Palazzi reali di Abomey
Benin

patrimonio dell'umanità dal 1985

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Per alcuni secoli il regno di Abomey (anche Dahomey), affacciato sul Golfo di Guinea, fu uno degli stati schiavisti più importanti del continente. Il Paese prosperava grazie agli introiti derivanti dalla vendita ai negrieri bianchi di prigionieri di guerra, avversari politici e delinquenti, ma anche di persone comuni rapite per incrementare il commercio. Su questa attività, controllata e gestita da un unico gruppo etnico, i Fon, si fondò una salda dinastia che non conobbe mai dispute tribali al suo interno e il cui potere si protrasse fino agli albori del XX secolo.

UNA DINASTIA SCHIAVISTA

Sull'origine dei Fon si sa molto poco. Una leggenda attribuisce a una principessa chiamata Aligbono, una figura simile la Eva biblica, la maternità dei capostipiti. Esiste comunque la certezza storica dell'affinità dei Fon con gli Ewe del vicino Togo, che si distribuirono verso est, dove si scontrarono con gli Yoruba.

Successivamente gli Ewe si divisero in tre grandi tribù: Allada, Porto-Novo e Abomey. All'inizio del XVII secolo un ribelle chiamato Doghari lasciò gli Allada e si trasferì verso nord, portando con sé un nutrito gruppo di seguaci. Nel territorio dei Guederi, tra i fiumi Cuffo e Uemè, Doghari fondò il regno di Abomey.

La potenza dei Fon derivava da una forte coesione interna, incentrata sull'identità linguistica e culturale e sul rigido rispetto delle gerarchie. Un'efficiente organizzazione militare garantiva la dominazione su tutto il Paese. Il regno di Abomey si dedicò alla tratta degli schiavi fino agli inizi del XIX secolo, quando il re Gezo, per primo, rinunciò alla consuetudine di far deportare i propri sudditi per approvvigionare le casse reali.  

L'epoca di maggiore splendore si ebbe durante il regno di Agadja (1708-1732), il quinto monarca della dinastia, che incorporò altri piccoli reami indipendenti o tributari e riuscì a estendere i confini di Abomey fino al mare. Il porto di Ouidah fu trasformato nel principale mercato di schiavi provenienti dall'interno e destinati alle isole caraibiche. Alla morte di Agadja il Paese subì un lungo periodo di decadenza, protrattosi fino al 1818, quando salì al trono Gezo, il decimo re della dinastia, che regnò per quarantanni rinverdendo l'antico splendore. Gezo centralizzò il potere statale facendo leva su un potente esercito, impose forti tributi ai sudditi e intraprese diverse guerre contro i regni vicini.

Contemporaneamente cercò di svincolare l'economia del Paese dal commercio degli schiavi, introducendo coltivazioni differenziate (palma da olio, banane, mais e tabacco) e instaurando un proficuo clima di contatti e di scambi con il governo francese.

Il figlio Gléglé (1858-1889) intensificò i rapporti con gli Europei, sempre più presenti nella regione, ma non riuscì comunque ad assicurare al Paese la prosperità degli anni precedenti. I rapporti con i Francesi erano infatti destinati a deteriorarsi: l'ultimo vero sovrano abomey, Behanzin (1890-1894), si oppose strenuamente alla penetrazione coloniale sempre più invadente, ma, dopo due anni di intensa guerriglia, fu costretto ad arrendersi. Venne catturato e deportato ad Argel dal colonnello Alfred-Amédée Dodds che, al comando di una spedizione francese, conquistò in breve tutto il Paese. Fu designato re Agoliagbo, che accettò il protettorato francese sul regno di Abomey, incorporato ufficialmente nell'Africa Occidentale Francese.

Nel frattempo, nel 1861, gli Inglesi si erano stabiliti nella vicina Lagos (Nigeria), monopolizzando il commercio degli schiavi e, quando poco più tardi fu abolita la schiavitù in tutto il Commonwealth britannico, i regni della costa del Golfo di Guinea videro seriamente minacciata la loro "migliore risorsa economica".

RESIDENZE REALI

All'interno della cinta muraria della capitale Abomey sorgono dodici palazzi, uno per ogni sovrano della dinastia. Lo spazio, che copre un’area di 44 ettari, è diviso in due grandi zone: la prima comprende undici residenze reali con i rispettivi santuari, le tombe e gli edifici di servizio, mentre la seconda è occupata dal Palazzo di Akaba (1685-1708), quarto re di Abomey e padre di Agadja, morto combattendo contro la tribù degli Uemenù. Tutti i palazzi sono strutturati secondo un unico schema. Ognuno è circondato da un muro esterno di protezione e si sviluppa intorno a tre cortili: quello esterno per le parate militari e le cerimonie, un secondo di uso comune e poi il cortile interno privato, al quale potevano accedere solo il sovrano e le sue spose. Le pareti in mattoni crudi, le finestre senza serramenti e i tetti in paglia, talvolta sostituita da lamiere metalliche, danno un'idea della semplicità di queste residenze. 

Le strutture sono in legno di tek o in bambù. Non mancano aneddoti che hanno dell'incredibile. Si tramanda, ad esempio, che Behanzin pretese, per la costruzione del suo palazzo, che la paglia e la terra fossero impastate con il sangue: l'acqua, infatti, non gli sembrava all'altezza del suo prestigio e, anziché dai pozzi, si rifornì dalle vene di duemila prigionieri. Il valore di Abomey risiede soprattutto nelle decorazioni, costituite da bassorilievi policromi e da figure di argilla che rappresentano le imprese militari dei sovrani locali. Si tratta di piccoli rilievi (spesso non arrivano a 75 centimetri di lunghezza), eseguiti su terracotta al sole e dipinta con colori vivaci, che raffigurano cruente scene di guerra o illustrano proverbi e motti, spesso connessi con la figura del re, oppure riproducono stemmi reali, con la loro caratteristica simbologia zoomorfa e allegorica. Le immagini sono piuttosto elementari e pesanti, ma ricche di vitalità e di movimento. Purtroppo l'uso di materiali fragili come il mattone crudo e il legno, soggetti nel tempo a un notevole deterioramento, e restauri approssimativi hanno provocato seri danni ai capolavori artistici dei palazzi di Abomey.

Attualmente alcuni edifici del recinto principale sono occupati dai discendenti dell'antica casa reale, che si dedicano all'agricoltura coltivando piccoli lotti di terreno, mentre un'altra zona è stata trasformata in museo etnografico che accoglie opere, sculture, tessuti, pitture dell'arte africana. Per resistere all'occupazione francese nel 1892, il re Behanzin ordinò che la città, palazzi inclusi, fosse bruciata. La Sala dei gioielli è una delle poche strutture in cui è possibile osservare l'effetto dell'incendio.  

L'OPERA DI TUTELA

Il sito fu iscritto contemporaneamente nella lista del Patrimonio dell'umanità e nella lista del Patrimonio in pericolo nel 1985, dopo che un tornado colpì Abomey il 15 marzo 1984. Secondo il rapporto effettuato all'epoca, il complesso monumentale reale e i musei, il Guezo Portico, la Sala del trono, la tomba del re Glèlè e la Sala dei gioielli subirono diversi danni. Da allora numerosi programmi di restauro furono effettivamente messi in atto a favore del sito. Nel 1994 la commissione dell'Unesco si mobilitò alla ricerca di aiuti presso diversi Stati e istituzioni per mettere in atto un programma di manutenzione del monumento. In quell'anno prese avvio il Prema (Prevention in thè Museums of Africa) in cooperazione con le autorità del Benin. Una ricerca di tre anni finanziata dal ministero degli Affari Esteri italiano e dall'Unesco produsse circa 2500 pagine di documentazione sull'architettura del luogo, coprendo un periodo che inizia dal 1731 e giunge fino a oggi. 

Il materiale raccolto fu copiato, rilegato e successivamente conservato nelle biblioteche del Benin, ma anche in Francia, Italia e Stati Uniti d'America. Dopo aver visitato Abomey nel 1993, una missione del Getty Conservation Institute lanciò una campagna di restauro dei bassorilievi che decoravano i palazzi. Durante questo lavoro durato quattro anni, cinquanta dei cinquantasei bassorilievi originari che decoravano le pareti del palazzo di Glèlè furono ricollocati sul monumento e i funzionari del Patrimonio culturale del Benin furono istruiti nella pianificazione e negli aspetti pratici del programma di conservazione. Le autorità del Benin hanno raccolto ulteriori fondi per proseguire il piano di conservazione aumentando le risorse del museo, migliorando la preparazione del personale del centro culturale e creando un programma digitale di documentazione per far sì che l'area esca dalla lista del Patrimonio in pericolo.