Fu nel 1871 che Uari Mauch, un
giovane
avventuriero
tedesco,
si
lanciò
nell'impresa
di
cercare
le
leggendarie
miniere
di
Ofir,
dalle
quali
la
regina
di
Saba
avrebbe
estratto
l'oro
per
costruire
il
trono
di
re
Salomone.
Arrivato
nel
cuore
dell'Africa,
venne
a
sapere
della
presenza
di
maestose
rovine,
appartenute
a
una
città
che
"non
avrebbe
mai
potuto
essere
costruita
dalle
popolazioni
locali".
Così,
il
5
settembre,
fu
il
primo
europeo
a
mettere
piede
nel
Great
Zimbabwe,
anche
se
continuò
a
pensare
che
quelle
gigantesche
costruzioni
fossero
una
testimonianza
del
mitico
regno
della
regina
di
Saba,
inseguendo
la
leggenda
alimentata
nel
1552
dall'esploratore
portoghese
Joào
de
Barros
con
il
De
Asia.
Nell'opera
era
descritta
una
fortezza,
costruita
con
immense
pietre,
che
secondo
il
narratore
avrebbe
dovuto
essere
la
reggia
di
Axum,
capitale
del
regno.
Nell'epoca
d'oro
del
colonialismo
europeo,
sotto
la
spinta
ideologica
di
Cecil
Rhodes,
fondatore
della
Rhodesia,
furono
innumerevoli
i
tentativi
di
dimostrare
che
il
Great
Zimbabwe
fosse
opera
di
genti
provenienti
dal
bacino
mediterraneo
e
di
volta
in
volta
esso
fu
attribuito
ai
fenici,
ai
greci,
ai
romani.
Solo
negli
anni
Trenta
del
Novecento,
grazie
a
David
Randall-Maclver
e
Gertrude
Caton-Thompson,
si
riconobbe
finalmente
lo
Zimbabwe,
la
più
grande
opera
architettonica
dell'Africa
subsahariana,
come
il
più
alto
prodotto
tecnologico
di
una
civiltà
africana
poi
scomparsa
in
circostanze
misteriose.

Secondo
l'ipotesi
più
diffusa,
la
parola
Zimbabwe
deriva
da
un'espressione
usata
dagli
Shona,
una
popolazione
di
lingua
bantu,
che
significa
"case
di
pietra",
ma
per
alcuni
potrebbe
voler
dire
"case
venerate",
a
indicare
le
abitazioni
dei
sovrani
o
edifici
religiosi.
Comunque
sia,
il
Great
Zimbabwe
è
quel
che
resta
di
una
straordinaria
città
costruita
tra
il
XII
e
il
XIV
secolo.
Erano
secoli
in
cui
quella
regione
africana
godeva
di
particolare
prosperità
grazie
al
commercio
dell'oro
e
dell'avorio,
che
venivano
venduti
in
porti
come
Safala,
in
Mozambico,
in
cambio
di
merci
provenienti
dall'Oriente.
Non
è
ancora
chiaro
se
siano
stati
gli
antenati
degli
Shona
(o
dei
Lemba,
o
ancora
dei
Venda)
a
costruire
le
strutture
le
cui
rovine
occupano
oggi
una
superficie
di
oltre
700
ettari,
suddivise
in
tre
complessi:
la
Great
Enclosure,
di
gran
lunga
il
più
imponente,
lo
Hill
Complex
e
il
Valley
Complex.
La
prima,
forse
l'abitazione
di
un
sovrano,
è
una
struttura
ellittica
del
perimetro
di
244
metri,
dalle
mura
alte
fino
a
10
metri
e
spesse
5,
per
la
cui
costruzione
fu
impiegato
un
milione
di
blocchi
di
granito.
Come
nelle
altre
strutture
del
Great
Zimbabwe,
i
blocchi
di
pietra
perfettamente
tagliati
e
levigati
aderiscono
l'uno
all'altro
senza
alcun
uso
di
calce.
Ed
è
questo,
forse,
l'aspetto
più
sorprendente
di
edifici
che
si
sono
mantenuti
inalterati
per
secoli,
senza
alcun
materiale
che
tenesse
insieme
i
diversi
blocchi.
Lo Hill Complex è a sua volta
una
struttura
ovale,
di
circa
100
metri
per
45,
che
comprende
speroni
rocciosi
e
grossi
massi
di
granito.
La
struttura
più
grande
è
la
Western
Enclosure,
con
mura
alte
fino
a
8
metri,
sulle
quali
in
origine
si
alternavano
torrette
e
monoliti
equamente
spaziati.
Le
mura
del
Valley
Complex
dovevano
invece
racchiudere
una
cinquantina
di
abitazioni,
appartenenti
probabilmente
alle
persone
più
in
vista
della
città,
dato
che
la
maggior
parte
della
popolazione
doveva
risiedere
in
edifici
di
fango
che
non
sono
giunti
fino
a
noi.
Gli
archeologi
concordano
sul
fatto
che,
all'apice
della
sua
prosperità,
la
civiltà
del
Great
Zimbabwe
contasse
circa
20.000
abitanti,
e
ritengono
che
già
nel
XV
secolo
il
luogo
sia
stato
abbandonato,
senza
alcuna
ragione
apparente.
In
assenza
di
testimonianze
scritte,
e
benché
i
popoli
che
abitarono
la
regione
successivamente
non
possano
contribuire
a
chiarirne
la
storia,
è
comunque
certo
che
il
Great
Zimbabwe
fu
opera
di
una
popolazione
africana.
Al
punto
da
divenire
l'orgoglio
di
un
Paese
che
nel
1980,
conquistata
l’indipendenza,
ne
ha
preso
il
nome,
cancellando
il
ricordo
di
Cecil
Rhodes
dalla
propria
storia.
LA
STORIA
DI
GREAT
ZIMBABWE
Fra
il
II
e
il
IV
secolo
d.C.
la
zona
fu
raggiunta
dal
nord
da
tribù
che
praticavano
in
prevalenza
la
caccia
e
la
raccolta.
Subito
dopo,
e
fino
al
1050,
si
trasformarono
in
allevatori
e
agricoltori,
ma
durante
il
IX
secolo
Gran
Zimbabwe
divenne
anche
il
centro
di
raduno
per
la
deportazione
in
Arabia
degli
schiavi.
Dopo
qualche
decennio
presero
il
sopravvento
popolazioni
Mbire,
gli
antenati
degli
Shona,
coltivatori
di
miglio,
sorgo,
piselli
e
fagioli
e
allevatori
transumanti
di
bestiame.
Nella
terza
e
ultima
fase
di
sviluppo,
dal
1050
al
1450
(data
dell'improvviso
abbandono),
gli
Shona
diventarono
abili
costruttori
di
edifici
e
recinti
in
pietra,
distribuiti
lungo
le
vie
della
transumanza
quali
luoghi
di
raduno
e
di
ricovero,
ma
furono
soprattutto
commercianti.
Infatti
scambiavano
l'oro
delle
miniere
di
Matala,
il
rame
proveniente
dal
nord,
l'avorio
e
gli
schiavi
con
beni
che
gli
Arabi
producevano
o
si
procuravano
in
India
(tessuti)
e
in
Cina
(porcellane).
La
capitale
di
questo
vasto
regno
era
appunto
Gran
Zimbabwe,
i
cui
edifici
con
robusti
muri
a
secco
di
granito
rispondevano,
oltre
che
a
criteri
di
difesa,
anche
al
desiderio
di
suscitare
prestigio
e
rispetto
da
parte
degli
stranieri.
Poco
dopo
l'abbandono,
gli
edifici
furono
occupati
dai
Rowzi,
abili
nella
lavorazione
dei
metalli,
ai
quali
appartiene
la
maggior
parte
dei
manufatti
riportati
alla
luce;
poi
vi
fu
un
ritorno
all'allevamento
e
i
recinti
divennero
ricoveri
per
il
bestiame.
Il
ricordo
dell'antica
capitale
e
delle
sue
ricchezze
era
intanto
diventato
leggenda:
nel
1552
Lo
storico
portoghese
Joào
de
Barros
nel
suo
libro
Da
Asia
segnalava
l'esistenza
di
miniere
d'oro
e
di
una
città
perduta
con
grandi
edifici
in
pietra;
notizie
confermate
più
tardi
da
un
altro
autore,
Joào
dos
Santos,
che
ipotizzò
trattarsi
della
biblica
località
di
Ofir.
I
Portoghesi
non
riuscirono
mai
a
identificare
il
sito
di
Gran
Zimbabwe,
e
solo
nel
1867
il
cacciatore
Adam
Renders
e
il
geologo
tedesco
Karl
Mauch
ne
riscoprirono
le
rovine.
I
successivi
ricercatori
saccheggiarono
i
reperti
più
preziosi,
ma
ciò
che
è
rimasto
(statuine,
gioielli,
ceramiche)
ha
consentito
di
datare
il
sito
e
assegnarlo
con
certezza
alla
cultura
africana.
COM'É
OGGI
GREAT
ZIMBABWE
La
prima
ad
essere
occupata
dagli
Shona
nel
XIII
secolo
fu
un'altura
che
domina
la
piana
sottostante,
chiamata
Acropoli
(o
Fortezza
della
Collina),
costellata
da
enormi
macigni
dall'aspetto
spettrale.
Seguendo
la
conformazione
del
terreno,
una
serie
di
muraglioni
di
granito
racchiude
la
sommità
della
collina
e
consente
l'accesso
all'area
interna
tramite
stretti
passaggi
e
scalinate.
Alcuni
recinti
sembrano
avere
avuto
destinazioni
diverse:
a
occidente,
la
residenza
del
sovrano
e
a
settentrione,
un'area
sacra
che
ha
restituito
diverse
statuine
in
steatite
alte
35
centimetri
raffiguranti
l'uccello
del
tuono
Mwali.
Tuttora
venerato
dalla
popolazione,
il
mitico
dio-re
è
l'emblema
dello
Stato
dello
Zimbabwe.
La
presenza
di
un
crogiolo
indica
il
punto
in
cui
veniva
fuso
l'oro.
Sul
lato
meridionale,
una
grotta
ha
rivelato
proprietà
acustiche
eccezionali:
le
parole
pronunciate
al
suo
interno
si
possono
ascoltare
benissimo
nella
valle
sottostante
e,
soprattutto,
nel
Grande
Recinto
(o
Tempio).
Quest'ultimo,
posto
un
chilometro
più
in
basso
rispetto
all'Acropoli,
è
il
monumento
più
spettacolare
del
complesso.
Un
robusto
muraglione
ellittico
in
granito,
della
circonferenza
di
250
metri
e
alto
da
7
a
9
metri,
racchiude
all'interno
un
secondo
muro
parallelo
incompleto,
separato
da
uno
stretto
corridoio
che
conduce
alla
Torre
Conica,
la
costruzione
più
enigmatica.
Alta
quasi
11
metri,
ha
una
circonferenza
alla
base
di
17
metri,
che
si
riduce
verso
l'alto;
è
priva
di
aperture
(porte,
finestre)
e
scale,
ma
soprattutto
è
piena
all'interno.
A
cosa
poteva
servire?
Le
ipotesi
sono
le
più
disparate,
ma
nessuna
convincente:
simbolo
fallico,
emblema
religioso
o
della
tribù,
osservatorio
astronomico,
punto
di
vedetta,
torre
del
fuoco
sacro
per
inviare
segnali
ad
altre
località...
Il
mistero
rimane.
Nella
sottostante
Valle
delle
Rovine
vi
sono
altri
recinti
delimitati
da
bassi
muretti,
le
abitazioni
delle
mogli
del
re,
depositi
per
le
derrate
agricole,
capanne
in
mattoni
crudi
e
tracce
di
numerose
capanne
di
fango
(daga)
più
recenti.
ASCESA
E
DECLINO
DI
UN
IMPERO
Le
pareti
e
gli
anfratti
rocciosi
di
centinaia
di
siti
dello
Zimbabwe
raccontano
la
storia
dei
primi
uomini
che
hanno
abitato
la
regione:
le
genti
Khoisan
(Boscimani),
cacciatori-raccoglitori
transumanti.
Migliaia
di
anni
più
tardi,
gli
uomini
vissero
la
rivoluzione
del
sedentarismo
e
dell'agricoltura
(in
cui
le
popolazioni
originarie
nomadi
vengono
respinte
verso
aree
sempre
più
periferiche),
e
la
loro
storia
si
intrecciò
con
quella
dello
sfruttamento
dell'oro
e
dell'argento,
di
cui
la
regione
è
ricca.
Si
consolida,
attorno
al
III
secolo
d.C,
la
presenza
delle
genti
Bantu-Shona,
tribù
di
agricoltori
e
pastori
che
usavano
strumenti
di
ferro
e
vivevano
in
capanne
e
villaggi.
Ancora
un
migliaio
di
anni
dopo
gli
altopiani
centrali
di
quello
che
è
oggi
lo
Zimbabwe
erano
completamente
dominati
da
tribù
Shona.
Siamo
così
giunti
all'alba
della
cultura
di
Great
Zimbabwe,
quando
cioè
gli
Shona
si
stabiliscono
in
una
vallata
attorno
a
grandi
monoliti
di
granito.
La
regione
scelta
era
particolarmente
favorevole
alla
pratica
della
pastorizia,
perché
ricca
d'acqua
e
di
vegetazione
anche
nei
mesi
invernali
(stagione
secca).
Nell'XI
secolo
si
aggiunse
lo
sfruttamento
delle
miniere,
che
avviò,
una
volta
aperta
la
via
verso
la
costa,
i
primi
rapporti
commerciali
con
la
Penisola
Arabica,
più
tardi
estesi
al
subcontinente
indiano
e
alla
Cina.
In
cambio
di
oro,
argento,
schiavi
e
avorio,
le
genti
Shona
degli
altopiani
ebbero
stoffe,
ceramiche,
perline
di
vetro
e
ornamenti.
I
signori
di
Great
Zimbabwe
riuscirono
così
a
controllare,
grazie
ai
loro
commerci
ma
anche
grazie
all'oro
e
alle
miniere
di
ferro
e
rame
(e
grazie
allo
sviluppo
della
metallurgia,
che
permise
loro
di
armare
eserciti),
un
vasto
impero,
che
si
estese
dal
moderno
Botswana
a
occidente
all'Oceano
Indiano
e
al
Mozambico,
a
oriente,
e
dal
fiume
Limpopo
a
sud,
allo
Zambesi
a
nord,
raggiungendo
il
suo
apogeo
attorno
ai
XIV
secolo.
Poi,
nel
XV
secolo,
quando
i
Portoghesi
giungono
a
soppiantare
i
mercanti
arabi
e
orientali,
ha
inizio
un
declino
inesorabile,
forse
legato
al
fiorire
di
altre
culture
più
a
nord,
lungo
la
vallata
dello
Zambesi
(dove
si
erano
aperte
nuove
vie
commerciali
verso
la
costa
meno
pericolose,
più
brevi
e
senza
ostacoli)
e
più
a
sud,
dove
stavano
emergendo
nuove
stirpi
regnanti.
L’ABBANDONO
DI
GREAT
ZIMBABWE
Una
leggenda
degli
attuali
Balemba,
discendenti
degli
Shona,
narra
che
un
tempo
questa
terra
era
il
regno
di
Mwali,
dio-re
che
nessuno
poteva
guardare,
pena
la
morte;
si
potevano
solo
ascoltare
le
sue
parole,
pronunciate
dall'alto
di
una
collina
e
trasportate
da
un'eco
paurosa.
Alla
sua
scomparsa,
lotte
intestine
indussero
gli
abitanti
a
fuggire
e
a
fondare
la
nuova
capitale
di
Dzata.
Forse
fu
davvero
una
lotta
tribale
a
determinare,
nel
1450,
la
fuga
da
Gran
Zimbabwe.
Infatti
le
altre
ipotesi
(esaurimento
delle
terre
coltivabili
e
della
legna
da
ardere,
crollo
dei
commerci,
siccità)
non
persuadono.
Bisogna
rilevare
tuttavia
che
nella
città
abbandonata
non
vi
è
traccia
di
incendi
né
di
violenze,
per
cui
l'evento
resta
per
ora
senza
spiegazioni.

UN
MOSAICO
DI
GENTI,
DAL
LAGO
VITTORIA
AL
NATAL
I
Bantu
sono
un
raggruppamento
di
etnie
dell'Africa
centro-meridionale,
costituito
essenzialmente
sulla
base
dell'unità
linguistica
(oltre
600
«lingue»,
suddivise
in
più
dì
50
gruppi).
A
questo
insieme
sono
appartenute
le
prime
comunità
che
utilizzarono
il
ferro
in
Africa,
che
gli
archeologi
-
per
semplificare
-
riconducono
alla
tipologia
«Chifumbaze»,
dal
nome
di
un
riparo
roccioso
del
Mozambico
nel
quale
è
stata
rinvenuta
per
la
prima
volta
una
facies
ceramica
che
si
fa
risalire
alla
prima
età
del
Ferro.
Datazioni
al
radiocarbonio
indicano
che
la
cultura
bantu
delle
origini
è
comparsa
in
una
regione
attorno
al
lago
Vittoria
negli
ultimi
secoli
prima
dell'avvento
di
Cristo,
e
che,
nei
successivi
trecento
anni,
si
è
diffusa
per
flussi
migratori
successivi
verso
il
sud
del
continente,
giungendo
fino
alla
provincia
del
Natal
in
Sudafrica.
Pur
con
aspetti
diversi,
le
culture
bantu
sono
caratterizzate
da
innovazioni
importanti
rispetto
a
quelle
dei
cacciatori-raccoglitori
nomadi
boscimani
che
le
hanno
precedute.
I
nuovi
venuti
fondano
le
proprie
culture
sulla
pastorizia
e
l'agricoltura,
costruiscono
villaggi,
producono
ceramica
e
utilizzano
la
prima
metallurgia.
Alcune
di
queste
tribù
dettero
vita
a
importanti
e
ragguardevoli
strutture
politiche,
riconducibili
a
una
base
produttiva
comune
(agricoltura,
pastorizia,
artigianato)
e
a
un'organizzazione
sociale
omogenea
(clan,
sottoclan
e
tribù).
Nelle
regioni
meridionali
dello
Zimbabwe,
la
prima
cultura
di
tradizione
bantu
produttrice
di
ceramica
fiorisce
attorno
al
volgere
del
millennio
a
Nthabazingwe
(Leopard's
Kopje,
nei
pressi
di
Bulawayo).
A
Great
Zimbabwe
gli
insediamenti
iniziali,
in
un
momento
in
cui
non
si
riscontra
ancora
traccia
di
costruzioni
in
pietra,
si
possono
ricondurre
alla
cultura
«Chifumbaze»
e,
a
partire
dall'XI
secolo,
a
quella
di
«Gumanye»,
di
cui
si
tramandano
ancora
le
tradizioni
orali.

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