Maison
de
la
Weissenhof-Seidlung
Il
quartiere Weissenhof (in tedesco Weißenhofsiedlung)
è
un quartiere costruito
a Stoccarda nel 1927,
in
occasione
dell'esposizione
organizzata
dal Deutscher
Werkbund.
È
stato
una
sorta
di
"vetrina"
internazionale,
per
mostrare
le
innovazioni
(architettoniche
e
sociali)
proposte
dal Movimento
moderno.
Il
comprensorio
includeva
ventun
edifici,
per
un
totale
di
sessanta
abitazioni,
progettate
da
sedici
architetti
europei,
la
maggior
parte
dei
quali
tedeschi. Mies
van
der
Rohe era
stato
incaricato
della
gestione
del
progetto,
in
qualità
di
direttore
architettonico
del
Werkbund,
e
fu
lui
a
scegliere
gli
architetti,
a
distribuire
i
lotti
e
i
fondi,
e
a
supervisionare
l'intero
progetto.
Le
Corbusier
ottenne
due
lotti
diretti
verso
la
città
e
il
budget
più
ampio.
Gli
edifici
non
variano
molto
nella
forma,
presentando
una
grande
coerenza
progettuale;
si
tratta
di case
a
schiera,
villette
e
blocchi
di appartamenti.
Le
caratteristiche
comuni
agli
edifici
sono
le
facciate
essenziali,
i tetti
piani,
adibiti
a
terrazza,
le finestre
a
nastro,
la
cosiddetta
"pianta
libera"
e
l'elevato
livello
di prefabbricazione,
che
permise
l'edificazione
del
complesso
in
soli
cinque
mesi.
L'esposizione
aprì
al
pubblico
il
23
luglio 1927,
con
una
notevole
partecipazione
di
pubblico.
Dei
ventuno
edifici
originari,
attualmente
ne
sopravvivono
undici.
Musée
National
des
Beaux-Arts
de
l’Occident

Il Museo
nazionale
d'arte
occidentale -
noto
anche
con
il
nome
inglese National
Museum
of
Western
Art,
sigla NMWA -
è
un
museo
di Tokyo,
situato
nel
distretto
museale
del parco
di
Ueno.
Si
tratta
dell'unico museo nazionale
interamente
dedicato
all'arte
occidentale in
un
paese
non
occidentale.
Il
museo
nacque
nell'aprile
del 1959 come
organizzazione
per
l'esposizione
al
pubblico
della
collezione
Matsukata,
restituita
qualche
anno
prima
dal
governo
francese.
L'apertura
al
pubblico
risale
al
giugno
di
quell'anno. Kojiro
Matsukata,
presidente
delle industrie
navali
Kawasaki per
32
anni,
fu
un
grande
collezionista
d'arte
sulla
scena
europea,
amico
di
intellettuali
e
pittori
soprattutto
a
Parigi
(tra
i
quali Monet e Rodin),
che
desiderava
offrire
al
suo
popolo
la
possibilità
di
ammirare
direttamente
i
capolavori
dell'arte
occidentale,
con
la
prospettiva
quindi
di
creare
un
museo
in
patria.
All'epoca
era
infatti
difficile,
per
i
giapponesi,
visitare
l'estero
e
la
circolazione
di
opere
d'arte
tramite
prestiti
ed
esposizioni
temporanee
era
cosa
molto
rara,
tanto
più
in
Giappone.
Dopo
aver
raccolto
una
vasta
collezione
di
arte
europea,
che
spaziava
dal
medioevo
ai
post-impressionisti,
e
circa
ottomila
esemplari
di Ukiyo-e giapponesi
(dal 1944 al Museo
nazionale
di
Tokyo),
nel 1920 spedì
una
prima
parte
della
sua
collezione
nel
suo
paese
di
origine,
dove
fu
esposta
con
un
grande
successo
di
pubblico
e
di
critica.
Tuttavia,
nel
marzo 1927,
il
fallimento
della Banca
Jugo,
che
finanziava
le
industrie
Kawasaki,
portò
la
compagnia
sull'orlo
del
fallimento,
che
venne
arginato
tramite
la
vendita
delle
opere
d'arte
di
Matsukata
già
in
Giappone.
Una
consistente
parte
delle
collezioni
dell'imprenditore
era
però
ancora
in
Europa,
tenuta
in
un
deposito
a
Londra
e
uno
a
Parigi.
Quando
Matsukata
si
preparava
a
spedire
questi
due
nuclei
superstiti,
venne
a
mancare
la
disponibilità
immediata
di
denaro
contante
per
finanziare
la
spedizione
e,
poco
dopo,
scoppiò
la seconda
guerra
mondiale,
complicando
estremamente
le
vicende
della
collezione.
La
parte
londinese
andò
infatti
distrutta
in
un
incendio,
mentre
quella
parigina
venne
infine
confiscata
dal
governo
francese,
che
la
dichiarò
di
sua
proprietà
come
parte
di
indennizzo
nei
confronti
di
un
Paese
sconfitto:
tale
atto
venne
ratificato
dal trattato
di
San
Francisco
nel 1951,
un
anno
dopo
che
Matsukata
era
deceduto.
Già
in
quell'occasione
però,
il
primo
ministro
giapponese Shigeru
Yoshida avviò
una
serie
di
contatti
e
trattative
per
ottenere
la
restituzione
della
collezione
Matsukata
al
popolo
giapponese.
I
negoziati
tra
i
due
paesi
proseguirono
per
molti
anni,
con
fasi
di
stallo.
Infine,
con
un
decreto
firmato
da Charles
de
Gaulle,
la
Francia
decise
di
fare
dono
unilateralmente
al
Giappone
della
collezione
Matsukata,
tenendo
tuttavia
solo
qualche
esemplare
volto
a
coprire
particolari
lacune
nelle
collezioni
d'arte
dei
musei
nazionali
francesi.
365
pezzi
d'arte
(di
cui
196
dipinti,
80
disegni,
26
stampe
e
63
sculture)
furono
destinate
così
al
Giappone
nel 1957 e,
nel
clima
di
relazioni
amichevoli
tra
i
due
paesi,
il
direttore
del Louvre Georges
Salles propose
che
fosse Le
Corbusier a
disegnare
l'edificio
museale
per
ospitare
la
collezione,
cosa
effettivamente
venne
messa
in
pratica,
grazie
anche
all'intermediazione
di
tre
studenti
giapponesi
assistenti
di
Le
Corbusier: Kunio
Maekawa, Junzo
Itakura
e
Takamasa
Yoshisaka,
ciascuno
poi
diventato
un
architetto
di
rilievo
nel
campo
dell'architettura
contemporanea
giapponese.
Le
condizioni
finanziarie
del
governo
giapponese
all'epoca,
impegnato
nella
ricostruzione
postbellica,
permisero
tuttavia
che
solo
una
parte
del
progetto
di
Le
Corbusier
fosse
creata,
ottenendo
una
superficie
espositiva
totale
di
circa
1533
metri
quadri,
compreso
il
cortile
antistante
l'edificio
in
cui
trovarono
posto
copie
della Porta
dell'inferno, Il
pensatore e
altri
bronzi
di Rodin.
L'istituzione
vera
e
propria
del
museo,
come
già
accennato,
avvenne
nell'aprile
del
1959,
quando
le
opere
d'arte
arrivarono
dalla Francia,
e
a
giugno
avvenne
l'apertura
al
pubblico,
che
rappresentò
uno
straordinario
successo:
nei
primi
dieci
mesi
di
apertura
furono
registrati
più
di
500.000
visitatori.
Negli
anni
successivi
la
collezione
si
arricchì
di
altre
donazioni
e
di
acquisti,
rendendo
necessario
l'ampliamento
dell'edificio,
progettato
nel 1967/1968 da
Maekawa
e
completato
nel
1979,
in
occasione
del
ventesimo
anniversario
dall'apertura.
La
nuova
ala
aggiunse
1525
metri
quadri
all'esposizione,
permettendo,
ad
esempio,
di
destinare
alcune
sale
alla
mostra
a
rotazione
di
opere
della
collezione
grafica.
Nel 1993 si
progettò
poi
la
creazione
di
uno
spazio
per
le
esposizioni
temporanee,
che
venne
completato
nel 1997,
mentre
nel 1999 venne
portato
a
termine
l'isolamento
sismico
dell'intera
struttura
museale
e
delle
sue
opere
monumentali
come La
porta
dell'inferno.
Nel
dicembre
2007
il
museo
possedeva
più
di
4500
pezzi
d'arte,
di
cui
370
dipinti,
136
acquarelli
e
stampe,
più
di
3700
stampe,
101
sculture
e
176
opere
di
altri
media.
Il
percorso
espositivo
è
fondamentalmente
diviso
in
due
tronconi,
che
rispecchiano
la
struttura
della
collezione
Matsukata.
Il
primo,
quello
più
consistente,
è
dedicato
alla
pittura
francese
del
XIX
e
XX
secolo,
con
opere
di
pittori
della scuola
di
Barbizon, impressionisti, post-impressionisti, simbolisti e fauves,
a
cui
si
aggiungono
una
serie
di
opere
di
pittori
più
legate
all'accademismo
o
alle mode
floreali
in
voga
negli
anni
di
Matsukata,
solo
di
recente
rivalutate.
Fanno
parte
di
questa
sezione
opere
di Delacroix, Courbet, Füssli, Corot, Millet, Manet, Monet (11
opere,
nell'arco
intero
della
sua
produzione), Renoir (3
opere), Gauguin (3
opere), Van
Gogh, Cézanne, Dante
Gabriel
Rossetti,
Signac.
Aggiunte
successive,
con
opere
di Picasso, Fernand
Léger, Max
Ernst, Joan
Miró, Jackson
Pollock e
altri,
portano
il
percorso
museale
fino
agli
anni
cinquanta
del
Novecento.
L'altra
sezione,
la
prima
che
si
incontra
nel
percorso
espositivo,
documenta
l'arte
europea dal Basso
Medioevo (un'icona
greca
di Andreas
Ritzos,
un San
Michele di scuola
senese e
altre
opere),
attraverso
il Rinascimento,
il secolo
d'oro
olandese
e
il barocco,
fino
al
XVIII
secolo.
Sebbene
non
in
grado
di
competere
con
le
collezioni
delle
grandi
istituzioni
europee
e
americane,
la
raccolta
documenta
tutto
lo
sviluppo
dell'arte
occidentale e
tutte
le
principali
scuole
(italiana, fiamminga,
olandese,
tedesca,
francese,
spagnola),
con
opere
di Cranach
il
Vecchio, Tintoretto, Veronese, Vasari, El
Greco,
Guercino,
Guido
Reni, Rubens, Van
Dyck, Jusepe
de
Ribera, Murillo, Georges
de
La
Tour, Claude
Lorrain, Tiepolo, Fragonard.
A
parte
è
la
collezione
di
sculture,
prevalentemente
di Auguste
Rodin,
di
cui
Matsukata
possedeva
ben
59
esemplari:
tranne
alcuni
bozzetti,
le
statue
esposte
sono
tutte
fusioni
tratte
fedelmente
dagli
originali,
rimasti
in
Francia.
Complexe
du
Capitole

Chandigarh,
la
“Città
d’argento”,
è
un
insediamento
urbano
di
nuova
fondazione
per
150mila
abitanti
(oggi
650mila),
adagiato
a
320
metri
di
altitudine
sul
Punjab-Haryana
Plains,
un
vasto
altopiano
desertico
ai
piedi
delle
Shivalik
Ranges
nelle
quali
si
stemperano
le
prime
pendici
himalayane.
È
concepito
come
un
organismo
funzionale,
ovvero
come
un
gigantesco
corpo
umano
metaforico
e
reale.
Il
tronco,
a
sud,
è
una
scacchiera
a
maglia
ortogonale
di
circa
cinquanta
isolati
o
“settori”
lunghi
ciascuno
1200
metri
e
larghi
800,
numerati
a
scendere
dalla
testa
(manca
il
tredici,
per
rispettare
la
tradizionale
superstizione),
e
distribuiti
su
114
chilometri
quadrati;
ciascun
Sector
di
circa
cento
ettari
è
parzialmente
autosufficiente
e
suddiviso
in
zone
corrispondenti
alle
classi
sociali
che,
secondo
una
consuetudine
antica,
dividono
la
popolazione
indiana.
All’interno
di
questa
griglia
urbanistica
concepita
per
potersi
espandere,
come
poi
è
successo,
secondo
necessità,
i
polmoni
sono
i
parchi
verdi
che
forniscono
ossigeno,
e
le
vene
e
le
arterie
sono
l’ordinatissimo
sistema
di
grandi
viali
che
garantiscono
il
fluire
della
circolazione
secondo
un
razionale
schema
viario
reticolare
gerarchico
nel
quale
i
percorsi
automobilistici
e
quelli
pedonali
sono
separati.
Qui
Le
Corbusier
applica
la
sua
“teoria
delle
sette
vie”,
codificata
nel
1948
ma
già
preconizzata
nella
Carta
d’Atene
del
1933
(pubblicata
nel
1941):
la
V1,
arteria
nazionale,
collega
Chandigarh
con
Delhi,
Simla
e
Lahore;
dalla
V1
si
stacca
la
V2,
strada
di
spina
orizzontale
sulla
quale
nel
primo
tratto
si
affacciano
installazioni
commerciali
a
scala
regionale
e
nel
secondo
musei,
università
e
svaghi
di
massa.
Un’altra
V2
verticale
e
ortogonale,
larga
100
metri,
sale
al
Campidoglio,
attraversa
a
metà
percorso
il
centro
degli
affari
sotto
cui
piega
a
gomito
e
sfocia
in
una
via
che
costituisce
il
limite
originale
della
città
dei
150mila
abitanti.
Ogni
settore,
poi,
è
circondato
da
una
V3,
riservata
alla
circolazione
automobilistica
veloce
e
priva
di
accessi
pedonali:
ogni
400
metri
la
via
si
apre
in
un
parcheggio
che
consente
il
contatto
con
l’interno
dei
settori.
La
V4,
invece,
attraversa
orizzontalmente
i
vari
settori
ed
è
la
strada
commerciale
e
artigianale
della
tradizione
indiana,
a
traffico
misto
pedonale
e
automobilistico
lento,
da
cui
si
staccano
le
V5
e
le
V6
che
arrivano
davanti
alle
abitazioni.
Le
V7,
infine,
sono
vie
pedonali
e
si
snodano
attraverso
le
larghe
fasce
verdi
dei
parchi
che
solcano
in
senso
verticale
ogni
settore.
I
visceri,
in
ultimo,
sono
invece
i
quartieri
degli
insediamenti
produttivi
che
forniscono
le
energie
per
la
vita
della
città.
A
nord,
alla
sommità
di
questo
corpo
e
in
direzione
delle
montagne,
c’è
la
testa
che
è
costituita
dal
quartiere
degli
edifici
amministrativi
pubblici
del
Capitol
Complex,
che
controllano
l’intero
organismo.
Si
dice
che
per
disegnare
la
struttura
organica
e
funzionale
di
Chandigarh
Le
Corbusier
avesse
preso
a
modello
gli
Champs-Elysées
del
barone
Eugène
Haussmann,
prefetto
della
Senna,
l’Acropoli
di
Atene
e
il
Campidoglio
di
Roma,
che
visitò
tra
il
1906
e
il
1914
in
un
Grand
Tour
di
studi
dell’architettura
classica:
una
visione
d’insieme
che,
per
la
verità,
è
apprezzabile
solo
in
volo,
o
nel
meraviglioso
plastico
di
progetto
che
oggi
occupa
buona
parte
dell’ufficio
del
supervisore
architettonico
alla
città,
il
Chief
Architect.
Lo
straordinario
capolavoro
indiano
di
Le
Corbusier
ripropone
nell’età
moderna
il
mito
rinascimentale
della
città
ideale,
che
racchiude
gli
edifici
di
maggiore
significato
architettonico;
a
destra,
il
Parlamento.
All’interno
dei
settori
gli
edifici
residenziali
sono
“democraticamente”
tutti
uguali,
e
sono
la
replica
della
celeberrima
Unité
d’habitation,
un
nuovo
tipo
edilizio
teorizzato
e
realizzato
a
Marsiglia
tra
il
1947
e
il
1952
3
nel
quale
gli
elementi
tecnico-architettonici
codificati
dal
grande
architetto
svizzero
(struttura
sollevata
su
pilotis,
finestra
a
nastro,
frangisole,
tetto-terrazza,
lontananza
dalla
strada,
spazi
verdi
sotto
l’edificio)
vengono
riorganizzati
socialmente
nella
logica
ergonomica
del
Modulor
in
edifici
seriali
ciascuno
da
trecentosessanta
alloggi,
muniti
di
servizi
comuni.
Le
cellule-appartamento,
di
tagli
diversi
per
rispondere
alle
esigenze
di
persone
sole,
di
coppie
senza
figli
o
di
famiglie
con
due
o
più
figli,
sono
disegnate
per
dare
la
quantità
minima
di
spazio
necessario
alla
vita
privata,
perché
la
maggior
parte
delle
funzioni
si
svolge
in
modo
comunitario.
A
metà
dell’altezza
dell’edificio,
infatti,
corre
una
“strada”
interna
lungo
la
quale
sono
disposti
i
servizi
collettivi
e
comuni:
ristoranti,
bar,
negozi,
camere
d’albergo
per
visitatori
e
locali
per
ricreazione;
altre
strutture
di
carattere
sociale
sono
ospitate
all’ultimo
piano
e
sul
tetto-terrazzo,
dove
ci
sono
asili-nido,
spazi
per
il
gioco
dei
bambini,
solarium,
piscine
e
palestre.

Oggi
queste
lunghe
stecche
sono
state
“indianizzate”
dai
residenti
che
non
sanno
di
abitare
in
un
luogo
mitico
dell’architettura
che
è
su
tutti
i
libri
di
storia
dell’arte,
e
si
presentano
in
un
triste
stato
di
degrado:
obiettivamente
dicono
poco
a
chi
non
sia
un
cultore
della
materia.
Straordinaria
è
invece
la
testa
o
Sector
1,
cioè
il
Campidoglio
(Capitol
Complex),
che
contiene
il
Segretariato,
realizzato
tra
il
1952
e
il
1958
e
sede
dei
governi
degli
Stati
del
Punjab
e
dell’Haryana,
il
Palazzo
dell’assemblea
o
Parlamento
(Assembly,
o
Vidhan
Sabha)
che
ospita,
a
giorni
alterni,
gli
organi
legislativi
dei
due
Stati,
e
il
Palazzo
di
giustizia
o
Alta
corte
(High
Court).
Insieme
al
Palazzo
del
governatore,
previsto
anch’esso
nella
testa
ma
mai
realizzato,
questi
imponenti
edifici
–
i
soli
di
tutta
la
città
che
superano
i
quattro
piani
–
sono
disposti
nello
spazio
rarefatto
della
spianata
del
Campidoglio
intorno
a
una
gigantesca
piazza
che
corona
a
nord
la
città
verso
l’Himalaya,
movimentata
da
numerosi
interventi
paesistici
e
simbolici
con
vasche
d’acqua
dalle
quali
si
erge
una
grande
scultura
raffigurante
una
mano
aperta
in
pacifico
segno
di
saluto:
alta
ventisei
metri,
di
metallo,
libera
di
girare
al
vento
su
un
lungo
perno,
l’icona
della
città
e
del
grande
maestro
è
la
mano
dell’uomo
del
Modulor,
una
mano
aperta
per
ricevere
e
donare,
come
scrisse
Le
Corbusier
che
la
disegnò
nel
1964,
un
anno
prima
di
morire.
L’insieme
è
notevole,
e
per
chi
sente
il
fascino
dell’architettura
moderna
è
una
visita
che
dà
i
brividi;
l’interno
del
Palazzo
dell’assemblea,
retto
da
pilastri
altissimi
che
sfidano
le
leggi
della
statica
e
sovrastato
nella
sala
centrale
da
un
immenso
lucernario
sostenuto
da
un
iperboloide
di
cemento
armato,
così
come
la
copertura
dell’edificio
dell’Alta
corte
di
giustizia,
protetta
da
un
lastrico
sospeso
di
calcestruzzo
che
è
metafora
del
“riparo”
della
Legge,
sono
esercizi
arditi
e
sublimi
di
altissima
ingegneria,
visioni
di
enorme
e
incontrollabile
emozione.
Immeuble
Clarté

Questo
edificio
alla
Rue
Saint-Laurent
2-4
del
quartiere
Villereuse
potrà
forse
sembrare
datato,
ma
alla
sua
costruzione
(1931-32)
sotto
il
grande
architetto
svizzero
Le
Corbusier
era
un'opera
d'avanguardia,
tutto
in
acciaio
e
vetro.
Lo
scheletro
metallico
ha
liberato
le
pareti
interne
da
qualsiasi
funzione
portante.
Nel
1932,
l'architetto
si
associa
a
un
fabbricante
di
oggetti
in
ferro
battuto
al
fine
di
realizzare
l'edificio
«La
Clarté»,
le
cui
pareti
di
vetro
lasciano
trasparire
la
luce.
Vero
e
proprio
capolavoro
avanguardista,
questo
edificio
è
oggi
classificato
monumento
storico.
Fatto
in
materia
al
contempo
rigida
e
fragile,
questo
edificio
è
chiamato
altresì
«casa
di
vetro».
Situato
nella
parte
alta
del
quartiere
des
Eaux-Vives,
l'edificio
ospita
48
appartamenti
e
uffici.
Petite
villa
au
bord
du
Lac
Léman
Questa
è
la petite
maison, progettata
nel
1923-24
da
Le
Corbusier
insieme
a
suo
cugino
Pierre
Jeanneret
per
i
suoi
genitori.
È una
piccola
abitazione
di
64
mq
che
sorge
sulla
riva
del
lago
Corseaux
in
Svizzera.
In
questo
caso
si
può
parlare
di
un’architettura “a
priori”.
Infatti
è
il
progetto
a precedere
il
luogo,
non
è
questo
ad
influenzare
il
primo.
L’abitazione
è
la
chiara
sintesi
di
alcuni
dei
punti
che
diventeranno
essenziali
nell’architettura
di
Le
Corbusier.
Non
è
un
caso
se
a Villa
Le
Lac si
associa
il
termine
“essenziale
e
purista”.
Di
quei
punti
espressi
quattro
anni
più
tardi
in
Ville
Savoye,
questo
progetto
prodromico
ne
esprime
già
tre:
il
roof
garden,
il
piano
libero
e
la
finestra
a
nastro.
L’architetto
concepisce
la
casa,
da
sempre
considerata
l’intimo
spazio
legato
al
primitivo
gesto
del
ripararsi,
come
una
macchina,
all’interno
della
quale
ogni
ambiente è
dimensionato
e
proporzionato
in
relazione
all’uomo.

In
questo
progetto
Le
Corbusier
pone
il
punto
su
alcuni
elementi che
per
lui
saranno
importanti,
come
l’attenzione
rigorosa
alla
proporzione,
l’uso
del
piano
libero
per
interni
(ottenuto
con
l’uso
del
calcestruzzo
armato)
la
funzionalità
di
ogni
spazio,
l’orientamento
legato
all’uso
della
finestra
a
nastro
e
il
giardino
pensile.
Quindi
è
proprio
questo
che
spinge
alla
progettazione
di
un
edifico
“puro”:
funzioni
specifiche
connesse
a
spazi
calibrati
in
base
alle
necessità.
La petite
maison è un
lungo
fabbricato
(16x4m)
su
un
unico
livello. Tutte
le
attività
quotidiane
di
una
coppia
di
anziani
sono
state
pensate
secondo
uno
spazio
minimo,
preciso
e
misurato:
soggiorno,
camera
da
letto,
sala
da
bagno,
salotto,
cucina,
lavanderia
e
guardaroba.
La
finestra
a
nastro
di
11
m,
posta
a
sud,
permette
al
sole
di
entrare
in
tutte
le
stanze
principali
e
incornicia
lo
scenario
del
lago,
della
valle
del
Rodano
e
delle
Alpi,
rendendoli
protagonisti
di
questi
spazi.
Se
all’interno
dell’abitazione
il
paesaggio
partecipa
in
maniera
quasi
prepotente,
ponendosi
in
continuità
con
l’abitazione,
all’esterno,
paradossalmente,
la
situazione
si
ribalta.
Nella
stanza
all’aperto,
al
contrario,
vi
è
un
alto
muro
su
cui
si
apre
una
sola
bucatura
di
forma
quadrata,
come
ad
incorniciare
un
dipinto
sul
paesaggio,
invitando
alla
contemplazione
dello
stesso.
La petite
maison di
Le
Corbusier
è
espressione
dell’essenza
dell’abitare,
problema
a
cui
l’architetto
trova
risposta
con
semplici
punti,
ponendo
grande
attenzione
sull’uomo,
unico
vero
protagonista
dell’atto
in
sè.
Riconosciuto
il
grande
valore
architettonico,
la
villa
nel
1962
è
stata
dichiarata
monumento
storico,
aperto
ai
visitatori,
proprietà
della Fondazione
Le
Corbusier in
gestione
al
comune
di
Corseaux.
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