Rovine di Great Zimbabwe
Zimbabwe

patrimonio dell'umanità dal 1986

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Fu nel 1871 che Uari Mauch, un giovane avventuriero tedesco, si lanciò nell'impresa di cercare le leggendarie miniere di Ofir, dalle quali la regina di Saba avrebbe estratto l'oro per costruire il trono di re Salomone. Arrivato nel cuore dell'Africa, venne a sapere della presenza di maestose rovine, appartenute a una città che "non avrebbe mai potuto essere costruita dalle popolazioni locali". Così, il 5 settembre, fu il primo europeo a mettere piede nel Great Zimbabwe, anche se continuò a pensare che quelle gigantesche costruzioni fossero una testimonianza del mitico regno della regina di Saba, inseguendo la leggenda alimentata nel 1552 dall'esploratore portoghese Joào de Barros con il De Asia. 

Nell'opera era descritta una fortezza, costruita con immense pietre, che secondo il narratore avrebbe dovuto essere la reggia di Axum, capitale del regno. Nell'epoca d'oro del colonialismo europeo, sotto la spinta ideologica di Cecil Rhodes, fondatore della Rhodesia, furono innumerevoli i tentativi di dimostrare che il Great Zimbabwe fosse opera di genti provenienti dal bacino mediterraneo e di volta in volta esso fu attribuito ai fenici, ai greci, ai romani. Solo negli anni Trenta del Novecento, grazie a David Randall-Maclver e Gertrude Caton-Thompson, si riconobbe finalmente lo Zimbabwe, la più grande opera architettonica dell'Africa subsahariana, come il più alto prodotto tecnologico di una civiltà africana poi scomparsa in circostanze misteriose. 

Secondo l'ipotesi più diffusa, la parola Zimbabwe deriva da un'espressione usata dagli Shona, una popolazione di lingua bantu, che significa "case di pietra", ma per alcuni potrebbe voler dire "case venerate", a indicare le abitazioni dei sovrani o edifici religiosi. Comunque sia, il Great Zimbabwe è quel che resta di una straordinaria città costruita tra il XII e il XIV secolo. Erano secoli in cui quella regione africana godeva di particolare prosperità grazie al commercio dell'oro e dell'avorio, che venivano venduti in porti come Safala, in Mozambico, in cambio di merci provenienti dall'Oriente. Non è ancora chiaro se siano stati gli antenati degli Shona (o dei Lemba, o ancora dei Venda) a costruire le strutture le cui rovine occupano oggi una superficie di oltre 700 ettari, suddivise in tre complessi: la Great Enclosure, di gran lunga il più imponente, lo Hill Complex e il Valley Complex. La prima, forse l'abitazione di un sovrano, è una struttura ellittica del perimetro di 244 metri, dalle mura alte fino a 10 metri e spesse 5, per la cui costruzione fu impiegato un milione di blocchi di granito. Come nelle altre strutture del Great Zimbabwe, i blocchi di pietra perfettamente tagliati e levigati aderiscono l'uno all'altro senza alcun uso di calce. Ed è questo, forse, l'aspetto più sorprendente di edifici che si sono mantenuti inalterati per secoli, senza alcun materiale che tenesse insieme i diversi blocchi.  

Lo Hill Complex è a sua volta una struttura ovale, di circa 100 metri per 45, che comprende speroni rocciosi e grossi massi di granito. La struttura più grande è la Western Enclosure, con mura alte fino a 8 metri, sulle quali in origine si alternavano torrette e monoliti equamente spaziati. Le mura del Valley Complex dovevano invece racchiudere una cinquantina di abitazioni, appartenenti probabilmente alle persone più in vista della città, dato che la maggior parte della popolazione doveva risiedere in edifici di fango che non sono giunti fino a noi. Gli archeologi concordano sul fatto che, all'apice della sua prosperità, la civiltà del Great Zimbabwe contasse circa 20.000 abitanti, e ritengono che già nel XV secolo il luogo sia stato abbandonato, senza alcuna ragione apparente. In assenza di testimonianze scritte, e benché i popoli che abitarono la regione successivamente non possano contribuire a chiarirne la storia, è comunque certo che il Great Zimbabwe fu opera di una popolazione africana. Al punto da divenire l'orgoglio di un Paese che nel 1980, conquistata l’indipendenza, ne ha preso il nome, cancellando il ricordo di Cecil Rhodes dalla propria storia.

  LA STORIA DI GREAT ZIMBABWE

Fra il II e il IV secolo d.C. la zona fu raggiunta dal nord da tribù che praticavano in prevalenza la caccia e la raccolta. Subito dopo, e fino al 1050, si trasformarono in allevatori e agricoltori, ma durante il IX secolo Gran Zimbabwe divenne anche il centro di raduno per la deportazione in Arabia degli schiavi. Dopo qualche decennio presero il sopravvento popolazioni Mbire, gli antenati degli Shona, coltivatori di miglio, sorgo, piselli e fagioli e allevatori transumanti di bestiame. Nella terza e ultima fase di sviluppo, dal 1050 al 1450 (data dell'improvviso abbandono), gli Shona diventarono abili costruttori di edifici e recinti in pietra, distribuiti lungo le vie della transumanza quali luoghi di raduno e di ricovero, ma furono soprattutto commercianti. Infatti scambiavano l'oro delle miniere di Matala, il rame proveniente dal nord, l'avorio e gli schiavi con beni che gli Arabi producevano o si procuravano in India (tessuti) e in Cina (porcellane). 

La capitale di questo vasto regno era appunto Gran Zimbabwe, i cui edifici con robusti muri a secco di granito rispondevano, oltre che a criteri di difesa, anche al desiderio di suscitare prestigio e rispetto da parte degli stranieri. Poco dopo l'abbandono, gli edifici furono occupati dai Rowzi, abili nella lavorazione dei metalli, ai quali appartiene la maggior parte dei manufatti riportati alla luce; poi vi fu un ritorno all'allevamento e i recinti divennero ricoveri per il bestiame. Il ricordo dell'antica capitale e delle sue ricchezze era intanto diventato leggenda: nel 1552 Lo storico portoghese Joào de Barros nel suo libro Da Asia segnalava l'esistenza di miniere d'oro e di una città perduta con grandi edifici in pietra; notizie confermate più tardi da un altro autore, Joào dos Santos, che ipotizzò trattarsi della biblica località di Ofir. I Portoghesi non riuscirono mai a identificare il sito di Gran Zimbabwe, e solo nel 1867 il cacciatore Adam Renders e il geologo tedesco Karl Mauch ne riscoprirono le rovine. I successivi ricercatori saccheggiarono i reperti più preziosi, ma ciò che è rimasto (statuine, gioielli, ceramiche) ha consentito di datare il sito e assegnarlo con certezza alla cultura africana.  

COM'É OGGI GREAT ZIMBABWE

La prima ad essere occupata dagli Shona nel XIII secolo fu un'altura che domina la piana sottostante, chiamata Acropoli (o Fortezza della Collina), costellata da enormi macigni dall'aspetto spettrale. Seguendo la conformazione del terreno, una serie di muraglioni di granito racchiude la sommità della collina e consente l'accesso all'area interna tramite stretti passaggi e scalinate. Alcuni recinti sembrano avere avuto destinazioni diverse: a occidente, la residenza del sovrano e a settentrione, un'area sacra che ha restituito diverse statuine in steatite alte 35 centimetri raffiguranti l'uccello del tuono Mwali. Tuttora venerato dalla popolazione, il mitico dio-re è l'emblema dello Stato dello Zimbabwe. La presenza di un crogiolo indica il punto in cui veniva fuso l'oro. Sul lato meridionale, una grotta ha rivelato proprietà acustiche eccezionali: le parole pronunciate al suo interno si possono ascoltare benissimo nella valle sottostante e, soprattutto, nel Grande Recinto (o Tempio). 

Quest'ultimo, posto un chilometro più in basso rispetto all'Acropoli, è il  monumento più spettacolare del complesso. Un robusto muraglione ellittico in granito, della circonferenza di 250 metri e alto da 7 a 9 metri, racchiude all'interno un secondo muro parallelo incompleto, separato da uno stretto corridoio che conduce alla Torre Conica, la costruzione più enigmatica. Alta quasi 11 metri, ha una circonferenza alla base di 17 metri, che si riduce verso l'alto; è priva di aperture (porte, finestre) e scale, ma soprattutto è piena all'interno. A cosa poteva servire? Le ipotesi sono le più disparate, ma nessuna convincente: simbolo fallico, emblema religioso o della tribù, osservatorio astronomico, punto di vedetta, torre del fuoco sacro per inviare segnali ad altre località... Il mistero rimane. Nella sottostante Valle delle Rovine vi sono altri recinti delimitati da bassi muretti, le abitazioni delle mogli del re, depositi per le derrate agricole, capanne in mattoni crudi e tracce di numerose capanne di fango (daga) più recenti.  

ASCESA E DECLINO DI UN IMPERO

Le pareti e gli anfratti rocciosi di centinaia di siti dello Zimbabwe raccontano la storia dei primi uomini che hanno abitato la regione: le genti Khoisan (Boscimani), cacciatori-raccoglitori transumanti. Migliaia di anni più tardi, gli uomini vissero la rivoluzione del sedentarismo e dell'agricoltura (in cui le popolazioni originarie nomadi vengono respinte verso aree sempre più periferiche), e la loro storia si intrecciò con quella dello sfruttamento dell'oro e dell'argento, di cui la regione è ricca. Si consolida, attorno al III secolo d.C, la presenza delle genti Bantu-Shona, tribù di agricoltori e pastori che usavano strumenti di ferro e vivevano in capanne e villaggi. Ancora un migliaio di anni dopo gli altopiani centrali di quello che è oggi lo Zimbabwe erano completamente dominati da tribù Shona.

Siamo così giunti all'alba della cultura di Great Zimbabwe, quando cioè gli Shona si stabiliscono in una vallata attorno a grandi monoliti di granito. La regione scelta era particolarmente favorevole alla pratica della pastorizia, perché ricca d'acqua e di vegetazione anche nei mesi invernali (stagione secca). Nell'XI secolo si aggiunse lo sfruttamento delle miniere, che avviò, una volta aperta la via verso la costa, i primi rapporti commerciali con la Penisola Arabica, più tardi estesi al subcontinente indiano e alla Cina. In cambio di oro, argento, schiavi e avorio, le genti Shona degli altopiani ebbero stoffe, ceramiche, perline di vetro e ornamenti. I signori di Great Zimbabwe riuscirono così a controllare, grazie ai loro commerci ma anche grazie all'oro e alle miniere di ferro e rame (e grazie allo sviluppo della metallurgia, che permise loro di armare eserciti), un vasto impero, che si estese dal moderno Botswana a occidente all'Oceano Indiano e al Mozambico, a oriente, e dal fiume Limpopo a sud, allo Zambesi a nord, raggiungendo il suo apogeo attorno ai XIV secolo. Poi, nel XV secolo, quando i Portoghesi giungono a soppiantare i mercanti arabi e orientali, ha inizio un declino inesorabile, forse legato al fiorire di altre culture più a nord, lungo la vallata dello Zambesi (dove si erano aperte nuove vie commerciali verso la costa meno pericolose, più brevi e senza ostacoli) e più a sud, dove stavano emergendo nuove stirpi regnanti.

L’ABBANDONO DI GREAT ZIMBABWE 

Una leggenda degli attuali Balemba, discendenti degli Shona, narra che un tempo questa terra era il regno di Mwali, dio-re che nessuno poteva guardare, pena la morte; si potevano solo ascoltare le sue parole, pronunciate dall'alto di una collina e trasportate da un'eco paurosa. Alla sua scomparsa, lotte intestine indussero gli abitanti a fuggire e a fondare la nuova capitale di Dzata. Forse fu davvero una lotta tribale a determinare, nel 1450, la fuga da Gran Zimbabwe. Infatti le altre ipotesi (esaurimento delle terre coltivabili e della legna da ardere, crollo dei commerci, siccità) non persuadono. Bisogna rilevare tuttavia che nella città abbandonata non vi è traccia di incendi né di violenze, per cui l'evento resta per ora senza spiegazioni.  

UN MOSAICO DI GENTI, DAL LAGO VITTORIA AL NATAL

I Bantu sono un raggruppamento di etnie dell'Africa centro-meridionale, costituito essenzialmente sulla base dell'unità linguistica (oltre 600 «lingue», suddivise in più dì 50 gruppi). A questo insieme sono appartenute le prime comunità che utilizzarono il ferro in Africa, che gli archeologi - per semplificare - riconducono alla tipologia «Chifumbaze», dal nome di un riparo roccioso del Mozambico nel quale è stata rinvenuta per la prima volta una facies ceramica che si fa risalire alla prima età del Ferro. Datazioni al radiocarbonio indicano che la cultura bantu delle origini è comparsa in una regione attorno al lago Vittoria negli ultimi secoli prima dell'avvento di Cristo, e che, nei successivi trecento anni, si è diffusa per flussi migratori successivi verso il sud del continente, giungendo fino alla provincia del Natal in Sudafrica. 

Pur con aspetti diversi, le culture bantu sono caratterizzate da innovazioni importanti rispetto a quelle dei cacciatori-raccoglitori nomadi boscimani che le hanno precedute. I nuovi venuti fondano le proprie culture sulla pastorizia e l'agricoltura, costruiscono villaggi, producono ceramica e utilizzano la prima metallurgia. Alcune di queste tribù dettero vita a importanti e ragguardevoli strutture politiche, riconducibili a una base produttiva comune (agricoltura, pastorizia, artigianato) e a un'organizzazione sociale omogenea (clan, sotto­clan e tribù). Nelle regioni meridionali dello Zimbabwe, la prima cultura di tradizione bantu produttrice di ceramica fiorisce attorno al volgere del millennio a Nthabazingwe (Leopard's Kopje, nei pressi di Bulawayo). A Great Zimbabwe gli insediamenti iniziali, in un momento in cui non si riscontra ancora traccia di costruzioni in pietra, si possono ricondurre alla cultura «Chifumbaze» e, a partire dall'XI secolo, a quella di «Gumanye», di cui si tramandano ancora le tradizioni orali.