La
regione del Bengala, oggi divisa fra gli Stati dell'India e del
Bangladesh, è caratterizzata da un clima molto caldo e umido e da
un'alta densità di popolazione. Il fiume Gange, che poco prima di
arrivare in queste zone si è ingrossato per l'apporto del Brahmaputra,
mescola qui le sue acque con l'Oceano Indiano, formando il delta più
grande del mondo.
L’Islam nel cuore della
foresta - Condizionata dai fattori ambientali, la storia
della regione ha percorso spesso un cammino proprio, condividendo solo
per qualche periodo avvenimenti che hanno segnato il divenire del resto
dell'India. Perfino l'avvento dell'Islam ebbe qui modalità diverse.
Conquistato dai Musulmani nel XIII secolo, cento anni dopo il Bengala si
rese indipendente dal sultanato di Delhi e fu retto da sovrani turchi e
afgani fino a quando, nel 1576, venne sottomesso dal sultano Akbar,
detto il Gran Mogol. Rimase parte dell'Impero Moghul fino al 1765,
quando fu ceduto alla Compagnia Inglese delle Indie Orientali.
La
lunga autonomia del Bengala, pur non determinando l'abbandono
dell'Islamismo, ebbe tuttavia forti ripercussioni sull'arte, che poté
sviluppare forme proprie di espressione, lontana com'era dalle correnti
che condizionarono l'arte indo-musulmana occidentale. E lo fece
alimentandosi con le tradizioni locali indù, che si sovrapposero alla
cultura arabo-persiana dei conquistatori musulmani. Era ovvio che
l'introduzione dell'arte islamica nella selva bengalese richiedesse
l'adozione di regole nuove. I mattoni - che potevano essere facilmente
prodotti grazie all'abbondanza di fango nel delta e di legname per
alimentare le fornaci - divennero il materiale da costruzione per
eccellenza. I mausolei e le moschee ricordano più la struttura dei
templi brahmani che non quella degli edifici sacri del Vicino Oriente.
Fra i governanti musulmani che
ressero il Bengala durante il lungo periodo della sua indipendenza,
spicca, nella prima metà del XV secolo, il generale turco Ulugh Khan
lahan. Erede di una dinastia di guerrieri animati da un'ardente passione
religiosa, che risaliva ai tempi delle conquiste islamiche, Khan Jahan
condusse anch'egli la sua fede e la sua spada fino agli ultimi confini
dello spazio geografico che la storia gli aveva riservato. Dietro di sé
lasciò un'opera che gli sarebbe sopravvissuta: la città di
Khalifatabad.
Situata
alla periferia dell'attuale Bagerhat, Khalifatabad è oggi un complesso
di rovine danneggiate dalla fitta vegetazione, ma ancora abbastanza
solide da costituire una testimonianza dell'architettura indo-musulmana
in mattoni tipica del Delta del Gange.
Lo stile
dei suoi edifici rivela una mescolanza di influenze dove l'arte del
sultanato di Delhi si fonde con stilemi indù. La caratteristica
peculiare del complesso, tuttavia, è la sua struttura urbana. La città
manca di fortificazioni, rese inutili dalla protezione naturale offerta
dalla rete di acquitrini dei Sundarbans, ma possiede ottime
infrastrutture: strade, vicoli ben pavimentati, ponti e un efficace
sistema di raccolta e drenaggio dell'acqua.
Notevole,
infine, è la densità degli edifici religiosi in rapporto all'ampiezza
del tessuto urbano, fatto che giustifica in pieno l'appellativo di
"città-moschea" dato a Khalifatabad. In totale sono stati
catalogati più di cinquanta monumenti, raggruppati in due zone. La
prima si sviluppa intorno alla Moschea di Shait Gumbad, famosa per le 77
cupole e per il grande spazio destinato alla preghiera, suddiviso in
sette navate longitudinali. Comprende inoltre le moschee Singar, Bibi
Begni e Chunakkola. Nella seconda zona spiccano il mausoleo di Khan
Jahan e le moschee Reza Khoda, Zindavir e Ranvijoypur.
Palazzi
residenziali e altri edifici pubblici completano il tessuto urbano di
questa straordinaria città-moschea nata all'estremità orientale del
subcontinente indiano.