Al
limite meridionale dell'antico impero del Nilo
sorge il complesso della Nubia, il terzo grande
nucleo di resti monumentali dell’Egitto dei
Faraoni dopo Menfi e Tebe. Al suo valore
artistico e storico si aggiunge il fatto di
essere stato, tra il 1960 e il 1970, il
protagonista della prima e più importante
campagna di salvaguardia intrapresa dall'Unesco
per spostare i templi e le tombe più preziose
della regione, oggi sommersa dal lago formato
dalla Diga di Assuan.
L'area
archeologica che comprende i monumenti da Abu
Simbel a Philae costituisce un complesso di
immenso valore storico e artistico. Il Tempio
Grande di Abu Simbel è dedicato alle principali
divinità egizie e al faraone Ramesse II,
anch'egli divinizzato. Di grande importanza sono
inoltre i templi greco-romani dell'isola di
Philae, tra cui il santuario consacrato alla dea
Iside, considerato la "perla
dell'Egitto".
Un
alveo lungo 6000 chilometri, da milioni di anni
a questa parte, porta le acque provenienti dai
grandi laghi dell'Africa orientale a perdersi
nel Mar Mediterraneo, attraversando uno dei
deserti più aridi della Terra. Questo fenomeno
spettacolare ha un nome ben preciso, Nilo, e
in passato ha permesso alla civiltà egizia di
nascere e prosperare. Prima di essere regolato
dalla Diga di Assuan, il fiume era soggetto ogni
anno a forti piene e, quando le acque si
ritiravano, lasciavano dietro di sé uno
strato fertile di limo grigio. Gli uomini del
Neolitico impararono ben presto a sfruttare
questo sedimento fangoso per le coltivazioni
agricole, ottenendo fino a tre raccolti
all'anno. Fu così che una terra dove le piogge
sono quasi assenti divenne, 4000 anni prima di
Cristo, la culla di una civiltà molto avanzata.
LA
PORTA DELL'AFRICA NERA
Solo
il corso inferiore del fiume, tuttavia, poteva
trarre vantaggio dalle piene, grazie alla
conformazione delle sue rive, adatte
all'agricoltura. Più a monte, all'altezza
dell'Isola Elefantina, il letto del Nilo,
incassato fra aspri faraglioni di roccia, forma
una serie di rapide, le cosiddette
"cateratte", che impedivano la
navigazione. Proprio lì cominciava la Nubia, la
porta attraverso la quale l'Egitto mediterraneo
si affacciava sull'Africa nera, una terra
apparentemente ingrata, dove il deserto arrivava
praticamente fino in riva al fiume, ma in
realtà ricchissima.
Fin dai tempi lontanissimi
dei due regni (Alto e Basso Egitto), alla fine
del IV millennio a.C, i signori dell'Alto Egitto
organizzarono regolari spedizioni per
saccheggiare quella zona, ritornando in patria
carichi d'oro, di ebano e di schiavi. Quando
l'unificazione dei due regni fece dell'Egitto un
potente impero, l'espansione dei confini verso
sud divenne l'obiettivo prioritario di tutti i
faraoni, finché, durante il Nuovo Regno, tutta
la Nubia (nel territorio dell'attuale Sudan)
passò a far parte dell'Egitto. Tale espansione
consentì alla cultura egizia di porre solide
basi non solo nella regione di Uatuat, dove
l'architettura monumentale dei faraoni ha
lasciato molte tracce, ma anche nella più
lontana Kush, destinata a dare al Paese una
dinastia di sovrani i cui ritratti, benché
eseguiti secondo la tradizione egizia, ne
rivelano inequivocabilmente l'origine.
La
suddivisione temporale della storia d'Egitto in
dinastie viene specificata già dagli storici
antichi in grandi periodi intervallati da epoche
di passaggio causate da difficoltà politiche ed
economiche. Con la XVIII dinastia (1550-1307 a.C.)
ha inizio il Nuovo Regno, terzo periodo storico
di grande espansione verso i territori della
Palestina e del Sinai e di grande fioritura
artistica. Tebe, Taipet, diventa la capitale con
i maestosi templi nelle attuali Kàrnak e Lùxor,
mentre nei suoi dintorni, sulla riva occidentale
del Nilo, si moltiplicano le tombe reali nelle
zone oggi conosciute con il nome di Valle dei Re
e Valle delle Regine.
Alla
XIX dinastia appartiene il faraone Ràmses II
(che regnò tra il 1279 e il 1213 a.C),
committente dei due spettacolari e grandiosi
templi di Abu Simbel. Scavati nello stesso
sperone roccioso e vicini fra loro, erano
lambiti dalle acque della riva sinistra del Nilo
nella Bassa Nubia, presso l'attuale confine
sudanese.
La
riscoperta dei due templi di Abu Simbel si deve
allo svizzero Johann Ludwig Burkhardt. Nel corso
del suo soggiorno a Malta, dove si era recato
per perfezionare la conoscenza della lingua
araba, Burkhardt si convertì all'Islam e
assunse il nome di Ibrahim ibn Abdallah.
Divenuto musulmano a tutti gli effetti, viaggiò
a lungo in Egitto e nel Vicino Oriente riuscendo
a spingersi dove nessun altro occidentale era
arrivato.
Nel 1813 intraprese l'esplorazione
della regione a sud di Qasr Ibrim, in Nubia.
Sulla strada del ritorno decise di fare una
sosta nella località di Ebsambal (così
lo svizzero trascrive il nome di Abu Simbel
nelle sue note) dove secondo quanto gli avevano
raccontato i locali, a non molta distanza dal
Nilo, doveva trovarsi un tempio di straordinaria
bellezza. Le informazioni si rivelarono esatte e
così Burkhardt si trovò di fronte alla
facciata di uno splendido santuario rupestre
(quello dedicato alla regina Nefertari),
decorata da sei statue colossali. Prima di
lasciare la località, Burkhardt decise di
esplorarne i paraggi. Si spinse verso il deserto
e scoprì un secondo tempio (quello di Ramsete
II), cha appariva allora quasi completamente
sepolto dalla sabbia. Fuoriusciva soltanto la
parte superiore del colosso meridionale di cui
Burkhardt ha lasciato una descrizione
meravigliata ed estatica nelle sue note.
Tornato
al Cairo, Burkhardt raccontò quello che aveva
visto a Giovanni Battista Belzoni, che quando
ebbe occasione di visitare la Nubia non mancò
di fermarsi ad Abu Simbel dove, dopo innumerevoli
sforzi, riuscì a liberare dalla sabbia
l'entrata del Tempio Maggiore e a penetrare al
suo interno. Da quel momento in poi i santuari
rupestri di Abu Simbel divennero una meta
obbligata nei viaggi in Egitto. Gli abitanti del
luogo venivano ingaggiati per rimuovere la
sabbia che ostruiva l'accesso al Tempio
Maggiore. Alla partenza dei turisti, che
arrivavano in battello, erano proprio loro, i
locali, che tornavano a ricoprire l'entrata per
potere essere nuovamente ingaggiati all'arrivo
di nuovi visitatori.
Sul
finire dell'800 il Servizio delle antichità
decise di porre termine, una volta per tutte, a
questa situazione e liberò completamente la
facciata del Tempio Maggiore.
Nei
primi anni del '900 la costruzione d uno
sbarramento del Nilo ad Assuan, condusse a un
innalzamento delle acque del fiume e alla
necessità di proteggere il sito di Abu Simbel
dalla sommersione. La situazione si fece ancora
più drammatica verso la fine degli anni
Cinquanta, allorché fu decisa la costruzione
della Grande Diga. L'8 marzo 1960 l'UNESCO
chiedeva la collaborazione internazionale per il
salvataggio dei santuari rupestri di Abu
Simbel.
Fra
i progetti presentati fu scelto quello che
prevedeva il taglio dei templi in blocchi e la
loro successiva ricostruzione in un luogo più
elevato.
Le
difficili e gigantesche operazioni si protrassero
per anni. I due santuari furono prima
accuratamente puntellati e ricoperti di sabbia, affinché
non avessero a subire danni e poi sezionati in
centinaia di blocchi. Infine si provvide a
ricostruirli a centocinquanta metri di distanza
dal sito di origine, sopraelevandoli così di
circa sessanta metri. Le due colline all'interno
della quali erano stati scavati furono
sostituite da cupole in cemento armato ricoperte
di sabbia.
Nelle
operazioni di ricostruzione si cercò di
mantenere quanto più inalterati possibile
l'ambientazione, l'orientamento e le distanze
reciproche dei due monumenti.
Il
22 settembre 1968 l'inaugurazione ufficiale
segnava la conclusione delle operazioni di
salvataggio. I due santuari rupestri voluti da
Ramsete II dovevano originariamente trovarsi in
prossimità di un insediamento coloniale
egiziano, di cui non è rimasta più traccia
alcuna e che aveva la duplice funzione di
controllare le frontiere meridionali e di
gestire il commercio con le popolazioni
nubiane.
IL
TEMPIO GRANDE O TEMPIO MAGGIORE
Il
Tempio Maggiore è preceduto da una terrazza
davanti alla quale si apre una larga spianta. Sulla
facciata, alta 33 metri e larga 38, si ergono
quattro colossi, posti a coppie ai due lati
dell'ingresso principale, che ritraggono Ramsete
II seduto. La parte superiore della statua
meridionale più interna, giace oggi a terra. A
provocare un tale danno fu un terremoto,
sopravvenuto a pochi anni di distanza dalla
costruzione del tempio. Altri cedimenti furono
causati dal medesimo evento sismico e condussero
al restauro di alcune parti della facciata e di
alcune strutture interne.
Le
statue colossali, alte quasi venti metri, sono
state scolpite nella roccia della collina
retrostante, in modo da risultare pesantemente
assise sui loro troni. La loro maestosità è
sottolineata anche dalla corona composita
dell'Alto e Basso Egitto, il copricapo chiamato "Nemes"
che gli scende sulle spalle ed ha il cobra sulla
fronte.
Alla loro imponenza si contrappongono la
dolcezza e la tranquillità profuse dai loro
visi, caratteristiche che rinviano all'immagine
del sovrano giusto e magnanimo, in grado di
ascoltare le suppliche dei propri sudditi.
Ai
piedi delle maestose immagini sono ritratti i
membri della numerosa famiglia del sovrano.
Statue di principi, principesse e regine
riempiono tutto lo spazio circostante dando vita
a una composizione d'insieme ricca, variata e,
se vogliamo, confusionaria, del tutto in linea
con il gusto artistico più tipico dell'epoca
ramesseide. Varie iscrizioni sono incise sulla
roccia circostante. Tra queste è degna di nota
quella che racconta il matrimonio di Ramsete II
con una principessa ittita.
Sopra le statue, sul frontone del tempio ci sono
14 statue di babbuini
che, guardando verso est, aspettano ogni giorno
la nascita del sole per adorarlo, in origine
c'erano 22 statue di babbuini, tante quante le province
dell'Egitto, anche se secondo un'altra
ipotesi le statue erano 24 una per ogni ora del
giorno.
Sopra
l'ingresso principale al tempio si trova
un'immagine di Ra-Harakhti, il dio falco unito al disco
solare. Il dio è rappresentato incedente e in
visione frontale, con le braccia che scendono
lungo i fianchi. La mano destra poggia su uno
scettro-user, la sinistra su un'immagine della
dea della giustizia Maat. La presenza di questi
due elementi induce a una interpretazione
secondaria di tutta la composizione che può
così essere "letta", utilizzando lo
stesso sistema di decodifica dei rebus, come
User-maat-ra (lo scettro + la dea della
giustizia + Ra-Harakhti), che è uno dei nomi di
Ramsete II, traducibile in "Possente di
giustizia è Ra". Il fatto che la scultura
possa essere interpretata sia come effigie di
Ra, sia come il nome di Ramsete II, è
estremamente significativo e fa parte di quel
tentativo di autoglorificazione che è una
costante di tutto il regno del sovrano e che
trova completa manifestazione soltanto qui a Abu
Simbel.
Ai
due lati dell'immagine di Ra-Harakhti si trovano
infatti due figure dello stesso Ramsete II in
adorazione. L'intera composizione può perciò
essere interpretata come una scena in cui il
sovrano rende omaggio a Ra-Harakhti e, allo
stesso tempo, al proprio nome.
Ai lati delle statue poste presso l'ingresso ci
sono delle decorazioni, c'è il dio del Nilo,
simbolo dell'abbondanza, che lega fiori di loto,
simbolo dell'Alto Egitto, con i fiori di papiro,
simbolo del Basso Egitto, per dimostrare
l'unione del paese. Sotto queste scene, nel lato
destro, quindi a nord, sono rappresentati dei
prigionieri asiatici legati con corde che
terminano con il fior dei papiro, simbolo del
Nord, mentre nel lato sinistro, quindi a sud,
sono rappresentati dei prigionieri africani
legati con corde che terminano con fiori di
loto, simboli del sud.
Pianta
del Grande Tempio:
1,2,3,4: colossi di Ramses II; 5: sala a navata
centrale; 6: sala ipostila; 7,8: cappelle; 9:
naos
|
Monumenti
dell'isola di File: 1, padiglione di Nectanebo
I; 2, tempio di Arensnufi; 3,4, portici romani;
5, primo pilone di Tolomeo XIII; 6, "casa
della nascita"; 7, tempio di Iside; 8, arco
romano; 9, padiglione di Traiano.
|
Il
Tempio Maggiore è concepito in modo che tutte
le maggiori partizioni del santuario egizio
classico trovino attuazione in una struttura
completamente scavata nella roccia. La prima
sala richiama così la decorazione del
cortile di un tempio attraverso i pilastri
contro cui poggiano imponenti figure del
sovrano, rappresentato stante e con le braccia
conserte. I colossi della fila di pilastri
meridionali indossano la corona Bianca, emblema
del dominio dell'Alto Egitto, quelli della fila
settentrionale portano invece la Doppia Corona,
simbolo della regalità sull'Egitto unito. Nei
loro visi si ritrova la stessa espressione di
sereno distacco già riscontrata nelle statue
che ornano la facciata.
Le
pareti della sala sono decorate con rilievi a
incavo che ricordano le gesta belliche più
significative compiute da Ramsete II.
Sulla parete settentrionale è raffigurata la
battaglia di Qadesh combattuta dal faraone
egizio contro gli Ittiti. L'evento bellico è
narrato su due registri senza un ordine preciso.
In alto, Ràmses II ha appena scoccato una
freccia contro i nemici che, morenti, finiscono
sotto le ruote del suo carro; intorno soldati
sui carri e a piedi pongono l'assedio alla città
rappresentata da cinque torri racchiuse in un
ovale lambito dalle acque del fiume Oronte.
Sulla destra il re ittita Muwatalli ordina la
ritirata. In basso a sinistra è rappresentato
l'accampamento recintato con i soldati in
fervente attività mentre si preparano alla
guerra controllando i carri e i cavalli; più in
là l'irruzione dei nemici innesca una battaglia
di difesa. Sulla destra si trova il consiglio di
guerra: il faraone assiso in trono e di
proporzioni maggiori rispetto agli altri è
circondato dai consiglieri e dalla guardia reale
degli Shardana, caratterizzati dallo scudo
circolare e dall'elmo con puntale rotondo e
corna. Intorno alla scena, sistemati in colonne regolari,
i geroglifici riportano la descrizione della
battaglia.
Sulla
sala ipostila si affacciano alcuni ambienti,
soltanto parzialmente decorati, che dovevano
servire un tempo per immagazzinare gli arredi e
le forniture cultuali del tempio. Tra i rilievi
che decorano queste sale, vi sono scene in cui
Ramsete II compie offerte a varie divinità, tra
le quali è incluso anche lo stesso sovrano.
Una
seconda sala ipostila, successiva alla prima,
conduce il visitatore in una dimensione più
intima, giocata sulla riduzione progressiva dei
volumi e della luce, fino alla parte più
raccolta della struttura: il santuario.
Sulla
parete di fondo di quest'ultimo troneggiano le
effigie delle divinità che compongono la
cosiddetta "triade ramesside": Amon-Ra
di Tebe, Ptah di Menfi e Ra di Eliopoli. Accanto
a esse si trova la statua del sovrano. Per rendere più
lontano e quindi più maestoso il sacello sacro,
fu creato un impianto prospettico illusionistico
rialzando gradualmente il pavimento e abbassando
il soffitto. Due volte l'anno, il 20 febbraio e
il 20 ottobre, i raggi solari penetravano dalla
porta d'ingresso illuminando le prime tre
statue, ma mai quella di Ptah, divinità non
solare. A questa conclusione si è giunti con
sapienti calcoli astronomici in relazione
all'orientamento del tempio e alla vicinanza con
il Tropico del Cancro. Il riposizionamento del
tempio fu subordinato a questa particolarità,
che è rimasta così preservata.
IL
TEMPIO PICCOLO O MINORE
Il
Tempio Minore, dedicato alla sposa di Ramsete II,
Nefertari, concorre a rendere palese il discorso
relativo alla concezione divina della
sovranità, espressa attraverso forme artistiche
monumentali. Nel santuario è infatti celebrata
Nefertari in assimilazione con la dea Hathor di
Ibshek. La regina diviene così la degna
sposa del faraone-dio. Il suo tempio è una
replica, in dimensioni ridotte, di quello
Maggiore.
La facciata, larga 28 metri ed alta 12 metri è
ornata da sei statue alte 10 metri, tre ad ogni
lato della porta di ingresso. Le statue
raffigurano quattro volte Ramses e due Nefertari.
Ai lati delle statue del faraone ci sono i figli
in dimensioni minori, mentre ai lati di
Nefertari sono raffigurate le figlie. La regina
porta il tipico copricapo hathorico (un disco
solare racchiuso da corna bovine) mentre variano
le corone indossate dal sovrano.
L'interno
del santuario prevede una sala ipostila a sei
pilastri, decorati con l'emblema di Hathor: il
viso della dea riprodotto frontalmente. Si
accede poi ad una sala a sviluppo trasversale,
alle cui estremità si aprono due ambienti
sussidiari, che immette nella cella. Nel muro di
fondo di quest'ultima si apre una nicchia in cui
si trova una statua di Hathor, ritratta come una
giovenca che protegge il re. La decorazione
parietale prevede esclusivamente scene in cui il
sovrano e la regina sono ritratti in adorazione
di varie divinità.
Anche qui le pareti interne delle
sale sono decorate da magnifici rilievi dipinti
con scene di presentazione di offerte e di
processioni festive in onore del faraone e della
moglie Nefertàri. La regina dalla figura
slanciata e dal profilo fine è assimilata ora
alla dea Hàthor, ora alla dea Sothi, che
assicurava il rinnovarsi della piena del Nilo.
Tutto ciò allude alla funzione della regina
come simbolo del principio femminile, di garante
accanto allo sposo del perpetuarsi dell'ordine
cosmico. I testi la designano come "l'amata
del re, dolce d'amore, splendida nel
volto".
Sembra
che Nefertàri sia morta poco tempo dopo la
consacrazione dei due santuari. Visse, infatti,
tra il 1270 e il 1225 a.C, precedendo il marito
di almeno dodici anni. Le loro tombe sono state
rinvenute nella Valle dei Re e nella Valle delle
Regine, le necropoli a ovest di Tebe.
LA
BATTAGLIA DI QADESH
Le fonti relative a questo
evento bellico sono i bollettini registrati
sulle pareti di ben cinque templi del regno
egizio - ad Abu Simbel, Lùxor, Kàrnak, nel
Ramesseum e ad Abido - e il poema di Pentaur, un
papiro oggi conservato al British Museum di
Londra, redatto dallo scriba Pentaur a Menfi
durante il regno del successore di Ràmses II,
Merenptah (1224-1214 a.C). Al quinto anno di
regno, nel 1275 a.C, Ràmses II dichiarò
guerra al regno ittita di Muwatalli per
recuperare il controllo della Siria perso
durante il regno di Armenofi IV (1350-1333 a.C).
Qadesh era uno dei più importanti regni
della Siria centrale e il punto più avanzato
per successive invasioni a nord. Il faraone si
mise in marcia con quattro corpi militari, le
armate Amon, Ra, Ptah e Seth, attraversando gli
attuali territori israeliani e fermandosi a
Megiddo, a sud del lago di Tiberiade.
Da quel
punto partì un corpo di spedizione, i Naharin,
con il compito di arrivare a Qadesh passando
lungo la costa attraverso i territori dello
Stato ittita di Amurro. Il faraone percorse
l'interno nella valle della Beqaa fino a guadare
il fiume Oronte all'altezza dell'odierna Nahr el
Asi. Fu proprio lì che gli Ittiti attaccarono
di sorpresa la divisione Ra, dividendola
dall'armata Amon già attestata sull'altra
sponda del fiume e distruggendola. Fu un duro
colpo, ma Ràmses II decise di attaccare la città
con l'armata rimasta aspettando i rinforzi da
nord.
Così avvenne, e dopo una giornata di
lotta entrambi gli eserciti avevano subito
grosse perdite. Nonostante la vittoria
schiacciante propagandata sui templi e acclamata
dal popolo, il risultato dello scontro fu la
stipulazione di una tregua. Molti anni dopo, di
fronte al comune pericolo dell'espansione
dell'impero assiro, i due popoli stilarono un
accordo di pace, il primo trattato
internazionale della storia, giunto fino a noi
attraverso alcune versioni in ittita su
tavolette di argilla e due stele dai templi di Kàrnak
e dal Ramesseum.
LE
TOMBE DI RÀMSES II E NEFERTÀRI
Se il faraone Ràmses
II visse molto più a lungo della moglie
Nefertàri,
sessantasette anni contro quarantasei, la loro
vita dopo la morte fu più fortunata per la
regina che per il re. La tomba del grande
sovrano, infatti, è in fase di scavo ancora
oggi, mentre il sepolcro della regina è stato
completamente ristrutturato e aperto al
pubblico. La KV7 (King Valley), dove fu
seppellito Ràmses II, si trova all'imbocco
della valle, una posizione svantaggiosa poiché
soggetta prima e più spesso alle piogge
torrenziali con relative alluvioni tipiche di
questa regione dell'Egitto. La tomba, scavata
nella roccia, presenta una serie di corridoi
suddivisi da scale, sui quali si aprono due
vestiboli successivi. Il primo porta a due sale
secondarie, il secondo anticipa una grande sala
sorretta da otto pilastri. Dalla "sala del
sarcofago" si accede a due piccole camere
situate nelle due pareti laterali, mentre nella
parete di fondo sono scavate due camere
ipostile, una delle quali possiede ulteriori due
annessi. Sulla parte inferiore dello stipite
destro della porta che separa il terzo dal
quarto corridoio compare la citazione di "Nefertàri,
grande sposa reale" racchiusa dal
cartiglio. La tomba fu profanata fin
dall'antichità, lasciando pochi frustoli del
magnifico corredo offerto al sovrano; per questo
motivo i sacerdoti decisero di proteggere la
mummia spostandola nel ripostiglio di Deir
el-Bahari, dove fu ritrovata nel 1881.
La
medesima sorte toccò alla tomba di Nefertàri,
la cui mummia però non fu salvata. Ne rimangono
due pezzi, oggi conservati al Museo Egizio di
Torino, rinvenuti al momento della scoperta del
monumento avvenuta nel 1904 da parte
dall'egittologo italiano Ernesto Schiaparelli.
La scala d'accesso a cielo aperto porta a
un'anticamera collegata a un vestibolo e a un
annesso nella parte orientale. Nella parete di
fondo si apre una scala interna che giunge alla
camera funeraria sostenuta da quattro pilastri.
Ai lati e sul fondo furono scavati piccoli
locali destinati a contenere il corredo.
UN'ISOLA
A FORMA DI UCCELLO
Molto
più a nord, l'attuale città di Assuan era, ai
tempi dell'antico Egitto, un attivo centro
militare e commerciale da quale partivano le
spedizioni dirette verso l'Alta Nubia. La sua
importanza è testimoniata dalle ricche tombe di
dignitari scavate nelle montagne di Kubet
el-Haua e da diversi monumenti, come i templi di
'Amada, costruiti da Thutnosi III e Amenhotep II,
quello di el-Derr, opera di Ramesse II, e quello
di el-Sebu'a, costruito da Amenhotep III e
ampliato da Ramesse II. A partire dall'epoca
tolemaica la località divenne un importante
centro di culto della dea Iside, che secondo la
leggenda aveva dato alla luce il figlio Horo
sull'isola di Philae, nei pressi di Assuan. In
questo stesso periodo furono costruiti i templi
di el-Dakka, ormai sotto la dominazione romana,
e quello di Kalabsha, magnifico esempio
dell'architettura egizia più tarda, con le sue
colonne coronate da capitelli a motivi floreali.
Philae
è citata da numerosi autori dell'antichità,
fra cui Strabone, Diodoro
Siculo, Tolomeo, Seneca
e Plinio
il Vecchio e rappresentava, come lascia
intuire il nome latino
al plurale, la denominazione con cui si
indicavano due piccole isole situate nei pressi
della cataratta
di Assuan.
Di queste due isole la più piccola, oggi
chiamata col nome di Philae che un tempo era il
nome di entrambe, è la più interessante. Essa
è lunga meno di 400 metri e larga poco più di
100, con rive scoscese e probabilmente rese così
artificialmente dall'uomo; sulla sua cima era
stato costruito un alto muro che la percorreva
per tutta la sua lunghezza.
Poiché
era ritenuta uno dei luoghi di sepoltura di Osiride,
Philae era sacra sia per gli egiziani
che per gli etiopi
ed era ritenuto sacrilego avvicinarvisi per
chiunque non fosse un sacerdote (per questa
ragione era chiamata anche l'inavvicinabile).
Col passare dei secoli la situazione cambiò,
tanto che nel II
secolo a.C. Philae era divenuta uno dei più
importanti luoghi di pellegrinaggio
dell'antico Egitto e i sacerdoti mandarono una
petizione al sovrano Tolomeo
VIII per chiedere che venisse posto un freno
alla situazione. L'obelisco
su cui questa petizione venne scolpita fu
portato in Inghilterra
e, insieme alla stele
di Rosetta, servì per decifrare i geroglifici
egiziani.
L'isola
era importante anche come punto di traffico commerciale
fra l'Egitto e l'Etiopia, poiché le cataratte
erano spesso impraticabili e le merci erano
costrette a viaggiare via terra: nel loro
viaggio verso sud esse venivano sbarcate a
Philae e reimbarcate ad Assuan, una volta
superato il dislivello della cateratta, mentre
l'opposto avveniva per il viaggio da sud a nord.
La
posizione di Philae è molto prossima al Tropico
del Cancro, il che fa sì che le ombre
proiettate dai suoi templi divenissero sempre più
corte man mano che passavano i giorni fino a che
il sole
non raggiungeva il punto più alto in cielo (al solstizio
d'estate): al
mezzogiorno
di questo giorno le ombre erano praticamente
inesistenti.
Le
isole sono famose per le architetture
che ospitano, monumenti di epoche molto diverse
fra loro che vanno dai faraoni
ai Cesari
e che occupano quasi tutta l'area disponibile.
Le strutture principali si trovano nella parte
meridionale dell'isola più piccola. Di queste,
quella più antica è il tempio di Hathor,
eretto durante il regno di Nectanebus.
Altre
strutture risalgono ai regni dei tolemaici del III
e II
secolo a.C. (soprattutto Tolomeo II, Tolomeo
V e Tolomeo VI), anche se riportano numerose tracce di
influenze romane; esse erano dedicate ad Amon-Ra
e vi si entrava tramite un doppio colonnato. Di
fronte al tempio si trovavano due colossali
statue di leoni
in granito,
dietro cui si elevavano due obelischi alti 16
metri. I propilei
erano di forma piramidale
e di dimesioni colossali. All'interno si trovano
alcuni templi più piccoli, con mura ricoperte
di iscrizioni e immagini delle divinità cui le
strutture rano dedicate.
Molte
delle rappresentazioni artistiche che si trovano
a Philae risalgono ad un'epoca di molto
posteriore alla fine del regno egiziano, fino al
30
a.C., il che testimonia della sopravvivenza
dell'arte egizia secoli dopo che l'ultimo
faraone aveva cessato di regnare. Molte di
queste sculture sono state successivamente
mutilate, probabilmente da parte dei primi cristiani
e da parte degli Iconoclasti.
L'antico
nome dell'isola minore era Philak, o
"confine". Poiché rappresentava la
frontiera meridionale del regno, i Faraoni
tennero qui una forte guarnigione
militare; per la stessa ragione, un analogo
comportamento venne tenuto sia dai Macedoni
che dai Romani.
Il
complesso di templi dell'isola venne edificato
nell'arco di circa tre secoli. Le principali
divinità cui esso era dedicato sono Iside, Horus
e Hathor.
Il tempio venne ufficialmente chiuso nel VI
secolo dall'imperatore bizantino Giustiniano,
l'ultimo tempio pagano
che ancora esisteva nel mondo mediterraneo.
Alcune delle strutture vennero riconvertite per
essere usate come luogho di culto cristiano,
fino alla loro definitiva chiusura in seguito
all'invasione araba
del VII
secolo.
Nel
XIX
secolo Philae beneficiò della riscoperta da
parte degli studiosi britannici
che studiavano l'antico Egitto, e ben presto vi
si sviluppò il turismo.
Nel
1902
venne completata la diga
di Assuan e molti monumenti antichi, fra cui
Philae, rischiavano di essere sommersi dalle
acque del Nilo. La diga venne alzata per due
volte, fra il 1907
e il 1912
e fra il 1929
e il 1933,
il che causò la quasi scomparsa dell'isola di
Philae: i templi restavano fuori dall'acqua solo
quando le chiuse
erano aperte, fra luglio ed ottobre. Benché gli
edifici fossero molto resistenti e non
corressero alcun pericolo, la vegetazione
dell'isola e i colori dei bassorilievi
dei templi, conservatisi quasi integri per
millenni, vennero spazzati via dalle acque del
Nilo. Ben presto inoltre i mattoni dei templi si
incrostarono del limo
portato dal grande fiume.
Negli
anni
'60 l'UNESCO
decise di spostare la maggior parte dei
monumenti in pericolo in luoghi più sicuri. Il
complesso di templi di Philae venne spostato,
mattone per mattone, ad Agikai, a 550 metri di
distanza, dove si trova ancora oggi. Il progetto
richiese 3 anni di lavoro, fra il 1977
e il 1980.
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