremo del solstizio invernale, ai punti equinoziali ed al solstizio estivo, sono rispettivamente m. 43,06, m. 18,35 e m. 5,98. La distanza misurata tra i punti solstiziali, e dunque la lunghezza della Meridiana vera e propria, è di m. 37,07.

La Meridiana di S. Nicolò l'Arena è certamente la più ricca di dati geografici, astronomici, fisici, geodetici e metrici, che sono riportati il latino su due strisce longitudinali ai lati della linea meridiana.

La linea meridiana è suddivisa, con delle tacche, in 365 parti distanziate in rapporto alla variazione giornaliera della declinazione del Sole, in modo da segnare giorno per giorno il cammino del Sole durante l'anno.

Ai lati della Meridiana, dodici riquadri riportano al loro interno le figure stilizzate dei segni zodiacali che sono delle autentiche opere d'arte.

Alle estremità della Meridiana, due riquadri riportano alcuni dati caratteristici della stessa. Il riquadro di Sud, lato cappella di S. Benedetto, riporta il nome dei costruttori, dello scultore, dell'abate che ne auspicò il completamento e l'anno di costruzione. Il riquadro di Nord, lato cappella di S. Nicola, riporta, mediante delle astine di metallo incastonate nel pavimento, i cinque principali campioni di misure che a quell'epoca erano in uso, commercialmente, negli scambi, sia con paesi lontani che localmente.

Come prima misura figura il "metro francese" che riproduce esattamente la lunghezza del metro campione costituito da una sbarra di platino-iridio conservata presso gli "Archives du Bureau International des Poids et Misures" a Parigi. E' il nostro metro. Seguono i "piedi parigini" rappresentati da un segmento diviso in tre sezioni, di lunghezza complessiva di 97,7 cm. Abbiamo quindi i "piedi inglesi", rappresentati da un segmento lungo 91,44 cm., corrispondenti esattamente ad una "yarda". E' diviso in tre sezioni; ogni sezione corrisponde alla lunghezza di un piede inglese (m. 0,3047997).

Si passa quindi alle misure nostrane. I "palmi siciliani"; segmento lungo 103,24 cm. diviso in 4 sezioni ciascuna lunga m. 0,258098 corrispondente ad un "palmo palermitano". Il segmento è così lungo complessivamente 4 "palmi palermitani" equivalenti a "mezza canna". Per finire sono riportati i "palmi napoletani" con un segmento lungo 105,46 cm. Il segmento e' suddiviso in 4 sezioni, ciascuna delle quali corrisponde ad 1 "palmo di Napoli" che equivale a m. 0,263670.

Da segnalare inoltre che in un libretto dell'epoca si trovano alcune preziosissime tavole che riportano: il nascere ed il tramontare del sole in "ore vere"; la lettura diretta, in ore e minuti, del tempo medio civile al mezzogiorno vero locale (e dunque tengono conto dell'equazione del tempo); i tempi del nascere e del passaggio del Sole in meridiano espressi in "ore e minuti italici".

Tutti questi dati sono stati perfettamente calcolati all'epoca da Francesco Caruso per tutti i giorni dell'anno.

Teatro romano

Il teatro romano di Catania è situato nel centro storico della città etnea. Il suo aspetto attuale risale al II secolo ed è stato messo in luce a partire dalla fine del XIX secolo. A est confina con un teatro minore, detto odeon.

Il Teatro greco - Di un teatro a Catania si fa riferimento nelle fonti classiche in merito alla consultazione delle polis siceliote da parte di Alcibiade, che tenne nel 415 a.C. un discorso all'assemblea civica riunita appunto nel teatro. Di questo teatro però non era chiara l'ubicazione e la tradizione tendeva a identificarlo con il teatro di età romana oggi visibile. Tale associazione diede adito a numerose fantasticherie sull'edificio, al punto che è ancora oggi chiamato Tiatru grecu dalla comunità locale, mentre la strada che lo costeggia a nord è chiamata via Teatro Greco. Ciò che ha dunque mosso gli studiosi dell'edificio sin dai primi lavori di sgombero delle strutture antiche è stato anche il quesito se il teatro delle fonti fosse il medesimo che si ammira oggi, ossia se su una preesistente struttura greca possa essere nata la struttura romana. Per un certo periodo venne persino messo in dubbio che potesse esistere davvero un teatro in epoca greca a Catania e che si trattasse di una errata traduzione delle fonti ad aver generato la credenza di detto edificio. Diverse quindi le ipotesi a favore dell'identificazione del teatro romano con quello greco: la posizione alla base di una collina a differenza dell'usanza romana di edificare in pianura o la scena rivolta verso il mare. Sul monumento però le fonti sono piuttosto silenti e ne tacciono le vicissitudini storiche: per capirne quindi la storia si fa ricorso ai ritrovamenti archeologici che gettano un po' di luce sull'edificio.

Le fasi più antiche testimoniano la presenza di un edificio teatrale costruito con grossi blocchi di pietra arenaria con lettere in greco in pianta rettangolare, un tipo di planimetria più diffusamente ellenistica. Tale struttura, già identificata negli anni 1884 e 1919 e attribuita a un teatro greco di V-IV secolo a.C., potrebbe essere propriamente il teatro in cui Alcibiade tenne il discorso ai Katanaioi per convincerli ad allearsi con Atene contro Syracusae.

Il Teatro romano - Il teatro di epoca greca venne dunque restaurato nel corso del I secolo, probabilmente a seguito dell'elezione a colonia romana di Catania, avvenuta ad opera di Augusto. A questo periodo appartengono un rifacimento della cortina quadrangolare con la sostituzione dei blocchi in arenaria mancanti con conci lavici squadrati, l'aggiunta della scena e le gradinate più antiche dell'edificio.

Nel corso del II secolo, si assiste a un progressivo processo di monumentalizzazione dell'area che coinvolge anche le vicine strutture termali e numerosi edifici cittadini (tra cui anche l'anfiteatro). A questo periodo risale il plinto conservato nel museo civico al Castello Ursino, in cui è rappresentata una vittoria che incorona un trofeo su un lato e dei barbari resi schiavi a lato; tale plinto potrebbe rappresentare una vittoria sui Germani di Marco Aurelio o di Commodo. Le tracce della monumentalizzazione si notano anche nell'assunzione di una pianta emiciclica dell'edificio, la realizzazione di un proscenio decorato da lussuosi marmi, l'ampliamento della scena e la realizzazione di due massicce torri laterali, atte a ospitare le scale d'accesso ai diversi piani dell'edificio. La struttura si dota in questo periodo di numerosissimi elementi architettonici, tra fregi, statue, bassorilievi e colonne, in passato spesso trafugati o raccolti ed usati come materiale da costruzione per gli edifici della città barocca.  

Quartiere Grotte - Caduto in declino e abbandonato nel corso del VI e del VII secolo come per molti altri edifici monumentali di età classica, venne presto sfruttato per ricavarne modeste abitazioni già dall'Alto Medioevo. L'area dell'orchestra fu interessata da una macelleria bovina, mentre lentamente e inesorabilmente le strutture venivano intaccate e scavate per ricavarne nuovi edifici.

Nonostante le dure manipolazioni nel corso dei secoli, tra cui l'aggiunta nel XVI secolo di piccole stradelle che tagliavano il monumento da parte a parte, l'emiciclo dell'ultimo ambulacro era perfettamente leggibile dall'esterno e tale veniva riprodotto dai cartografi cinque e secenteschi. Il terremoto del Val di Noto del 1693 rovinò molte abitazioni che erano nate sulla cavea, le cui macerie vennero sfruttate per realizzare le fondamenta di nuove abitazioni. Nel XVIII secolo viene eretta la via Grotte, i cui archeggiati sono ancora visibili a testimonianza della sua esistenza, che tagliava in senso sud-nord l'edificio, mettendo in comunicazione la strada del corso (oggi via Vittorio Emanuele II) con lo spiazzo alle spalle del teatro. La strada, come si nota da alcune fotografie precedenti al suo abbattimento, era in comunicazione con alcune stradelle minori e persino una piazza, ricavate sulla cavea tra il XVIII e il XIX secolo.

Monumento archeologico - Sul finire del XIX secolo il proprietario del palazzo che si addossa all'adiacente odeon, il barone Sigona di Villermosa, fece abbattere l'ultimo fornice per ampliare il suo immobile. Questo increscioso avvenimento mobilitò la Soprintendenza alle Antichità per la Sicilia Orientale, all'epoca diretta da Paolo Orsi, che adottò il pugno duro nei confronti di chi abitava sopra i due teatri e avviò una campagna di esproprio e liberazione delle antiche strutture mai del tutto completata. Da un primo sgombero della fine dell'Ottocento che interessò quasi esclusivamente l'odeon, si riprese solo negli anni cinquanta del XX secolo in misura massiccia l'opera di sgombero, interrotta dopo una ventina d'anni. Una campagna di scavo venne condotta nei primissimi anni ottanta che restituì nel 1981 l'ingresso orientale degli attori, costituito da una scaletta e un accesso trabeato, realizzato in grossi blocchi di pietra lavica.

Descrizione - Del teatro romano, di circa 80 metri di diametro e con una capienza di circa 7.000 spettatori, oggi si conservano la cavea (ossia la gradinata), l’orchestra e alcune parti della scena: non è difficile immaginarlo come doveva essere in tutta la sua eleganza, ornato da statue, nicchie e colonne, e impreziosito dall’alternanza cromatica del bianco e del nero nei sedili in marmo e nelle scale in pietra lavica che salivano lungo la gradinata separandola in settori.

Lo spazio antistante la scena è attualmente sommerso dalle acque dell’Amenano, il fiume coperto dall’eruzione del 1669 e che da allora scorre sotterraneo, le cui acque in età romana erano convogliate nel teatro per consentire spettacoli con giochi d’acqua e per muovere gli ingranaggi meccanici delle scenografie.

Odeon  

L'Odéon è situato nel centro storico della città etnea, accanto al Teatro Romano. Risale al II secolo d.C. Venivano qui rappresentati spettacoli musicali e di danza e qui si tenevano le prove degli spettacoli che si tenevano nel vicino teatro. Ancora oggi è utilizzato per spettacoli estivi.

La costruzione semicircolare aveva una capacità di circa 1500 spettatori. È caratterizzato da diciotto muri che formano cunei stretti e lunghi all'interno dei quali ci sono diciassette (ne restano sedici) vani coperti. L’orchestra è pavimentata in marmo.

Anfiteatro romano  

L'anfiteatro romano, di cui è visibile solo una piccola sezione nella parte occidentale della piazza Stesicoro, è una imponente struttura costruita in epoca imperiale romana, probabilmente nel II secolo, ai margini settentrionali della città antica, a ridosso della collina Montevergine che ospitava il nucleo principale dell'abitato. La zona dove sorge, ora parte del centro storico della città, in passato era adibita a necropoli. Esso fa parte del Parco archeologico greco-romano di Catania.

Il monumento fu probabilmente costruito nel II secolo; la data precisa è incerta, ma il tipo di architettura fa propendere per l'epoca tra gli imperatori Adriano e Antonino Pio.

Appare evidente un ampliamento datato intorno al III secolo che ne triplicò di fatto le dimensioni.

Una leggenda popolare infondata vuole che l'eruzione dell'Etna del 252 lo abbia raggiunto senza però distruggerlo. Tale tradizione si basa sulla vita di Sant'Agata riportata negli Acta Sanctorum del Bollando, dove è riportato che ad un anno esatto dalla morte della santa (251) un fiume di fuoco si diresse alle porte della città, e i villani - preoccupati per le loro campagne - giunsero alla tomba di Sant'Agata per prelevarne il velo mortuario, usandolo per arrestare l'avanzata della lava. Tale fonte, del tutto agiografica, indusse persino autorevoli vulcanologi come il Gemmellaro ad interpretare erroneamente l'anfiteatro (il quale si trovava alle porte della città) quale punto in cui si arrestò la lava. Recenti studi stratigrafici e di datazione hanno dimostrato chiaramente che la cosiddetta "colata lavica di Sant'Agata" del 252 ebbe origine dal cono del Monpeloso, e, riversandosi quasi per intero nel territorio di Nicolosi, si fermò nel territorio di Mascalucia, a 450 m s.l.m., in direzione di Catania, ma senza mai raggiungerla. L

'unica traccia di una colata presso l'anfiteatro è una sporgenza lavica che si affaccia da uno dei fornici murati dell'edificio; quando però nel '900 fu compiuto un carotaggio sulle pareti dell'ambulacro interno per cercare di capire cosa vi fosse al di là, da esso fluirono liquami "a vagonate", segno evidente che il corridoio è vuoto: il frammento di roccia vulcanica sporgente è con tutta probabilità materiale di riempimento per la gittata delle fondazioni della facciata della sovrastante chiesa di San Biagio.  

Secondo quanto riferisce Cassiodoro, nel V secolo Teodorico, re degli Ostrogoti, concesse agli abitanti della città di utilizzarlo quale cava di materiale da costruzione per l'edificazione di edifici in muratura a motivo dell'abbandono del monumento "per lunga vetustà". Secondo alcuni autori, nell'XI secolo anche Ruggero II di Sicilia ne trasse ulteriori strutture e materiali per la costruzione della cattedrale di Sant'Agata, tra cui le colonne in granito grigio che decorano il prospetto e le absidi, su cui si riconoscerebbero ancora le pietre perfettamente tagliate usate, forse, anche nel Castello Ursino in età federiciana.

Nel XIII secolo, secondo la tradizione, furono adoperati i suoi vomitoria (gli ingressi) da parte degli Angioini per accedere alla città durante la cosiddetta guerra dei Vespri. Nel secolo successivo gli ingressi furono murati e il rudere venne inglobato nella rete di fortificazioni Aragonese (1302). Nel 1505 il senato cittadino fece concessione a Giovanni Gioeni di usare le pietre del monumento per la costruzione di abitazioni e per usarne l'arena quale giardino. Una messa in sicurezza del rudere si ebbe con il piano di costruzione delle mura della città nel 1550; vennero abbattuti il primo e il secondo piano e con le stesse macerie avvenne il riempimento delle gallerie. Dopo il terremoto del 1693 fu definitivamente sepolto, per poi essere trasformato in piazza d'armi. In seguito vennero sfruttati gli estradossi delle gallerie superstiti come fondamenta per le nuove abitazioni, nonché per la facciata neoclassica della chiesa di San Biagio, nota anche come 'A Carcaredda, cioè la fornace.

Dalla seconda metà del XVIII secolo l'anfiteatro fu oggetto di scavi archeologici, che tuttavia non ne preservarono gli ambienti ormai ipogei: i fornici vennero murati e sfruttati come pozzi neri per i palazzi della ricostruenda città. Tale uso sembra essere la causa dell'indebolimento della struttura di cui nel 2014 è stato denunciato il pericolo di collasso in un'interrogazione parlamentare del 1º aprile di quell'anno, in cui venne ripreso ciò che già era stato portato all'attenzione dell'opinione pubblica a seguito di una videoinchiesta di una testata giornalistica. Il 24 aprile dello stesso anno si è costituito un primo tavolo tecnico per stabilire un programma di recupero del monumento, mettendo contemporaneamente in sicurezza il quartiere sorto nei secoli sopra le sue strutture. In precedenza, solo nei primissimi anni del XX secolo si era operato un lavoro di ricostruzione atto all'apertura per le visite, con la realizzazione dello scavo di piazza Stesicoro e la creazione di un percorso poi sfruttato solo occasionalmente.

Nel 1943, durante il bombardamento degli Alleati che ridusse parte della città in cumuli di macerie, la struttura (tanto l'ambulacro interno quanto gli stessi pozzi neri) venne adoperata a mo' di rifugio. Successivamente si sono susseguiti periodi di interesse e di abbandono; per molti anni, i suoi cunicoli sotterranei sono rimasti chiusi per generici "problemi di sicurezza" a seguito di presunti episodi tragici legati alla curiosità di visitatori che provavano ad esplorarli. Ristrutturato nel 1997, fu aperto solo durante la stagione estiva e poi richiuso per infiltrazioni di reflui delle fognature delle case limitrofe all'interno dell'anfiteatro. Parzialmente risanato, nel luglio 1999 è stato riaperto al pubblico, per poi essere chiuso nuovamente poco tempo dopo a causa di peggioramenti delle sue condizioni. I suoi resti, rappresentanti quasi un decimo dell'intero anfiteatro, sono visitabili dall'ingresso di piazza Stesicoro e dal vico Anfiteatro, dove se ne vede l'altezza fino a parte del terzo piano. Fino al 2007 era possibile vederne una porzione del secondo piano da Via del Colosseo; oggi è interamente coperto dal nuovo terrazzo di villa Cerami. In quest'ultimo edificio, sede oggi della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Catania, è ancora possibile vedere parte del sistema d'archi che collegava l'Anfiteatro alla collina Montevergine (probabilmente l'antica acropoli della città). La restante parte dell'anfiteatro è ancora interrata sotto le zone di via Neve, via Manzoni e via Penninello.

L'edificio presentava la pianta di forma ellittica, l'arena misurava un diametro maggiore di 70 m ed uno minore di circa 50 m. I diametri esterni erano di 125 x 105 m, mentre la circonferenza esterna era di 309 metri e la circonferenza dell'Arena di 192 metri, e si è calcolato che poteva contenere 15.000 spettatori seduti e quasi il doppio di quella cifra con l'aggiunta di impalcature lignee per gli spettatori in piedi. Addossato alla vicina collina ne era separato da un corridoio con grandi archi e volte che facevano da sostegno per le gradinate. Era probabilmente prevista anche una copertura con grandi teli per il riparo dal forte sole o nel caso di pioggia. La cavea presentava 14 gradoni. 

Venne costruito con la pietra lavica dell'Etna ricoperta da marmi ed aveva trentadue ordini di posti. Secondo una tradizione incerta e priva di riscontri si vuole vi si svolgessero anche le naumachie, vere battaglie navali con navi e combattenti dopo averlo riempito di acqua mediante l'antico acquedotto.

L'anfiteatro di Catania è strutturalmente il più complesso degli anfiteatri siciliani e il più grande in Sicilia. Appartiene al gruppo delle grandi fabbriche quali il Colosseo, l'anfiteatro di Capua, l'Arena di Verona. Presenta una struttura realizzata con muri radiali e volte non addossata al terreno, dove la facciata non si appoggia direttamente ai muri radiali, bensì a una galleria di distribuzione periferica. La tecnica edilizia prevede l'uso dell'opera vittata per le parti interne e quadrata per l'esterno. Le testate dei pilastri sono in opera quadrata con piccoli blocchi di pietra lavica.

I paramenti denotano una certa trascuratezza: i blocchetti dell'opera quadrata sono a taglio irregolare e appaiono in buona parte di riporto. Gli archi sono realizzati esternamente con grossi mattoni rettangolari dal taglio regolare e uniti da malta di buona qualità, mentre internamente sono fatti in opera cementizia a grosse scaglie radiali.

Singolare, nonostante la complessiva sobrietà dell'edificio, doveva apparire il contrasto cromatico tra la scurissima pietra lavica dei paramenti e il rosso dei mattoni delle ghiere degli archi. Una nota di prestigio era rappresentata dall'utilizzo del marmo, non solo per il rivestimento del podio, ma anche per alcune decorazioni come le erme ai lati dell'ingresso principale dell'arena. Molto probabilmente le gradinate dovevano essere in pietra calcarea realizzando un forte gioco cromatico tra il bianco dei sedili e il nero delle scalette, così come supponibile dalle costruzioni coeve.  

Allo scavo dell'Anfiteatro si accede mediante una porta di ferro decorata ad archetti traforati nel registro superiore e totalmente liscio nel registro inferiore. A decorazione del portone metallico vennero recuperati nel 1906 alcuni frammenti di colonne marmoree che in origine dovevano costituire parte del loggiato superiore, due capitelli ionici frammentari e parte di un architrave su cui fu incisa la scritta AMPHITHEATRVM INSIGNE. 

L'ingresso è così formato: al centro il portone metallico i cui stipiti sono le colonne con capitello, coronato dall'architrave; le restanti due colonne sono situate nelle due estremità laterali e inserite tra queste e quelle centrali vi sono due pareti in pietra recanti gli epitaffi simbolici di due illustri personaggi di epoca greca legati a questa zona - Caronda a sinistra, ricordato anche dall'omonima via; Stesicoro a destra, che diede nome in antico alla via Etnea - composti dal poeta Mario Rapisardi. La tradizione vuole che il sepolcro di costoro fosse propriamente nella zona prossima all'anfiteatro.  

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