Chiesa
di Santa Maria Maggiore
Fondata nel
1621, in origine la chiesa era dedicata a S. Elmo. Nel 1632 fu dedicata a
Gesù e Maria.
La chiesa di S. Maria Maggiore fronteggia quella di S. Giacomo: un tempo
avevano la funzione di chiudere in modo monumentale il tratto più centrale
della Marina Garibaldi. All’interno si possono ammirare affreschi di
Scipio Manni.
Sulla facciata due epigrafi ricordano il noto episodio del riposo di
Garibaldi sulla soglia della chiesa.
Chiesa
di San Giacomo Apostolo
Venne
edificata nel 1434 per volontà di re Alfonso d’Aragona in seguito alla
vittoria riportata sulle truppe di Luigi III d’Angiò, evento che il
Piaggia ritiene inventato. Dedicata a S. Giacomo Apostolo Patrono della
Spagna, mantiene ancora la sua struttura originaria quattrocentesca. Fu
Chiesa Madre della città sino al 1616, quando venne inaugurato il Duomo,
costruito all’interno del Castello.
Dal
sobrio aspetto rinascimentale non alterato dagli inserti successivi, ha una
facciata a ordine unico serrata da cantonali di pietra e coronata da un
attico triangolare con orologio e stucchi; la porta, di gusto ancora
seicentesco, è ornata da esili colonne corinzie e sormontata da una nicchia
con la statuina del Santo titolare, il tutto fregiato da volute e
torciglioni: l’iscrizione data la realizzazione al 1712. La semplice
finestra rettangolare è ornata da modesti fregi.
La
porta secondaria su via Medici si presenta affiancata da eleganti paraste
doriche su base decorata e con timpano spezzato che racchiude
l’iscrizione: una cartella decorata a volute riporta la dedica al Santo
titolare. Dal lato della Marina si colloca un’altra apertura e la
sacrestia con un esile portalino neogotico.
Al
suo interno, nel 1609, l’originario soffitto in legno venne sostituito da
una volta a botte. È a navata unica rettangolare con ampio coro
quadrangolare raccordato dall’arco trionfale, fregiato dallo stemma civico
e ornato da putti in stucco che sollevano un velario.
Sono
presenti quattro altari laterali dedicati alle Anime del Purgatorio, a S.
Giovanni Apostolo, all’Annunziata e al Crocifisso; alcune tele del
Settecento attribuite a Scipio Manni e raffiguranti la Crocifissione,
l’Annunciazione e la Messa di S. Gregorio; altri dipinti che troviamo
nella zona del coro sono la morte di S. Andrea d’Avellino, S. Nicola
(1804), S. Antonio Abate e la Probatica Piscina (1785).
Il fonte battesimale
e la custodia a muro dell’Olio Santo risalgono al 1626, mentre il
pavimento al 1777. Al centro della volta un affresco del 1761 che raffigura
Il processo e Martirio di S. Giacomo.
L’altare
maggiore del Seicento è quello dell’antico Duomo al Castello, trasferito
qui nel 1866 in sostituzione di un antichissimo altare ligneo. Nell’ingresso
si trovano il modesto monumento Zirilli Proto del 1862.
Infine bisogna
ricordare la presenza della cripta seicentesca sottostante l’area del
presbiterio dove furono seppelliti i resti di numerosi combattenti
garibaldini del 20 luglio 1860 e del patriota milazzese Matteo Nardi,
trasferiti nel 1864 nel grande ossario dell’antico cimitero di S.
Giovanni.
E
ancora un foro segnato da un cerchio e da una data, 25 luglio 1943, che
ricorda la prodigiosa incolumità del tempio nel corso dei bombardamenti
anglo – americani quando un ordigno sfondò il tetto e cadde inesploso ai
piedi della statua di S. Stefano Protomartire.
Chiesa
del Carmine
La Chiesa
del Carmine vide la luce intorno al XVI secolo su un’area che oggi prende
il nome di Piazza Caio Duilio, precedentemente occupata da due piccoli
templi dedicati alla Madonna della Consolazione e a San Filippo d’Agira.
Intorno al 1570 la chiesa e i fabbricati annessi vennero ceduti dai nobili
Giancarlo e Gianpietro Rigoles a padre Andrea Cordaro da Tripi per dare vita
al primo insediamento carmelitano.
Tra il 1718
e il 1719, quando Filippo V di Spagna cercò di riconquistare la Sicilia al
suo dominio, Milazzo venne assediata dalle sue truppe. In questa occasione
tale edificio sacro venne in gran parte distrutto, per essere ricostruito
nella forma attuale tra il 1726 e il 1752. Nel 1888 fu espropriata ai
Carmelitani, sconsacrata per poi essere riaperta al culto nel 1927.
La
facciata è ad ordine unico e coniuga elementi del rococò con
l’attenzione per il recupero dell’eredità rinascimentale, dando vita ad
un prodotto del barocchetto messinese. Essa è serrata da alte paraste con
grandi capitelli corinzi che dividono il prospetto della chiesa
dall’adiacente campanile: sulle paraste corre un’originale cornice
curvilinea che regge, sulla destra, il campanile a vela.
Una sola
porta dalle linee classicheggianti si apre nella facciata: è ornata da
semicolonne corinzie e da motivi a festoni nell’architrave, sovrastato da
un timpano spezzato con stemma centrale dell’Ordine Carmelitano e quello
gentilizio dei Baroni Baele, antichi patrocinatori del tempio. Sopra la
porta è presente una nicchia contenente una statua raffigurante la Madonna
della Consolazione che accoglie le anime sotto il suo manto e
rappresentativa del legame storico – religioso con la primitiva chiesa
quattrocentesca.
L’edificio
sacro si presenta a navata unica con ampio coro quadrangolare, abside
semicircolare e sei altari laterali inquadrati da paraste corinzie che
reggono la trabeazione in stucco: sulla sinistra, dopo una teca con la mezza
figura dell’Ecce Homo, si notano gli altari dei SS. Cosimo e Damiano (con
quadro della Madonna coi Santi Cosimo, Damiano, Filippo d’Agira e Antonio
da Padova), del Crocifisso (con scultura policroma e tela delle Marie),
della Sacra Famiglia di Maria (con statua policroma della Madonna del
Carmine e tele raffiguranti Santi Carmelitani); sulla destra sono gli altari
dedicati alle Anime del Purgatorio (con quadro raffigurante la Sacra
Famiglia coi SS. Anna e Gioacchino e le Anime del Purgatorio), a S. Lucia
(con quadro di S. Lucia con la Madonna e Santi) e alla Madonna del Carmine
(con statua policroma della Madonna della Pietà).
Alternate
alle cappelle sono otto cornici ovali in stucco contenenti tele che
raffigurano Santi Carmelitani. Due modeste nicchie tra gli altari contengono
statue policrome di S. Gioacchino e del Cristo Re.
Al termine
della navata, ai lati dell’arco trionfale, sono quattro nicchie con statue
in stucco di Santi Carmelitani. Si accede al coro attraverso l’arco
trionfale con le date 1752 e 1947: nel vano è sistemata la tela
settecentesca della Madonna del Carmine con le Anime del Purgatorio,
attribuita ad Antonino Vescosi da Pozzo di Gotto.
L’altare
maggiore risale al pieno Settecento ed è interamente realizzato in marmi
policromi, ornato da una custodia centrale e da una coppia di statue
allegoriche; nel paliotto è un tondo col Sogno di Isacco. Sopravvivono
ancora due testimonianze a muro relative alle antiche tombe patrizie: il
monumento sepolcrale, con stemma gentilizio, dei coniugi Giovanni e Filomena
Ciparo (1583) e la targa marmorea, apposta tra il 1726 ed il 1727, che
raccoglie le ceneri dei nobili Proto e ricorda, nell’epigrafe latina, la
distruzione della tomba gentilizia seicentesca in seguito all’assedio di
Milazzo del 1718-19.
Santuario
Sant'Antonio da Padova

Interamente
scavato nella grotta, secondo la tradizione fu rifugio del Santo, allora
missionario portoghese Ferdinando di Bulhoes, la cui nave era stata
dirottata da una violenta tempesta durante un viaggio verso la natìa
Lisbona (1221). La grotta, dopo la sua morte (1231) e la sua canonizzazione
(1232), venne trasformata prima in un luogo di preghiera e poi in santuario,
oggi risultato di successivi interventi nel 1575, 1737 e 1783.
La
chiesetta, a navata unica e campanile a vela, ha un semplice portale
classicheggiante del 1699 con accanto una nicchia contenente la statuina
policroma del Santo.
L’altare
maggiore fu realizzato nel 1699, mentre il nuovo altare laterale della
Madonna della Provvidenza ed il pavimento nel 1737. La statua lignea del
Santo (1704) dello scultore palermitano Noè Marullo sostituì quella
cinquecentesca andata distrutta da un incendio.
Le pareti
laterali sono rivestite di lastre marmoree con bassorilievi raffiguranti i
miracoli del Santo. La porta della sacrestia, in marmi policromi e con
battenti lignei scolpiti, risale al 1737. In un piccolissimo vano ricavato
nella roccia si trova l’antico luogo di preghiera di S. Antonio.
Palazzo
D'Amico
Palazzo dei
Marchesi D’Amico, ubicato in Marina Garibaldi a pochi metri dalla Chiesa
di Santa Maria Maggiore ed alle porte del borgo marinaro di Vaccarella, è
una delle poche testimonianze settecentesche del centro storico cittadino.
L’edificio fu realizzato, su commissione dei Marchesi D’Amico,
dall’architetto messinese Francesco Arena negli anni 1733/1735.
Residenza
di città di una delle maggiori famiglie nobili milazzesi, faceva parte,
insieme con i Palazzi Ventimiglia, Carrozza e Ryolo, delle più
rappresentative dimore gentilizie.
Il Palazzo,
sottoposto a tutela e vincolo per il rilevante interesse storico-artistico
nel 1975, divenne di proprietà del Comune di Milazzo negli anni ’80.
Su progetto dell’arch. Antonino Giardina (nell’ambito del
“European Union Prize for Cultural Heritage/Europa nostra awards
2006) negli anni 2000/2005, sono stati eseguiti lavori di recupero e di
conservazione dell’edificio per essere destinato a centro culturale
polifunzionale al servizio della Città.
Ultimate le
altre opere di restauro e acquisito l’arredo, il Palazzo D’Amico
è stato inaugurato e aperto al pubblico il 12 dicembre 2008.
Il Piano
terra dell’immobile, un tempo utilizzato per alloggio degli stallieri o
dei cocchieri, è destinato a salone espositivo. Il primo piano, definito
“Piano Nobile”, anticamente di rappresentanza, attualmente è centro di
incontri e manifestazioni culturali. Il secondo piano che era la zona
residenziale della famiglia, oggi è adibito a Biblioteca comunale e
Sala lettura.
Il Palazzo
mostra, all’ingresso, un grande portale, fiancheggiato da due semi colonne
tuscaniche che reggono l’ampio ballatoio a cornice del grande balcone
centrale.
Fu sotto
questo portone che Garibaldi, nel concedersi una pausa dopo la lunga,
cruenta battaglia ed occupazione della città nel 1860, dettò sul calar
della sera, l’ordine del giorno dell’epico avvenimento.
Palazzo
del Governatore

Uscendo
dal Santuario di S. Francesco di Paola, si consiglia d’imboccare la via in
salita intitolata alla memoria di Giuseppe D’Amico Rodriquez,
aristocratico milazzese che abitava nel bel palazzo, purtroppo abbandonato
al degrado, che un tempo fu dimora del governatore, la massima autorità
militare di Milazzo.
La
costruzione del palazzo, impropriamente denominato «dei Viceré», ebbe
inizio nel 1612 in seguito all’adozione da parte degli amministratori
comunali dell’epoca di una concessione edilizia, che autorizzava Francesco
Baeli, primo proprietario dello storico edificio, ad innalzare il
fabbricato, la cui facciata è impreziosita da stupende mensole figurate (i
cosiddetti cagnoli).
L’edificio
venne interessato nel tempo da diversi interventi di manutenzione:
documentati quelli del 1724, 1787 e 1811. Gravemente danneggiato dal
terremoto del 28 gennaio 1831, venne ricostruito nelle forme attuali da
Giuseppe D’Amico Rodriquez, che avviò l’acquisizione delle quote di
proprietà degli eredi Baeli.
Il
Palazzo del Governatore, attualmente di proprietà dell’ente morale
“Regina Margherita”, ebbe tra i suoi illustri ospiti Luigi Filippo
d’Orleans, re di Francia nella prima metà dell’Ottocento.
La
visita prosegue al più importante bene culturale cittadino, cui si giunge
percorrendo la via Duomo antico, che si imbocca dopo essere passati di
fronte alla chiesetta di S. Gaetano (o Madonna della Catena) ed alla
settecentesca badia benedettina, che ospitò le monache dopo il loro
abbandono della città murata.
Villa
Vaccarino

Nel lontano
1929 l’ingegnere Gaetano Bonanno, con la collaborazione del pittore
Michele Amoroso, realizza nella città di Milazzo una bellissima dimora in
stile Liberty.
La
costruzione, ancora oggi, emana un fascino straordinario che deriva
dall’equilibrata bellezza degli elementi architettonici che si fondono
armoniosamente con gli elementi decorativi.
All’interno
del variegato giardino spicca una fonte con all’interno un isolotto
artificiale che riproduce la nostra bella Sicilia.
Villa Vaccarino situata in una via centrale del Comune di Milazzo,
precisamente in via Cristoforo Colombo, per lungo tempo adibita a pretura,
è una chiara testimonianza dell’arte Liberty, come si può rilevare dalle
preziose decorazioni in legno, in ferro e stucco presenti al suo interno e
dalla recinzione esterna realizzata in ferro battuto decorata con eleganti
fregi floreali.
La villa
commissionata dal ricco industriale del sapone Vaccarino, proprietario di
due fabbriche, una a Giammoro di Pace del Mela e l’altra a Venetico
Marina, si rivelò ben presto un luogo “dannato” e pieno di insidie.
Nel giro di
pochissimo tempo il proprietario perse tutto il denaro, finendo sul
lastrico, come se una maledizione si fosse abbattuta sulla sua famiglia.
Intorno a
questa bellissima dimora aleggia la leggenda del fantasma che si aggirerebbe
all’interno di essa, precisamente nelle aule adibite un tempo come
tribunale; inoltre si tramanda che in quella zona, fuori dalle mura,
venivano di solito impiccati i malfattori.
Anche lo storico Antonino Micale, nello “Stradario storico della città di
Milazzo“, parlando di via Cristoforo Colombo, si sofferma a descrivere
villa Vaccarino e parla di un “vasto giardino, sottostante lo storico
quartiere degli Spagnoli, adibito a luogo di supplizi per criminali comuni e
militari”.
Numerose
sono le testimonianze degli ex impiegati della pretura i quali non volevano
rimanere mai da soli nel loro ufficio poiché erano terrorizzati dai
continui rumori e dalle strane presenze che vedevano o percepivano.
Si racconta
che, agli inizi degli anni Novanta, dei ragazzi s’intrufolarono di
soppiatto nella villa con lo scopo di avvistare il presunto fantasma. A
tarda notte scavalcarono il cancello e arrivarono nel grande giardino: uno
di loro affermò di aver visto un uomo vestito di bianco che camminava
avanti e indietro sul cornicione dal lato interno.
Unica
certezza è che il territorio dove sorge la villa era adibito a luogo di
supplizi e torture per i criminali.
Tra i tanti
criminali giustiziati ricordiamo il pirata napoletano Aniello Cuomo, nato a
Castellamare di Stabia, di cui si dice che fu decapitato a causa dei suoi
numerosi crimini nel 1817 e che la sua testa fu gettata a mare.
Da quel
giorno molti testimoni affermano di aver visto il suo corpo senza testa che
cavalca un cavallo, sia nei giardini della villa, sia nei dintorni, nella
ricerca della sua testa e di aver sentito nel cuore delle notti prive di
luna il calpestio degli zoccoli del suo cavallo e le urla del suo dolore.
Per
alleviare la paura, che i cittadini milazzesi hanno nei confronti del
cavaliere senza testa, il Comune di Milazzo lascia le luci nel giardino
sempre accese, sia di giorno sia di notte.
Peccato che
la via in cui si trova Villa Vaccarino sia sempre lasciata al buio... Ma
questa è un'altra storia..
- Castello

Cuore della
città e sua principale ragion d’essere, il Castello di Milazzo sorge in
uno dei pochi luoghi del Mediterraneo ininterrottamente abitati dall’uomo
da almeno cinquemila anni. La possente rocca naturale, da cui prese nome la
città greca, aveva già visto fiorire la civiltà del neolitico, del bronzo
e del ferro, e continuò ad essere fortezza di primaria importanza per il
controllo della costa settentrionale della Sicilia e del suo mare sotto i
Greci, i Romani e i Bizantini, anche se la natura rocciosa del suolo, il suo
declivio ed il suo sconvolgimento per la costruzione delle cinte bastionate
non hanno lasciato traccia alcuna delle fortificazioni erette prima della
conquista araba.
Rimangono
soltanto alcune preziose testimonianze di vita quotidiana: rinvenute
casualmente entro il perimetro murario del maniero, attestano la presenza
dell’uomo già in età classica. È il caso, ad esempio, della moneta
mamertina rinvenuta nel 2005 nell’area antistante il monastero delle
benedettine e raffigurante il Dio Adranos (III sec. a. C.) o di quella,
risalente ad un secolo prima e coniata dalla zecca di Siracusa, che
raffigura un ippocampo al diritto e la testa di Atena al rovescio.
Testimonianze di notevole valore storico che, unitamente ai numerosi conci a
vernice nera raccolti dal piano di calpestio, rendono ormai indifferibile
l’esecuzione di nuove campagne di scavi da parte della Sovrintendenza.
Il Mastio,
che sorge sul punto più alto dello sperone roccioso a strapiombo sul mare e
chiude un’ampia ed ariosa corte, ha come suo nucleo più antico la torre
detta “saracena” e come suo ambiente più pregevole l’elegante salone
all’interno del quale si trova un possente camino. Iniziato forse sotto
gli Arabi, ampliato dai Normanni, il Mastio assunse la sua struttura attuale
(come rivelano le otto torri angolare e mediane) sotto Federico II di
Svevia. Alcuni dei conci in pietra lavica che ornano le strutture murarie
delle torri e del salone recano ancora oggi i marchi dei lapicidi,
geometrici contrassegni che consentivano di riconoscere – e
conseguentemente controllare e remunerare – il lavoro dei singoli maestri
impegnati nel cantiere milazzese.
Successivamente,
sotto gli Aragonesi, il Mastio normanno-svevo venne protetto dal tiro delle
armi da fuoco attraverso la costruzione, alla fine del Quattrocento, della
cinta bastionata che lo racchiude (cosiddetta cinta aragonese o “barrera
artillera”) coi suoi 5 torrioni semicilindrici. Infine, nel Cinquecento
gli Spagnoli, per proteggere la città e la costa dai pirati barbareschi che
avevano saccheggiato le Eolie e la Calabria e per avere un’imprendibile
fortezza da cui controllare Messina, innalzarono la poderosa cinta muraria
contraddistinta dalle numerose caditoie destinate alla difesa piombante.
La
“barrera artillera” (cinta aragonese) costruita tra il 1496 ed il 1508 e
progettata dall’ingegnere militare Baldiri Meteli. Recentemente è stata
oggetto di studi da parte dell’arch. Alessandro Gaeta, che ha rinvenuto i
documenti della sua costruzione all’Archivio di Stato di Palermo, curando
inoltre eleganti simulazioni grafiche come quella raffigurata sopra assieme
alla foto del portale d’ingresso e a qualche particolare interno ed
esterno delle cannoniere munite di mirino a forma di croce e di fori entro
cui scorrevano i perni dei portelloni lignei di chiusura della bocca delle
stesse cannoniere, onde preservare le artiglierie da pioggia ed interperie.
Con la
costruzione della cortina cinquecentesca (cosiddetta cinta spagnola)
l’intero complesso fortificato assunse la fisionomia di una vera e
propria città murata, entro la quale erano ubicati i palazzi del
potere, dalle sede municipale agli uffici giudiziari, cinque-sei edifici di
culto, oltre alla chiesa madre innalzata alle soglie del Seicento, e le
numerosissime abitazioni civili di coloro i quali dimoravano all’interno
della stessa città murata. Un complesso di fabbricati pubblici e privati
del quale oggi, se si eccettuano l’antico duomo e la secentesca badia
benedettina, non rimangono altro che i perimetri murari di base, solo in
parte affioranti in superficie.
Imponente e
suggestiva, la poderosa cinta spagnola, che comprende la cortina e i
due bastioni ad essa affiancati (denominati rispettivamente «di Santa Maria»
e «delle Isole»), è il risultato della progettazione di alcuni dei
migliori ingegneri militari del tempo. Tra questi, il bergamasco Antonio
Ferramolino, al quale si deve la realizzazione di uno dei luoghi più
affascinanti e suggestivi dell’intera città murata: la galleria di
contromina del bastione delle Isole, un lungo e tenebroso cunicolo, ricavato
nel perimetro murario dello stesso bastione, che aveva lo scopo di prevenire
gli attacchi delle mine nemiche, ossia dei tunnel sotterranei realizzati
dagli assedianti al fine di raggiungere la base delle fortificazioni onde
collocarvi potenti cariche esplosive capaci di distruggerle. Proprio per
prevenire tali attacchi il Ferramolino consigliò la realizzazione di una
galleria di contromina, dove l’assediato avrebbe pazientemente vigilato
ascoltando l’eventuale approssimarsi dei colpi di piccone della costruenda
mina nemica, che, non appena intercettata, sarebbe stata prontamente
neutralizzata.
Questo
complesso sistema di fortificazioni non venne mai espugnato: non ci
riuscirono neppure gli Spagnoli, che l’avevano eretto, quando tentarono da
qui di riconquistare la Sicilia perduta. E lo stesso Garibaldi fermò la sua
avanzata vittoriosa sotto le mura del Castello, finché l’esercito
borbonico, per il collasso dello Stato napoletano, non si arrese.
Cominciò
allora il declino della città murata: il Duomo antico, eretto a
partire dal 1607 – è caratterizzato da forti membrature di sapore
michelangiolesco, da una facciata recante meridiana, zodiaco ed una scultura
in marmo raffigurante S. Maria col Bambino, nonché da eleganti geometrie in
pietra da taglio di Siracusa tanto all’interno quanto all’esterno, oltre
che da altari arricchiti da stupende tarsie marmoree – fu abbandonato al
vandalismo ed al degrado (la graduale distruzione venne inaugurata dai
garibaldini, prima, e dalle truppe del giovane Regno d’Italia, dopo)
mentre il Mastio diventava un carcere, rimanendo tale sino al 1960.
È solo da
qualche decennio che la città ha cominciato a riappropriarsi di quello che
un tempo era il suo cuore pulsante. In questi anni, la realizzazione di un
teatro all’aperto, i restauri dell’antico Duomo (di cui ancora oggi non
si conosce il nominativo del progettista, mentre si conosce quello
dell’architetto nonché capomastro palermitano – Giuseppe Gasdia – che
ne ha diretto il cantiere dal 1615 circa) e quelli parziali di diversi
ambienti delle cinte murarie hanno rappresentato indubbiamente alcuni
decisivi passi in avanti in direzione del recupero di una delle
fortificazioni più importanti della Sicilia.
IL FORTINO
DEI CASTRICIANI E LO SCARABEO - Abbandonata la città murata si consiglia
una passeggiata lungo le mura esterne dell’antico maniero. Costeggiando il
bastione di S. Maria ci si immette nel vicoletto che consente di raggiungere
il panoramico fortino dei Castriciani con annesso piazzale, la cui
denominazione trae origine dagli abitanti di Castroreale preposti qualche
secolo fa alla custodia di questa fortificazione avanzata. Il fortino,
purtroppo in avanzato stato di degrado, è postazione panoramica
privilegiata che consente di gustare la vista mozzafiato delle isole Eolie
nonché dell’antico Duomo e delle diverse fortificazioni della città
murata che si innalzano sull’altura rocciosa e selvaggia. Ma soprattutto
si può ammirare la porzione iniziale della penisola milazzese, che si
protende sinuosa tra i due mari di levante e di ponente. E’ consigliata la
visita al fortino durante il tramonto.
Scendendo
giù, in direzione sud, si giunge al piazzale dove sorgono le chiese
dell’Immacolata e di S. Rocco, con altri punti panoramici, dai quali si
osserva meglio la città bassa. Tornando indietro (percorso consigliato) si
prosegue invece verso le vie Trincera e Papa Giovanni XXIII, ossia lungo la
cinta spagnola della città murata, la cui cortina – collocata tra i
possenti bastioni di S. Maria e delle Isole e caratterizzata dalle numerose
caditoie destinate alla difesa piombante – è fronteggiata dal rivellino
avanzato di S. Giovanni, costruito nel 1646 e collegato un tempo alla
cortina cinquecentesca o spagnola da un ponte levatoio, accennato nel corso
dei recenti lavori di restauro.
Superato
il bastione delle Isole, un ampio piazzale panoramico consente infine di
osservare il Tono, altro quartiere marinaro di Milazzo, sede un tempo
dell’omonima tonnara, e soprattutto il misterioso “scarabeo”,
realizzato lungo le mura di recinzione del Castello verisimilmente in età
normanna. Si tratta di una sorta d’insetto costituito da conci
parallelepipedi in pietra lavica, le cui ali pare abbiano avuto anticamente
la funzione di quadranti solari. In tal senso una serie di studi
approfonditi è stata recentemente condotta dallo studioso milazzese Carmelo
Fulco, il quale sta provvedendo a rilevare sistematicamente e periodicamente
le varie registrazioni astronomiche allo scopo di svelare quanto prima il
mistero che si nasconde dietro questa suggestiva antica decorazione in
pietra lavica, della quale già alle soglie del Settecento s’ignorava la
funzione.
Sito archeologico

Il
sito archeologico demaniale è raggiungibile seguendo la segnaletica
stradale per il Castello, proseguendo lungo la via del Capo e quindi
deviando a destra in corrispondenza del Viale dei Cipressi che conduce al
Cimitro Monumentale. L'area esplorata (1995-1996; 2003-2005) corrisponde a
una piccola porzione del terrazzo coltivato a uliveto.
L'ingresso
principale prospetta direttamente sullo slargo antistante il cimitero, dove
si consiglia di parcheggiare la macchina.
Un
percorso pedonale interno conduce ad un primo punto di sosta attrezzato con
due pannelli didattici, che forniscono le coordinate generali sulle presenze
di epoca preistorica e protostorica individuate nell'area urbana di Milazzo,
sullo scavo condotto nel sito e sulle fasi attestate. Proseguendo si
raggiunge il settore esplorato, protetto da una copertura in legno lamellare
e policarbonato funzionale alla conservazione delle murature, dei piani
d'uso e delle piccole substrutture (focolari) riportate in luce.
Sotto
la copertura, in corrispondenza del secondo punto di sosta, altri due
pannelli didattici illustrano nel dettaglio i resti visibili risalenti
all'età del bronzo antico (facies Capo Graziano, XVIII secolo a.C.). Si
tratta di cinque capanne, tutte diverse per planimetria, dimensioni, stato
di conservazione, delle quali solo tre (capanne 1-3), compiutamente
esplorate, sono fruibili. Tra esse spicca la capanna 1, quella più a monte,
parzialmente incassata nel pendio, con muro in pietra ben costruito,
provvista sul lato a valle di un ampio ingresso con imponente gradinata.
L'edificio,
a pianta ovale allungata, coperto in origine da un tetto in materiale
deperibile a due falde nella parte centrale e con tratto curvo al di sopra
delle absidi, si articola in due ambienti grazie a un muro - tramezzo che
isola l'abside dal vano principale, particolarmente ampio, con grande
focolare di forma lobata. All'interno di questo ambiente lo scavo ha
consentito di recuperare una parte del vasellame che faceva parte del
corredo domestico (n. 101 reperti). L'edificio per dimensioni e
caratteristiche costruttive trova un unico parallelo nella grande capanna
delta IV dell'Acropoli di Lipari.
Poco
più a valle sono individuabili i resti della capanna 2, a pianta ovale
irregolare, in cattivo stato di conservazione. La capanna 3, a pianta ovale
irregolare, con un lato quasi rettilineo, in buono stato di conservazione,
risulta delimitata da un muro ben costruito con pietre medio - grandi nelle
cortine esterne e piccole nel riempimento interno e comunicava con l'esterno
grazie a un ingresso individuato lungo il lato ovest. Internamente la
piccola abitazione era dotata di un grande focolare di forma ovale in
concotto utilizzato in tutte le fasi di vita della struttura.
In
generale, considerata anche la peculiare dislocazione dell'area di scavo, è
stato ipotizzato che le capanne riportate in luce costituiscano l'ultima
propaggine di un più vasto villaggio, la cui maggiore estensione va
ricercata nei terrazzi del pendio orientale sovrastati dal Castello
digradanti verso il mare. Si tratta, almeno a giudicare dalle strutture
esplorate, di un tessuto abitativo piuttosto fitto. Sotto il profilo della
cultura materiale lo studio condotto sui reperti rinvenuti all'interno delle
capanne consente di inquadrare tutto il contesto all'interno del Bronzo
Antico siciliano e della facies di Capo Graziano delle Isole Eolie, il che
fa ipotizzare un rapporto assai stretto tra il villaggio di Viale dei
Cipressi e i siti eoliani. La visita si conclude scendendo al livello della
capanna 3 e quindi uscendo dal cancelletto pedonale di servizio.
Necropoli

PENISOLA:
CONTRADA SAN PAPINO, NECROPOLI DELL’ETA’ DEL BRONZO ANTICO –
MEDIO (XVIII – XV SEC. A.C.) -
Tra il 1978 e il 1979, la Soprintendenza di Siracusa, intervenendo in un
cantiere edile, presso contrada S. Papino, esplorò il lembo di una
necropoli in cui vennero rintracciate trenta sepolture che documentano un
rituale ben attestato nella cuspide nord – orientale durante l’età del
bronzo: la sepoltura a enchytrismòs, ovvero il seppellimento dei defunti in
posizione fetale all’interno di contenitori ceramici di grandi dimensioni.
I contenitori venivano poi sigillati, in corrispondenza dell’imboccatura,
da una grande teglia – scodella, e interrati in posizione obliqua entro
buche parzialmente foderate e coperte da pietre. La necropoli fu
probabilmente utilizzata a lungo, come suggeriscono la varietà tipologica
rilevata nelle forme vascolari, e i paralleli istituibili con altri reperti
da contesti compiutamente inquadrabili tra il bronzo antico maturo –
avanzato e quello medio (facies di Messina e di Thapsos – Milazzese).
PENISOLA:
CONTRADA SOTTOCASTELLO (PODERE CARAVELLO), NECROPOLI DELL’ETA’ DEL
BRONZO MEDIO (XV – XIII SEC. A.C.)
- In contrada Sottocastello, proprietà Caravello, nel marzo 1952, grazie
alle indagini effettuate da Luigi Bernabò Brea e Madeleine Cavalier, si
mise in luce un lembo di una interessantissima necropoli. Le trentacinque
sepolture entro pithoi (grandi contenitori ceramici per la conservazione di
derrate) interrati a gruppi sotto tumuli funerari formati da uno strato di
pietrame, contenevano inumati singoli deposti, secondo il consueto rituale,
in posizione fetale (enchytrismòs), talora accompagnati da vasetti di
corredo. I reperti restituiti dalle 35 sepolture, oggi in gran parte esposte
in una suggestiva ricostruzione all’interno del Museo “Luigi Bernabò
Brea” di Lipari, hanno consentito di attribuire la necropoli alla cultura
del Milazzese della media età del bronzo, detta così dall’insediamento
di Panarea nelle Isole Eolie.
ISTMO:
VIA XX SETTEMBRE, PIAZZA ROMA, NECROPOLI DEL BRONZO ANTICO E RECENTE
– FINALE (XVIII – X SEC. A.C.) - Indagata
negli anni Cinquanta – anche se la scoperta della prima tomba risale agli
anni Trenta e ai lavori effettuati per la costruzione del Monumento ai
Caduti – e poi ancora negli anni Settanta, la c.d. necropoli dell’Istmo
è stata oggetto di scavo anche nel 1996.
La
necropoli è attribuita a quelle popolazioni provenienti dalla penisola
italiana (gli Ausoni della tradizione letteraria) che occupano nel XIII sec.
a.C. Lipari (Diodoro Siculo V, 7, 5 – 9, 1) e, sullo scorcio del XII sec.
a.C., Milazzo. Essa si caratterizza come una tipica necropoli
protovillanoviana, risultando del tutto analoga ai campi di urne cinerarie
note nella Penisola, con cui condivide aspetti generali di tettonica e di
decorazione delle forme vascolari, e di rituale, quale la rottura delle anse
deposte in genere al piede del vaso. In tal senso essa è la chiara prova
della presenza di gente di origine continentale, giunta probabilmente a
Milazzo in un momento diverso o comunque distinto da quello che comportò
l’occupazione delle Isole. Le tombe erano urne fittili contenenti ceneri (da
cui l’espressione corrente di “campo di urne”), sigillate con ciotole
e seppellite in posizione verticale entro pozzetti, costruiti con pietre a
lastra, come riproposto nella ricostruzione didattica del Museo “Luigi
Bernabò Brea” di Lipari, ma anche con ciottoli e/o pietre informi,
probabilmente coperti in superficie da impietramenti. Sono soprattutto i
reperti metallici (fibule, rasoi e oggetti d’ornamento) che consentono di
fissare l’utilizzo della necropoli tra l’Ausonio I e il II, ossia tra il
XII e gli inizi del X sec. a.C. . Un’anticipazione di questa scoperta era
comunque già avvenuta nel dicembre del 1937, durante i lavori di
costruzione nella nuova Cattedrale, quando venne casualmente alla luce una
sepoltura entro urna cineraria. La fase più antica di utilizzo dell’area
risale all’età del bronzo antico siciliano (XVIII – XVI secolo a.C.) e
coincide con l’impianto di una necropoli a incinerazione della cultura di
Capo Graziano; l’ipotesi di una possibile dislocazione in quest’area di
una necropoli a incinerazione risalente al bronzo antico era già stata
avanzata da Luigi Bernabò Brea al momento del recupero di alcuni reperti di
stile Capo Graziano. Sia questa necropoli che il “campo di urne”
dell’età del bronzo recente – finale sono da correlare all’abitato
individuato sul Borgo, lungo il viale dei Cipressi.
Da
questo momento, fino alla fondazione della colonia greca, mancano evidenze
archeologiche di quella fase della prima età del ferro (Ausonio III) alla
quale sono invece da riferire alcuni importanti complessi indigeni noti da
tempo sulle alture dei Peloritani.
- Capo
Milazzo

Capo
Milazzo è uno dei siti paesaggistici più affascinanti della Sicilia sotto
il profilo ambientale e naturalistico. L’importanza della posizione
geografica ha reso questo luogo protagonista fin dall’antichità di
numerosi eventi storici e culturali. Basti pensare alla visione archetipica
e letteraria che ne offre l’epica classica: è proprio qui che Ulisse e i
suoi compagni, naufragando, incontrarono Polifemo. È uno spettacolo
incantevole di colori: il verde intenso e il marrone bruciato che riveste lo
sperone roccioso, si sposa con il blu smagliante del mare.
Una
vasta area del capo è occupata dalla Fondazione Lucifero, scenario
d’incommensurabile bellezza costituito dal Promontorio di Capo Milazzo. Il
suo utilizzo è riservato ad attività socio-assistenziali per bambini
appartenenti a famiglie in situazioni di disagio economico e sociale
offrendo un “luogo ideale” lontano da rumori e frenesia cittadini, in
cui possano giocare spensierati. La zona comprende il Santuario di
sant’Antonio da Padova, realizzato all'interno di una grotta che sembra
aver dato rifugio al santo durante una tempesta nel 1221.
Percorrendo
il crinale della penisola si può arrivare al Monte Trino, punto più alto
di questa lingua di terra, il cui nome deriverebbe dalla triade pagana,
Apollo, Diana e Iside. Ai Laghetti di Venere, piscine naturali riempite con
l’alta marea, la bellezza dell'ambiente e dei paesaggi di Capo Milazzo non
si ferma alla parte emersa ma continua sott'acqua: forme di vita
interessanti, colori forti, scenari stupendi. Questi luoghi sono idonei alla
crescita di alghe e svariate popolazioni marine come cernie, murene, polpi e
scorfani; il fondale di rocce miste a sabbia si alza per formare la secca di
Levante.
La
natura si manifesta anche in una grande varietà di specie animali e
vegetali: tanti cespugli come la ginestra e il cappero, tra le specie
animali la donnola e il riccio, ma anche molti uccelli come il falco
pellegrino, il cormorano e varie specie di gabbiani. Dall’alto,
l’edificio del Faro domina sulla Secca di Ponente, piccola e isolata.
Sorpassati
Punta Messinese e il grosso scoglio detto "il Carciofo", si giunge
alla suggestiva Baia di sant’Antonio, dai fondali bassi e rocciosi.
Durante tutte le stagioni, questo luogo richiama i giovani dalla città e
dai centri vicini per trascorrere il tempo all’ombra degli uliveti, a
contatto con la natura e con il mare, ammirando il panorama e il sole
scomparire dietro le Isole Eolie.

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