Chichén Itzà
Messico

patrimonio dell'umanità dal 1988 

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Nel XVI secolo, il vescovo spagnolo Diego de Landa, a cui era stato affidato il compito di cristianizzare le genti maya dello Yucatan, apprese che queste si recavano regolarmente in un luogo sacro, meta di pellegrinaggi: qui, non lontano dalle rovine di un'antica città, si trovava un grande pozzo naturale, venerato dagli indigeni da tempi immemorabili. De Landa, nella sua "Relazione delle cose dello Yucatan", narra con raccapriccio di uomini e donne che venivano gettati vivi nelle scure acque del pozzo, chiamato "cenote" dagli spagnoli, in seguito alla corruzione della parola maya dzonot. Il religioso apprese che si trattava di sacrifici umani compiuti nell'ambito di un culto antichissimo, legato all'acqua e alla fertilità. 

Le contigue rovine appartenevano a una delle più prestigiose città del mondo maya che, a differenza di altre, non era mai stata del tutto abbandonata: 

Nel 1841, John Stephens e Frederick Catherwood vi si recarono e, dopo averne ritratto i monumenti più spettacolari, vi intrapresero le prime ricerche archeologiche. Queste furono in seguito riprese da studiosi statunitensi, quali Maler e Holmes e, nel 1900, dal celebre archeologo Edward Thompson, che giunse a immergersi nel Sacro Cenote. 

Le regolari campagne di scavo, che ebbero inizio negli anni Venti sotto la direzione di Sylvanus Morley, consentirono di riportare alla luce edifici grandiosi, strappandoli all'avanzare della vegetazione; oggi Chichén Itzà, che ancora non ha svelato tutti i suoi segreti, costituisce uno dei siti più famosi dello Yucatan e del mondo maya. 

Situata su un pianoro calcareo per una superficie di 300 ettari a nord-est della penisola dello Yucatàn, affacciata sul golfo del Messico, sorge Chichén Itzá. Al principio del X secolo nell'area centrale dell'impero maya cessarono le attività culturali che avevano caratterizzato il "periodo classico" (III-X secolo d.C). Le fonti maya, come il Chilam Balam, raccontano dell'arrivo nelle terre basse di gruppi estranei alla zona, capeggiati da Kulkulcdn. I Toltechi e gli Aztechi lo chiamavano Quetzalcoatl. Per i Maya, invece, era Kukulcàn. Il "serpente con le piume dell'uccello quetzal" - questa la traduzione del nome - era il protettore dei sacerdoti e dei sovrani, padrone della sapienza e dei venti. In un pantheon come quello maya, popolato di divinità sanguinarie, Quetzalcoatl-Kukulcàn non chiedeva ai fedeli altro che sacrifici di serpenti, uccelli e farfalle. E si credeva che un giorno sarebbe tornato sulla Terra per farne il suo paradiso. Tanto che il re azteco Montezuma II accolse amichevolmente Hernan Cortéz, credendolo quel dio. 

Nel IX secolo, molto tempo prima dell'arrivo degli spagnoli, il divino re tolteco Quetzalcoatl conquistò la più florida delle città maya dello Yucatàn. Questo, almeno, è quanto racconta una leggenda a proposito di Chichén Itzà. 

La data di fondazione di Chichén Itzá viene fatta risalire al 987. Il suo nome significa "bocca del pozzo degli itza", riferendosi alla particolarità di questo territorio carsico caratterizzato da grandi riserve d'acqua, cenotes, di forma circolare prodotte dal crollo della volta di grotte sotterranee dove scorre l'acqua che filtra dalla pietra porosa di superficie. 

In uno Yucatan prevalentemente arido la presenza di due larghi e profondi pozzi naturali, chiamati cenotes, che forniscono acqua in abbondanza, ha reso il sito particolarmente attraente per l'insediamento. Dei due cenotes il Cenote Sagrado è il più famoso. Secondo le fonti post-conquista, sia Maya che spagnole, i Maya precolombiani compivano sacrifici al dio della pioggia Chaac, gettando nel cenote sia manufatti che esseri umani. Il console statunitense Edward Herbert Thompson dragò il cenote negli anni tra il 1904 e il 1910, portando alla luce manufatti d'oro, di giada e di ceramica, così come resti umani con ferite compatibili con l'ipotesi dei sacrifici. 

Chichén Itzá ascese al predominio regionale verso la fine del periodo classico arcaico (approssimativamente il 600 d.C.). Fu comunque verso la fine del periodo medio classico e agli inizi del periodo classico finale che il sito divenne una grande capitale regionale, centralizzando e dominando politicamente, culturalmente ed economicamente la vita nelle pianure settentrionali dei Maya. L'ascesa di Chichén Itzá viene messa in relazione con il declino dei principali centri Maya delle pianure meridionali, come ad esempio Tikal.  

Alla fine del Periodo Classico, tra l'800 e il 950 d.C., quando le città maya dei bassipiani avevano cominciato la fase di decadenza e di abbandono, un gruppo di genti maya chiamate Itzà o Chontal, fortemente influenzate dalle culture del Messico settentrionale, diedero vita a un centro di modeste dimensioni, la cui importanza era legata soprattutto al culto del Sacro Cenote. 

I dati emersi dall'indagine archeologica, in accordo con le fonti storiche, testimoniano l'arrivo a Chichén Itzá di un nuovo gruppo di genti, i Toltechi, alla fine del X secolo d.C. Questi invasori provenivano da Tula, la città che, in seguito alla caduta di Teotihuacan, aveva svolto per alcuni secoli il ruolo di città egemone nell'Altopiano del Messico. Fonti storiche di matrice tolteca narrano che, inotrno al 987 d.C., numerosi abitanti abbandonarono Tula sotto la guida del sovrano Ce Acatl Topilzin, detronizzando dal crudele fratello Tezcatlpoca, e in seguito a un ungo viaggio attraverso i territori del Messico, giunsero nello Yucatan. 

Qui si stabilirono a Chichén Itzá, che assunse il ruolo di nuova capitale e venne abbellita con edifici grandiosi. Le fonti e la tradizione storica identificano Ce Acatl Topilzin con Quetzalcòatl, il Serpente Piumato del cui culto e della cui iconografia sono impregnati i monumenti di Chichén Itzá. I Maya dello Yucatan furono dunque indotti a venerare questa nuova divinitòà, inportata dai colonizzatori toltechi, che si affermò sui culti degli antenati con il nome di Kukulkàn, che sigifica proprio "Serpente dalla piume di quetzal". 

La leggenda tramandata sulla fuga di Ce Acatl da Tula, esiliato insieme ai suoi seguaci, trova un chiaro riscontro nell'archeologia attorno al 1000 d.C., infatti Chichén Itzá si trasformò in un centro urbano assai vasto, ricco di monumenti che denotano nell'insieme il sincretismo tra la cultura maya del Periodo Classico finale e quella tolteca. 

Al contrario di altre città Maya del primo periodo classico, Chichén Itzá non era governata da un singolo individuo o da una singola dinastia

L'organizzazione politica della città era invece strutturata attraverso un sistema cosiddetto multepal, caratterizzato dal governo di un consiglio composto dai membri delle famiglie più importanti.

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Chichén Itzá al suo apogeo era la maggiore potenza economica delle terre Maya settentrionali. Sfruttando le rotte marittime che circondavano la penisola dello Yucatan per mezzo del sito portuale di Isla Cerritos, la città riusciva a ottenere materie prime non disponibili localmente, come l'ossidiana dalle regioni del Messico centrale e l'oro dalle regioni del Centroamerica più a sud.

Le cronache Maya riportano nel 1221 una rivolta con una conseguente guerra civile, e le prove archeologiche sembravano confermare che le coperture lignee del grande mercato e del Tempio dei Guerrieri bruciarono all'incirca in quel periodo. Per Chichén Itzá iniziò il declino come città dominante dello Yucatan, soppiantata da Mayapan. Questa cronologia è stata tuttavia drasticamente rivista in anni più recenti. Da un lato una migliore conoscenza archeologica sui cambiamenti della ceramica nella regione, dall'altro un maggior numero di reperti databili con la tecnica del radiocarbonio giunti dagli scavi a Chichén Itzá , hanno spostato la datazione del declino della città all'indietro di due secoli, intorno al 1000 d.C.

Questa nuova datazione lascia un intervallo temporale inspiegato tra la caduta di Chichén Itzá e il sorgere del suo successore Mayapan. Le ricerche in corso nel sito archeologico di Mayapan potrebbero aiutare a risolvere questo enigma cronologico. La città non fu mai completamente abbandonata, tuttavia la popolazione diminuì e nessuna nuova importante costruzione venne eretta dopo il collasso politico. Il cenote sacro rimase comunque un luogo di pellegrinaggio. Nel 1531 lo spagnolo Francisco de Montejo conquistò Chichén Itzá con l'intenzione di farne la capitale dello Yucatan spagnolo, ma dopo pochi mesi una rivolta dei nativi Maya lo costrinse ad abbandonarla.

La città si sviluppava intorno a una piazza principale dove furono eretti i monumentali edifici sacri. L'architettura degli itza, a differenza di quella tipicamente maya, prevede la creazione di spazi interni molto ampi, mentre l'effetto di sviluppo verticale non aveva esigenze di funzionalità ma solamente di carattere estetico e finalizzato a provocare stupore in coloro che presenziavano alle funzioni, prevalentemente folle di soldati che, quindi, avevano bisogno di ampi spazi per riunirsi. La fusione della cultura maya con quella tolteca è evidente nell'uso contemporaneo di colonne riccamente decorate e coperture piane sostenute da travi. 

Le tre principali città del popolo itzà, Chichén Itzà, Uxmal e Mayapàn, si unirono in un'alleanza conosciuta come la lega di Mayapàn, che durò due secoli durante i quali l'influenza tolteca si diffuse in tutto il territorio dello Yucatàn partecipando alla formazione di una rete di strade commerciali, che si stavano intensificando fin dall'epoca classica. Ma nel 1194 esplose un conflitto e Mayapàn si impose su Chichén Itzà, che venne distrutta. Nel 1441 l'organizzazione di un movimento di rivolta da parte dei popoli soggetti fece crollare il sistema centralizzato della penisola, instaurando una serie di signorie locali troppo deboli per non cadere nelle mani degli spagnoli nel 1531. 

Le principali espressioni artistiche locali recano l'impronta di una classe dominante fortemente militarizzata rispetto a quella delle città maya dei bassipiani, fiorite nei secoli precedenti: a Chichén Itzá, così come a Tula, si percepisce chiaramente la presenza di quell'ideologia guerriera che caratterizzò le civiltà mesoamericane del Postclassico, sovrapponendosi a più antichi culti religiosi. L'influenza dello stile Puuc, proprio dei centri yucatechi del Classico finale, è riscontrabile solo in alcuni edifici posti nell'area meridionale del sito, che rappresentano l'ultimo richiamo artistico e culturale al mondo maya: i più importanti sono la Casa Colorada e l'Edificio delle Monache. 

Il primo colpisce per l'aspetto sobrio e severo della sua struttura: l'eleganza dello stile Puuc è manifestato solo nella parte superiore, arricchita da un fregio con mascheroni del dio Chac e sormontata da una cresta di colòo molto stilizzata rispetto a quelle del Periodo Classico.

L'Edificio delle Monache sembra invece nell'insieme piuttosto "barocco", con la facciata principale interamente ricoperta di greche in pietra e maschere connesse al culto di Chac e del Mostro terrestre; la sua architettura richiama, più di ogni altra a Chichén Itzá, quella dei palazzi di Uxmal. Sopra la porta centrale, una nicchia contiene una scultura a bassorilievo raffigurante un personaggio seduto, forse uno dei sovrani della città, sulla cui identità nessuna epigrafe ha lasciato testimonianza. 

Gli edifici annessi e la cosiddetta Iglesia rappresentano un monumentale omaggio al Dio della Pioggia, con numerosi mascheroni dalle fauci spalancate e fregi con serpenti stilizzati. Isolata sul portale orientale si trova invece una rara scultura di figura umana incorniciata da un ventaglio di piume. Le pareti del "monastero" e degli altri palazzi sono riccamente coperti di decorazioni Puuc.

I Toltechi inserirono alcune strutture nel vecchio nucleo maya come per esempio il Tempio dei Pannelli Dipinti, che recava immagini di guerrieri e giaguari. La Tomba del Gran Sacerdote (detta anche Ossario) era probabilmente dedicata al Dio Supremo Itzamná, rappresentato in veste di uccello-serpente che venne assimilato dai Toltechi a Kukulkán-Quetzalcóatl come divinità benefica. La Tomba del Gran Sacerdote consiste in una struttura piramidale costruita sopra un pozzo e nel suo interno sono state rinvenute sette tombe con numerosi scheletri accompagnati da ricche offerte.

Nel settore nord-occidentale della città si trova lo sferisterio, destinato al gioco della palla. Si tratta del campo più vasto tra quelli finora rinvenuti nella Mesoamerica: la corte misura circa 170 metri di lunghezza e circa 50 metri di larghezza, mentre i muri laterali - verticali e ornati da una fascia a forma di serpente - sono alti quasi 8 metri; gli anelli sono fissati ad un’altezza di 7 metri e mezzo. Guardando quei bersagli così alti viene spontaneo chiedersi come i giocatori potessero lanciare la pesante palla di caucciù fino lassù senza usare le mani, colpendola soltanto con i gomiti, le ginocchia e i fianchi.

Nel gioco della pelota di Chichén Itzá si fronteggiavano due squadre formate da sette elementi ciascuna e le loro immagini sono immortalate sui rilievi che corrono lungo la base dei muri: vediamo i giocatori protetti da larghe cinture che coprivano le parti vulnerabili, dalle anche alle ascelle, e da paracolpi sulle braccia e sulle ginocchia, e molte scene mostrano il rituale sacrificio dei perdenti per decapitazione. 

A seconda della tradizione locale i giocatori erano vestiti con costumi particolari: gli Zapotechi portavano un casco a forma di testa di giaguaro, dei lunghi guanti, pantaloni corti, fasce di cotone e ginocchiere. Nella cultura di El Tajín - che possiede ben quattordici Campi per la Pelota - la corazza protettiva era costituita da paracolpi sui fianchi, sul petto, sulle ginocchia e sui gomiti.

Si suppone che alcuni oggetti di pietra, finemente scolpiti e rinvenuti in vicinanza dei campi, fossero legati al sarcificio finale, oppure rappresentassero simbolicamente alcuni elementi della corazza: i jugos - dei massicci gioghi che proteggevano il ventre (nella realtà i cinturoni erano fabbricati in cuoio o cotone); le palmas, caratteristiche della cultura Azteca, a forma di ventaglio o foglia, che forse coprivano il petto, e le hachas, delle torce piatte scolpite con profili umani o animali, il cui uso è incerto.

Il sacro Gioco della Palla è stato praticato da tutte le culture mesoamericane. I primi campi da gioco risalgono alla civiltà Olmeca, la più antica del Messico, e il rituale venne poi trasmesso ai Maya, agli Zapotechi, ai Totonachi e agli Aztechi.

Il gioco era associato ad un’antica leggenda narrata nel libro dei Maya Popol Vuh che racconta il mito dei Gemelli Divini Hunahpu e Xbalanque: il loro padre aveva infastidito gli Dei dello Xibalba (il mondo sotterraneo), giocando per troppo tempo a palla con suo fratello e per punizione venne decapitato. Era riuscito tuttavia ad ingravidare una delle figlie degli dei dell’Inframondo che in seguito diede alla luce due gemelli. Hunahpu e Xbalanque si vendicarono della morte del padre ricomponendo i resti del suo cadavere sepolto tra gli spalti del campo da gioco e combattendo contro gli dei dello Xibalba per cacciarli per sempre dal mondo degli uomini.

Il gioco è legato anche al culto del Sole che deve rinascere ogni giorno abbandonando le tenebre: il campo da gioco rappresenta la terra, mentre la palla simboleggia il sole, per cui il giocatore che lascia cadere la palla deve essere sacrificato perchè ha impedito al sole di sorgere nuovamente.

Lasciando lo sferisterio e addentrandosi nell'area nord-orientale della città, si possono ammirare i complessi architettonici più maestosi e maggiormente impregnati di elementi culturali di origine tolteca. Lo Tzompantli, chiamato anche "Piattaforma dei Teschi", rappresenta forse il monumento più raccapricciante di Chichén Itzá, sconosciuto nella città maya del Classico e testimone di una civiltà ossessionata dai sacrifici umani. 

Si tratta infatti di una piattaforma rettangolare in pietra, i cui lati sono coperti da un fregio continuo, scolpito a bassorilievo e raffigurante file di teschi impalati. Tale struttura riproduce lo tzompantli originale, una sorta di palizzata di legno sulla quale venivano infilzati ed esposti i crani delle vittime decapitate. Si suppone che i macabri resti appartenessero a nemici catturati in battaglia, oppure ai membri delle squadre perdenti del gioco della palla, cui appunto veniva mozzato il capo. 

La presenza di monumenti analoghi è stata attestata, oltre che a Tula, anche a Tenochtitlan, la capitale dell'impero Azteco, i cui abitanti ereditarono gli usi e i costumi del popolo tolteco. 

A est del macabro edifico sorgono l'imponente Tempio dei Guerrieri e le contigue vestigia del cosiddetto "Gruppo delle Mille Colonne". La grande struttura piramidale a gradoni fu probabilmente innalzata nel XII secolo d.C., con la precisa volontà di costruire un edificio sacro identico a quello di Tlahuizcalpantecuhtli a Tula, dedicato a Venere nel suo aspetto di stella del mattino. 

Il tempio sorge su una bassa piramide a quattro livelli e una scalinata centrale, ornata da teste di serpenti piumati, consente l'accesso alla sommità, dove si eleva la cella del santuario vero e proprio, i cui pilastri istoriati sorreggevano il tetto oggi scomparso. 

Due gigantesche colonne serpentiformi fiancheggiano l'entrata del santuario: il mostro dalle fauci spalancate e dal corpo ricoperto di piume raffigura ancora una volta Kukulkán-Quetzalcóatl, il Serpente Piumato della mitologia. Una leggenda su Kukulkán-Quetzalcóatl vuole che l’eroe sia asceso al cielo trasformandosi in Stella del Mattino, cioè nel pianeta Venere. 

Tra le due colonne è posto il Chac mool che, come lo tzompantli, rappresenta un'innovazione culturale apportata dai colonizzatori toltechi. Si tratta di un altare monolitico antropomorfo, sul quale, ancora all'epoca della Conquista, venivano immolate le vittime destinate al sacrificio. 

I quattro corpi che formano la struttura della piramide, realizzati secondo i moduli del talud e del tablero di origine teotihuacana, sono ricoperti di fregi scolpiti: alle immagini destinate a esaltare la potenza degli ordini militari toltechi, l'Ordine delle Aquile e quello dei Giaguari, si alternano scene di crudeli sacrifici. 

Nel 1841, Stephens scoprì all'interno del tempio un ciclo di pitture parietali, purtroppo in pessimo stato; riuscì tuttavia a individuare la raffigurazione di una battaglia navale. 

Il Tempio dei Guerrieri è affiancato dalla sala chiamata delle Mille Colonne per la selva di colonne di pietra disposte su più file, che in origine sorreggevano i soffitti a falsa volta di enormi saloni ipostili. Il fusto delle colonne è costituito da blocchi cilindrici o parallelepipedi, generalmente decorati a bassorilievo. 

La colonna come elemento portante, sconosciuta ai Maya, venne importata dai Toltechi che l’avevano già sperimentata a Tula : con questa struttura, su cui poggiavano travi di legno che sostenevano un tetto in pietra, era possibile ampliare a piacimento le dimensioni di un unico ambiente.

Purtroppo le intemperie e l’umidità hanno fatto sì che le parti in legno si deteriorassero al punto da non reggere la pesante copertura che già all’arrivo degli Spagnoli giaceva disordinatamente sul suolo. 

Di fronte alle Mille Colonne si trova un altro edificio porticato, detto il Mercato, sul cui muro di fondo è rappresentata una processione di guerrieri incorniciata da serpenti piumati.

Per quanto i monumenti finora descritti siano di indubbio fascino, la principale struttura e il simbolo stesso di Chichén Itzá è il Castillo, chiamato così dagli spagnoli per l'imponenza delle sue proporzioni, che sorge isolato nel mezzo della grande spianata compresa tra lo sferisterio e il tempio dei guerrieri. 

La grande piramide maya-tolteca dedicata al re-eroe Kukulkán, fu il primo monumento costruito dalla tribù tolteca degli Itzá dopo il loro arrivo alla fine del X secolo.

Di dimensioni gigantesche, con una base di 55 metri per lato ed un’altezza di 30 metri, El Castillo è la celebrazione in pietra del divino Kukulkán-Quetzalcóatl: le quattro scalinate hanno i parapetti ornati da lunghissimi serpenti piumati le cui fauci si aprono nel piazzale sottostante, mentre le colonne del tempio sono serpenti a sonagli la cui coda sostiene un architrave. Kukulkán fa la sua apparizione nei giorni degli equinozi (a Marzo e a Settembre) quando l’ombra delle nove terrazze si proietta sul muro nord-ovest creando l’immagine di un serpente che striscia lungo la piramide.  

La piramide oggi visibile, formata da nove gradoni, ingloba un edificio più antico, risalente al X secolo, dalla struttura analoga, anch'esso a base quadrata, ma di più modeste dimensioni. Al suo interno sono stati trovati un Chaac Mool e un trono a forma di giaguaro, dipinto di rosso e decorato con dischetti di giada per simulare le macchie del manto.  

Il Castillo è sormontato da un santuario dotato delle tipiche colonne serpentiformi, cui si accede grazie alle quattro scalinate disposte al centro dei lati secondo i criteri delle antiche piramidi maya del Periodo Classico antico; occorre precisare che tale soluzione è poco frequente nell'architettura mesoamericana. 

L’importanza dei calcoli astronomici è ribadita in tutto il monumento: le quattro scalinate che scandiscono la piramide contano ognuna 91 gradini per una somma totale di 364; se vi aggiungiamo l’unico gradino del tempio il conto finale è di 365, l’esatto numero dei giorni di un ciclo solare.  

Secondo l'immaginario popolare rappresenterebbe la montagna dove la Prima Madre modellò con un impasto di mais i primi uomini. Sicuramente legato all'attività astronomica è l'edificio circolare che si erge su due piattaforme rettangolari del Caracol, letteralmente "lumaca" per la forma a chiocciola della sua copertura, e vera opera di ingegno architettonico e scientifico.

Proprio la forma circolare e le numerose finestre aperte nella torre e sistemate a spirale permettevano di osservare il movimento degli astri seguendone il percorso creato dalla rotazione della Terra.  

In cima alla Piramide del Castillo a Chichén Itzá la cella mostra i progressi dell'architettura nel periodo Maya-Tolteco. L'ampia cella è composta da tre navate con un soffitto a volta sostenuto da colonne quadrate decorate da bassorilievi. La fusione tra la cultura tolteca e quella maya è l’elemento caratterizzante di Chichén Itzá. Elementi locali, in particolare le decorazioni Puuc, concentrate nello scomparto superiore degli edifici, e quelle Chenes, che occupano l’intera facciata, si alternano a motivi di influenza esterna, anzitutto il serpente piumato Kukulcán, ma anche aquile, teschi e guerrieri.  

Come i raggi del sole, da El Castillo partono numerose "strade" maya in terra battuta o pavimentate a seconda dell’importanza - tra cui quella principale che conduce al Cenote Sacro, il grande pozzo di origine carsica nel quale venivano gettate le vittime in onore di Chac, dio della pioggia e della fertilità.

L'itinerario archeologico attraverso i resti di Chichén Itzá non finisce di stupire, oltre ai templi e agli eleganti palazzi ipostili, dove trionfa l'iconografia del Serpente Piumato e di culti sanguinari, oltre ai mercati e agli sferisteri, esiste un edifico la cui struttura ricorda l'antica vocazione dei maya per lo studio degli astri, nel quale eccelsero sopra ogni altro popolo. 

Questa singolare costruzione fu chiamata dai Conquistadores "Caracol", uno dei pochi edifici a pianta circolare del mondo maya e tolteco. Questa struttura era un osservatorio astronomico, con le porte allineate con la posizione del sole all'equinozio di primavera, con i punti delle massime declinazioni nord e sud della luna e altri eventi astronomici sacri a Kukulkan, il serpente piumato dio del vento e della conoscenza. 

I Maya determinavano il momento dei solstizi per mezzo delle ombre proiettate dal sole all'interno della struttura. La loro perizia nel calcolare lo scorrere del tempo li aveva portati a basarsi su un calendario solare di 365 giorni, con uno scarto infinitesimale su quello stabilito dagli astronomi moderni. Ai margini di El Caracol sono poste delle ampie coppe di pietra che venivano riempite d'acqua. L'osservazione delle stelle che vi si riflettevano aiutava gli astronomi Maya a determinare il loro complesso, ma estremamente preciso calendario.

Su un doppio basamento dagli angoli smussati venne costruito un edificio in semplici blocchi di pietra levigata scandito da quattro porte, mentre sul tamburo superiore furono applicate delle maschere di Chaac in corrispondenza delle aperture. Un ulteriore piano presenta invece delle finestrelle da cui forse si affacciavano i sacerdoti-astronomi per scrutare il cielo. Il nome Caracol ricorda la scala a chiocciola che, protetta da un muro circolare interno, porta al secondo piano. 

Situato a est del Caracol, Akab Dzib significa, nel linguaggio Maya, La casa delle iscrizioni misteriose. Un nome precedente dell'edificio, secondo una traduzione dei glifi della Casa Colorada, era Wa(k)wak Puh Ak Na, ossia la casa piatta con un eccessivo numero di stanze, ed era la residenza dell'amministratore di Chichén Itzá, kokom Yahawal Cho' K'ak'. 

Si tratta di una costruzione relativamente corta, alta solamente 6 metri, con una lunghezza di 50 metri e una larghezza di 15 metri. La facciata rivolta a ovest presenta sette porte, quella rivolta a est solamente quattro, interrotte da una larga scalinata che conduce al tetto. Questa era apparentemente la parte frontale della casa, e guarda verso un cenote, oggi asciutto. Il lato sud ha una sola porta, che si apre su di una piccola camera. 

All'interno si trovano le iscrizioni misteriose a cui l'intero edificio deve il suo nome attuale, intricati glifi in rilievo situati al di sopra di una delle porte interne. Nello stipite della porta c'è un altro pannello scolpito che rappresenta una figura seduta circondata da altri glifi.

In un mondo in cui tutto era permeato dal tocco divino e nessun atto poteva svolgersi senza prima conoscere il parere degli dei, i sacerdoti-astronomi erano tenuti nella massima considerazione, poiché gli allineamenti degli astri e dei pianeti venivano visti come incontri o scontri tra divinità che in tale modo esprimevano il proprio volere.

Al cospetto di questa superba dimostrazione dell'ingegnosità umana, è triste pensare che quando i conquistatori bianchi giunti dal Vecchio Continente si apprestarono a cancellare quanto ancora rimaneva della raffinata cultura maya, non trovarono nulla di meglio per giustificare tale scempio che bollare i nativi come "selvaggi incivili". 

Abbattendo i loro palazzi e bruciando in enormi roghi i sacri testi, accusati di essere blasfemi, i nuovi venuti non si accorsero neppure di distruggere conoscenze scientifiche e astronomiche di straordinario valore; conoscenze così avanzate da essere state superate solo in tempi moderni. Non sapremo mai dove avrebbe potuto giungere l'uomo, se ancora una volta a prevalere non fosse stata l'intolleranza: tuttavia, le vestigia del Caracol, di Chichén Itzá e, più in generale, di tutti i siti archeologici dell'America precolombiana, rimangono a terribile monito per il futuro della nostra razza.

LA RELIGIONE MAYA  

Le fonti letterarie redatte dai conquistadores e dai primi uomini di cultura che ebbero dei contatti con le civiltà meso-americane ricordano che, secondo la cultura maya, l'universo era stato creato dall'azione di energie divine per perpetuare la propria esistenza attraverso un essere che differisse dagli altri grazie alla consapevolezza di sé, l'uomo, e che divenisse grazie a ciò il fulcro del mondo.

Gli dei maya erano forze invisibili che potevano manifestarsi attraverso fenomeni naturali o assumendo sembianze sia animali sia umane e potevano materializzarsi nei simulacri eretti dagli uomini stessi. Dato che il cosmo era in costante movimento e cambiamento, anche gli dei potevano trasformarsi, soprattutto nascevano e morivano. 

Potevano essere quattro, come le direzioni del cosmo, tredici, come le divinità del cielo, nove, come le divinità del mondo sotterraneo. La decifrazione della scrittura maya ha permesso di conoscere il mito della creazione dell'uomo diffuso nel "periodo classico" (200-900 d.C). Secondo questa cosmogonia, scolpita sulle pareti dei templi della città di Palenque, il Primo Padre nacque nel 3114 a.C. Compì azioni prodigiose e vinse la morte resuscitando. La resurrezione dal Mondo di Sotto lo trasformò in una giovane donna di straordinaria bellezza che porta sulla terra i preziosi semi del mais.

Il  mais si ritrova anche nel mito tramandato dal Popol Vuh, un testo scritto in lingua quiche. Secondo questa versione la coppia primordiale degli dei pose fine al caos dell'universo ordinando il mondo e creando una coppia di Divini Gemelli. Costoro estrassero dalle montagne sostanze atte al nutrimento, mais giallo e bianco: lo macinarono per nove volte e con la preziosa farina modellarono il corpo dei primi uomini.