Petra
Giordania

PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1985

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Nel deserto giordano, a circa metà strada fra il Mar Morto e il Golfo di Aqaba, 190 chilometri a sud di Ammari, s'innalza dalla sabbia l'anello di rilievi rocciosi in arenaria di el-Khubtha, attraversato dal Wadi Musa (la "valle di Mosè") e solcato dalle acque di un torrente. Questa regione appartata e difficilmente accessibile era posta all'incrocio fra due antiche piste carovaniere, che la raggiungevano sull'asse nord-sud da Damasco e dall'Arabia meridionale e su quello est-ovest dal Golfo Persico e dall'Egitto. L'area fu frequentata prima del 1000 a.C. da tribù di Edomiti, ritenuti discendenti di Esaù; nella Bibbia si cita il luogo di Seta, che in ebraico significa "roccia", poi tradotto Petra in greco. Inoltre la tradizione indica che la tomba di Aronne, fratello di Mosè, sarebbe situata sulla collina del Gebel Haroun nei dintorni delle odierne rovine.

L'antica città, come dice il nome stesso, sorge in un anfiteatro naturale formato da alte rocce, un posto reso ancor più sicuro dalle strette gole di arenaria rosa che lo circondano e dall'unica, suggestiva via di accesso, l'angusta spaccatura del Siq, lunga quasi due chilometri, ma in alcuni punti larga solo due o tre metri e delimitata da ripide pareti alte quasi cento metri. 

Vuole la leggenda che proprio qui si trovasse il "sesamo" che Ali Babà aveva il potere di aprire. In una posizione naturalmente fortificata (le prime mura vennero costruite solo nel I secolo a.C), ricca d'acqua sebbene circondata dal deserto, Petra fu per secoli il punto d'incontro delle principali rotte delle carovane di cammelli che trasportavano pregiati carichi di spezie tra il Mediterraneo e il vicino Oriente, l'Africa, l'India, forse anche la Cina.

Nel 1812 l'esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt, che da anni viaggiava per il Vicino Oriente, decise di andare alla ricerca di alcune vestigia straordinarie di cui aveva sentito parlare durante un suo viaggio da Damasco all'Egitto. Vestito da umile beduino e con il pretesto di voler fare un sacrificio al profeta Haroun (Aaron o Aronne) si fece portare sulle montagne di Wadi Musa, la 'Valle di Mosè".

Dopo aver percorso un lungo tragitto attraverso una stretta gola tra le montagne (il Siq) gli si parò davanti uno spettacolo inatteso: la facciata di un monumentale tempio greco scavato nella roccia. Vicino, semisepolti dalla sabbia, si scorgevano altri monumenti: una strada affiancata da colonne, un teatro, un santuario... Burckhardt era arrivato a Petra, una città lontana dal mondo e dalla storia, ma testimone di uno splendido passato. 

Il viaggio di Burckhardt diede vita a un mito che assunse, per mano di viaggiatori e artisti successivi, le tinte tipiche dell'orientalismo del XIX secolo. La scarsità di fonti scritte ha reso piuttosto difficile la ricostruzione della storia degli abitanti di Petra. 

Oggi grazie all'archeologia sappiamo che le prime tracce di insediamenti stabili, risalenti al I millennio a.C, sono quelle degli Edomiti, una popolazione tribale a lungo rivale della dinastia ebraica. Il luogo fu poi abbandonato fino al VI secolo a.C, quando una popolazione di origine araba, i Nabatei, occupò la regione che prima era appartenuta agli Edomiti trasformando Petra in centro di incontro delle sue tribù.

LA CITTA' DEI NOMADI - Le prime testimonianze storiche sui Nabatei risalgono alla fine del IV secolo a.C. nella lotta per la successione al trono di Alessandro Magno. La Siria-Palestina era una zona strategica molto ambita sia dai re tolemaici egiziani sia dai Seleucidi dell'Asia. Fu per questo che nel 312 a.C. Antigono I Monoftalmo, sovrano dell'Anatolia centrale, organizzò una spedizione contro i Nabatei per il controllo di questo territorio. Ma sia Ateneo, suo luogotenente, sia suo figlio Demetrio Poliorcete fallirono. Diodoro Siculo narra che i Nabatei si rifugiarono nella "rocca" priva di mura difensive, ma con una sola via di accesso. Questa descrizione coincide con la morfologia di Petra e con il suo stretto passaggio di entrata, il Siq. Antigono dovette firmare la pace. Diodoro Siculo ci offre in questa descrizione storica la prima testimonianza sui Nabatei. Privi di un chiaro disegno politico e territoriale, erano rigorosamente nomadi, al punto di condannare a morte chi si opponeva a questo stile di vita. Si nutrivano di verdure, della carne e del latte delle loro pecore. Raccoglievano l'acqua in cisterne scavate nella sabbia, impermeabilizzate con stucco e accuratamente nascoste per non essere individuate. La profonda conoscenza del territorio permise loro di sopravvivere. 

Grazie al controllo che esercitarono sul commercio con l'Oriente divennero ricchi: commerciavano in prodotti di lusso come l'incenso, la mirra e le spezie che importavano dall'Arabia Felix (l'attuale Yemen) fino al Mediterraneo. In queste rotte commerciali carovaniere, Petra, che Antigono tentò di conquistare alla fine del IV secolo a.C, costituiva lo snodo principale di comunicazione e la tappa di tutte le vie carovaniere; al passaggio i Nabatei facevano pagare ingenti somme di denaro sotto forma di tasse doganali.  

Un'altra dimostrazione del buon livello di vita di questo popolo è data dal fatto che già nel 312 a.C. essi erano a conoscenza della scrittura: Diodoro afferma che i Nabatei, dopo la campagna di Ateneo, presentarono le loro richieste ad Antigono con una lettera scritta in "caratteri siriaci", cioè in aramaico, la lingua franca del Vicino Oriente del tempo. I Nabatei si servivano infatti di un tipo di aramaico che aveva forme grammaticali e lessico simili all'arabo moderno. che lo studioso tedesco Eduard Beer riuscì a decifrare nel 1840. Scarse e piuttosto povere restano però le testimonianze scritte: in esse si parla solo di aspetti molto concreti della religione (come i nomi degli dei), dell'organizzazione sociale e dell'onomastica nabataea. Non vi è nulla riguardo, per esempio, a narrazioni mitologiche o decreti.

L'importanza che i Nabatei attribuivano alla scrittura è avvalorata dall'esistenza del culto ad al-Kutbà, dio della scrittura e dell'arte divinatoria. Un altro dio del pantheon nabateo era Duchara, "signore di al-Sharah" (un monte a est di Petra), che divenne il dio protettore della dinastia reale. A lui era dedicato, come confermano numerosi studi, il principale tempio della città, detto dagli arabi Qasr al-Bint Faroun (il palazzo della figlia del faraone). Un'altra dea popolare era Al-Uzza, identificata con l'Afrodite greca e la Iside egizia. Il tempio a lei dedicato, detto dai Romani Afrodiseion, corrisponde con molta probabilità al tempio dei Leoni Alati, oggetto di studio negli anni 70. Al-Uzza formava una triade con Allath, dea della guerra, e Manat, dea del destino.  

L'ASCESA DEL REGNO NABATEO - Durante il periodo ellenico, i Nabatei mantennero una certa indipendenza dagli Stati vicini. Una dura lotta fu quella intrapresa contro i Tolomei d'Egitto per il controllo delle rotte del Mediterraneo e del Mar Rosso. I pirati nabatei attaccavano le navi egizie provocando la risposta del sovrano di Alessandria. Per appianare le controversie i due Stati richiesero probabilmente l'intervento di una mediazione straniera: questo spiegherebbe la presenza a Petra e ad Alessandria nel 129 a.C. dell'ambasciatore della città ionica di Priene, Mosquion. Il costante contatto con il regno tolemaico portò nel frattempo i Nabatei di Petra a imitare l'architettura ellenica e a introdurre il culto di Iside. 

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Neanche i Seleucidi riuscirono ad arrestare l'ascesa del regno nabateo. La campagna intrapresa contro di loro da Antioco XII nell'88-87 a.C. fu una totale disfatta e lo stesso Antioco morì nella battaglia di Caria. Il vincitore Obodas I, che morì poco dopo, fu sepolto nella nuova città nabatea di Obod (Avdat), venerato come il vero fondatore della dinastia del regno di Petra. Aretas III, il suo successore, espanse ulteriormente il territorio a danno dei Seleucidi. 

Quando nell'84 a.C. gli abitanti di Damasco minacciati dagli Iturei, tribù annessa alla vicina Giudea, chiesero aiuto a Aretas III, questi accorse prontamente e occupò la città. La moneta coniata per l'occasione raffigura la sua immagine con la dicitura greca di Filoheleno (Filoellenico), a imitazione della numismatica seleucida. 

Man mano che il regno seleucida si indeboliva, si andava rinforzando sia il potere del regno nabateo sia l'indipendenza dei loro vicini, gli Ebrei. Durante la rivolta dei Maccabei (noti anche con il nome di Asmonei) contro i Seleucidi (168-167 a.C.) i Nabatei, sotto la guida di Aretas I, appoggiarono gli Ebrei. Tuttavia di lì a poco i due popoli finirono con lo scontrarsi per il controllo dei territori limitrofi e i Nabatei furono coinvolti nei conflitti degli Asmonei, la dinastia che regnò in Giudea fino al 37 a.C. 

I Nabatei non poterono invece resistere allo stesso modo all'espansione del potere di Roma. Con l'annessione del regno di Pergamo (Asia Minore) nel 133 a.C, i Romani estesero le loro mire espansionistiche al Vicino Oriente e nel 64 a.C. Pompeo Magno si recò in Siria per spodestare Antioco XIII ed eliminare il regno seleucida. Pompeo, risoluto a porre fine ai continui conflitti tra Asmonei e Nabatei, dopo aver conquistato Gerusalemme intraprese una campagna contro il regno arabo. Mise a capo dell'operazione il suo luogotenente Marco Emilio Scauro, che nel 58 a.C. tornò a Roma dove fece coniare una moneta con l'immagine del re Aretas III genuflesso. In realtà Scauro, come era già successo ad Antigono I Monoftalmo, non riuscì a sconfiggere i Nabatei, che si erano trincerati nell'inespugnabile Petra, e trattò dunque la pace accettando dal re Aretas un versamento di 300 talenti per togliere l'assedio a Petra, che da quel momento divenne un regno vassallo di Roma.  

CAPITALE DEL LUSSO E DELLA RICCHEZZA - Con Aretas IV (9 a.C.- 40 d.C.) il regno nabateo conobbe il suo periodo di massimo splendore. L'immagine della vita a Petra che ci offre Strabone nella sua Geografia (I secolo d.C; risale esattamente a questo periodo. In essa abbondano particolari sulla ricchezza della regione, la magnificenza degli edifici, l'abbondante presenza di oro e denaro, la grande quantità di greggi di mucche e pecore e persino di fertili campi coltivati, un particolare che potrebbe risultare curioso per il visitatore moderno, ma che le recenti scoperte archeologiche hanno confermato. È stato in effetti rinvenuto un complesso sistema di canalizzazione che serviva non solo a fornire acqua agli abitanti, ma anche a mantenere cisterne e giardini in una città che aveva scoperto i vantaggi derivanti dalla pax romana di Augusto.

L'influsso della cultura ellenica si manifestò inoltre nel cerimoniale cortigiano di Petra. Sulla scia di Aretas III, il Filoellenico, i re adottarono titoli che ricordavano quelli di altri sovrani greci come "Colui che ama il suo popolo" o "Salvatore del popolo". Dal re dipendevano sua moglie (detta "sorella") e il primo ministro (chiamato "fratello"), che era la più alta carica dopo il sovrano; da lui dipendevano poi altre cariche, anch'esse con nomi greci come "lo Stratega", "l'lpparco" (il capo della cavalleria) o "lo Stratopedarca" (il generale imperiale). Pian piano anche nei documenti il greco cominciò a sostituirsi all'aramaico, gli dei del tempio nabateo si assimilarono a quelli greci (Dushara si confuse con Zeus e con Dionisio; al-Uzza con Afrodite) e l'elite nabatea cominciò ad adottare nomi greci a fianco di quelli tradizionali. 

Sembra strano che da un popolo un tempo caratterizzato dal sobrio stile di vita dei nomadi, garanzia di indipendenza, sarebbe nata una élite che lottava per accumulare ricchezza. Come testimonia Strabone, a Petra venivano multati coloro che perdevano denaro mentre quelli che aumentavano il loro patrimonio venivano ricoperti di onori e incarichi politici. 

Si introdusse anche la tradizione greca dei banchetti o simposi, come tipo di riunione della classe alta nabatea. Ai banchetti poi non poteva mancare il vino di Rodi, importato in grandi quantità, come testimoniano le numerose anfore provenienti da quest'isola, a partire dal III secolo a.C. rinvenute a Petra. 

I banchetti venivano celebrati con lusso estremo, ma secondo un rigido protocollo: erano ammessi non più di 13 commensali per ogni simposio, era permesso bere un massimo di 11 bicchieri di vino in coppe d'oro che venivano cambiate ogni volta e non vi erano schiavi poiché era il sovrano, garante di queste regole, a servire i suoi invitati.

Questo dimostrerebbe che, sebbene a Petra vi fosse la monarchia, vigevano anche alcune regole "democratiche" forse retaggio del tempo in cui i Nabatei erano un popolo nomade il cui capo non era altro che il primo tra simili (primus inter pares), ma potrebbe anche trattarsi di una parodia della vita della polis, la Città-Stato greca. Il re doveva render conto del suo operato ai suoi sudditi in assemblee che probabilmente si celebravano in posti come l'odeon del cosiddetto Gran Tempio di Petra. 

Strabone parla dell'importanza e dell'autorevolezza dei tribunali di Petra nel Mediterraneo: a conferma vi sarebbe una serie di papiri rinvenuti nel sud del Mar Morto e appartenenti a Babatha, una ebrea di Maoza (popolazione vicino al Mar Morto nell'attuale Giordania). Tra i documenti che Babatha decise di nascondere vi erano copie di contratti, sentenze e atti di tribunale inviati a Petra, le cui copie originali erano conservate nell'Afrodiseion di questa città.  

TEMPLI, TEATRI E VILLE - L'influenza della cultura greco-romana è evidente anche nei monumenti di Petra. Il primo edificio che si scorge quando si attraversa il Siq è quello che i beduini chiamarono Khazneh al-Faroun, "il Tesoro del Faraone", e che in realtà era la tomba di Aretas IV. La sua monumentalità barocca, propria dell'arte ellenico-romana, è un buon esempio dì come Aretas desiderasse creare un'importante capitale nabatea che fosse all'altezza di un grande regno ellenizzato sotto la protezione di Roma. E in effetti i principali monumenti che si possono ammirare oggi visitando Petra sono stati costruiti o ingranditi durante il suo regno, come il teatro e i due templi di Qasr al-Bint Faroun e dei  Leoni Alati.

Le abitazioni private di Petra confermano la trasformazione dei Nabatei da nomadi in stanziali. Strabone documenta il lusso di queste residenze in epoca romana. La maggior parte delle case non era costruita su una rete di strade, ma su terrazze naturali lungo la valle, scavate nella roccia. Ad Az-Zantur, un'area al di sopra della strada romana, si trovano i resti delle ville del I secolo d.C. che colpiscono non solo per l'ampiezza e per il numero di stanze (con terme, atri e bagni), ma anche per i resti di statue, marmi importati, mosaici e dipinti in stile pompeiano che ci lasciano immaginare il tenore di vita degli abitanti di Petra.

I successori di Aretas IV, Malco II e Rabel II, estesero questa politica di costruzioni monumentali ad altre regioni del regno. La capitale si trasferì più a nord, a Bosra, e altre città nabatee cominciarono a beneficiare di un periodo di prosperità. Nel frattempo la rivolta giudea del 66-70 d.C. e la crescente minaccia dell'estensione del vicino impero dei Parti spinsero Roma a rafforzare la sua presenza militare nel Vicino Oriente. La presenza sempre più consolidata dei Romani nella zona culminò infine nel 106 d.C., alla morte di Rabel II, quando il regno nabateo fu annesso alla provincia romana d'Arabia Petrea dall'imperatore Traiano. 

PETRA CITTA' ROMANA - Pochi anni dopo l'annessione, Traiano fece costruire la Grande Via Nova Traiana che attraversava la cosiddetta provincia d'Arabia passando da Petra.

L'intenzione dell'imperatore era quella di ridisegnare i confini dell'impero durante la sua campagna contro i Parti. Quando Traiano fece visita a Petra nel 114, il corteo imperiale percorse una strada porticata costruita in suo onore. La parata sboccò in un arco trionfale eretto per l'occasione, in cui lo si lodava come "il sovrano Cesare, figlio del dio Nerva, il divino Nerva Traiano Germanico Dacico Parrico Massimo".

L'antico regno nabateo costituì il nucleo di una nuova provincia romana: l'Arabia Petrea. Fu Bosra a essere eletta al rango di capitale della nuova provincia, ma Petra ricevette il titolo onorifico di "metropoli di Arabia" e il suo ruolo amministrativo fu tutt'altro che secondario, come dimostra un'iscrizione rinvenuta a Petra nella Tomba di Sesto Fiorentino, legatus augustus pro praetore nella provincia d'Arabia all'inizio del II secolo. Durante la sua brillante carriera questo funzionario prestò servizio in varie province dell'impero, ma morì a Petra mentre portava a compimento un censimento nella provincia d'Arabia. La città era anche sede di un conventus o distretto giudiziario. Nel 130 fu l'imperatore Adriano a visitare la città: in suo onore furono organizzate varie celebrazioni e in segno di riconoscimento il sovrano concesse l'onore di far chiamare la città Petra Hadriana. Alcuni decenni dopo vi si insediò la dinastia dei Severi che rafforzò i legami del potere imperiale con il Vicino Oriente: Settimio Severo, fondatore della discendenza, era sposato con Giulia Domna, figlia del sommo sacerdote di Baal della città siriana di Emesa. Non è da escludere dunque che all'inizio del III secolo l'imperatore Eliogabalo (la cui nonna era sorella di Giulia Domna) abbia concesso a Petra lo status di colonia romana. 

La fine dell'antichità a Petra fu segnata da un evento drammatico: un terremoto che nel 363 distrusse la via porticata e causò danni a numerosi edifici. Intanto in città era già giunto il cristianesimo e numerose sono le testimonianze che se ne hanno nell'architettura. Alcuni edifici (come il Monastero e la cosiddetta Tomba dell'Urna) furono consacrati a luoghi di culto cristiano e fu edificata anche una nuova chiesa dedicata a Santa Maria. Petra, orgogliosa del suo prestigioso titolo di metropoli, attrasse l'interesse della famiglia dell'arcivescovo Teodoro, figlio di Obodanos, i cui possedimenti si estendevano in tutta l'Arabia e la Siria-Palestina. 

La conquista musulmana della zona nel VII secolo vide il definitivo declino dell'antica capitale nabatea che, ormai ridotta a semplice villaggio, fu ben presto abbandonata. In seguito il luogo divenne solo un riparo per i beduini che sostavano tra le sue rovine durante le loro traversate. Fino a che non giunse sul posto Burckhardt e Petra rinacque a nuova vita nell'immaginazione degli appassionati di civiltà antiche. 

L'accesso a Petra, ieri come oggi, avviene soltanto a piedi (o a dorso di cammello) tramite la spettacolare, profonda e stretta gola del Siq, lunga 1600 metri, larga in certi punti meno di due metri e racchiusa fra pareti alte da 80 a 90 metri. Questo suggestivo percorso obbligato è reso ancor più emozionante dai colori che assume l'arenaria a seconda dei raggi del sole che vi penetrano durante il giorno, con tonalità che vanno dal rosa all'arancio e al rosso, dall'ocra al marrone. Il fascino del Siq colpì certamente anche i visitatori del passato: non a caso in una novella delle Mille e una notte questo è il punto che Ali Babà riuscì a superare pronunciando la formula magica "Apriti Sesamo", che gli consentì di impadronirsi del tesoro dei 40 ladroni. Ma di un altro leggendario tesoro si è favoleggiato a Petra. 

La gola sbocca all'improvviso in uno spiazzo, di fronte a una parete rocciosa occupata dall'imponente e scenografica facciata del Khazneh el-Faroun (il Tesoro del Faraone), un tempio funerario intagliato nella montagna che non ha eguali al mondo. Il contrasto tra il tenebroso Siq e la facciata delicatamente rosa del monumento è impressionante, la simmetria della facciata assoluta, le proporzioni di gusto squisito.

La facciata, alta quaranta metri e larga venticinque, è divisa in due piani, di cui quello inferiore è costituito da un portico a frontone, con sei colonne corinzie alte dodici metri e mezzo. Tra le due coppie di colonne esterne vi sono due colossali gruppi equestri realizzati ad altorilievo, ormai molto consunti. Il disegno del fregio consiste in una serie di grifoni affrontati, mentre il timpano, al cui centro stava un'aquila ad ali spiegate, è completato da una decorazione a volute, negli angoli dell'architrave due leoni hanno funzione di acroteri. 

Il secondo piano, di aerea eleganza, è diviso in tre elementi: al centro sta una tholos, quasi un tempietto rotondo in scala ridotta, tipico dell'architettura locale, con un tetto conico sormontato da un'urna. E' proprio da quest'ultima che l'edificio ha preso il suo nome arabo, cioè "Tesoro": i beduini pensavano infatti che all'interno vi fossero celate immense ricchezze e nel tentativo di impadronirsene indirizzarono più volte il fuoco dei loro fucili contro di essa, con l'intenzione di spezzarla. La tholos è affiancata da due semifrontoni, ciascuno sorretto da quattro colonne angolari..Nelle nicchie vi sono rilievi rappresentanti figure femminili, oggi purtroppo assai erose; quattro gigantesche aquile, infine, fungevano da acroteri. 

L'interno dell'edificio è costituito dal grande vestibolo, dal quale per mezzo di otto scalini si entra nella stanza centrale; questa sala è un grande vano cubico, di dodici metri di lato, affiancato su tre lati da stanze di minori dimensioni. Proprio la disposizione dei locali interni e la mancanza di un altare, oltre alla posizione del monumento nella stretta forra che certo non avrebbe reso agevoli le funzioni religiose, fanno supporre che il Khazneh el-Faroun fosse una tomba monumentale piuttosto che un tempio, come si era creduto in passato.

A proposito dell'annosa questione su quale fosse stata la reale funzione delle strutture allineante lungo la valle, occorre dire che approfondite campagne di scavo e studi accurati hanno permesso di appurare che gli usi a cui erano adibiti gli edifici rupestri erano molteplici e che alcuni di essi erano vere e proprie abitazioni, spesso costituite da una grande stanza con colonne e nicchie sui lati e una sorta di triclinio rialzato nel centro, alcune di queste case sono ornate con affreschi a tralci di vite e a motivi floreali. Pertanto, le tipologie costruttive presenti a Petra sono alquanto eterogenee e ciascuna di esse testimonia di un diverso periodo storico, nonché di un differente influsso culturale. 

I primi monumenti rupestri della città nabatea presentavano una facciata liscia, molto semplice, sormontata da una o due file di "merli" a scalini, nella quale si apriva inferiormente una porta, talvolta inquadrata da semicolonne; questo tipo di sepolcro, i cui esemplari più antichi si possono far risalire al III secolo a.C., costituiva un adattamento tipicamente nabateo di modelli diffusi nella vicina Siria. 

Durante i due secoli successivi si svilupparono modelli più complessi: all'origine di una simile novità stava l'adozione su larga scala di motivi architettonici ellenistici, quali il fregio, l'architrave e la lesena. Nel frattempo, era stato elaborato un particolare tipo di capitello, detto appunto "nabateo", e si andava manifestando un sempre più largo impiego di elementi strutturali a scopo puramente ornamentale. Il carattere estremamente provinciale dell'arte locale, sviluppatosi in una regione assai remota rispetto al bacino mediterraneo, in pieno deserto, giustificava tuttavia la persistenza di elementi autoctoni e ormai obsoleti nella decorazione, come le rosette e gli animali affrontati araldicamente. 

Nella seconda metà del I secolo d.C. comparve infine un nuovo tipo di facciata, che conobbe il suo massimo sviluppo nei decenni successivi. Al notevole arricchimento del repertorio figurativo a base architettonica si accompagnò allora quella ricerca di grandiosità scenografica che caratterizza la produzione di influenza romana: le facciate rupestri raggiunsero proporzioni colossali, con ordini di colonne sovrapposti a imitare prospetti di templi e quinte teatrali. A questo periodo di grande fioritura appartengono la Tomba del Palazzo e la contigua Tomba Corinzia, simile al Khazneh el-Faroun, ma con un piano intermedio più basso interposto tra il frontone e la tholos.

Poco prima di addentrarsi nel tessuto urbano si impongono all'attenzione le facciate monumentali di altre tombe rupestri come la tomba Corinzia, in cui gli elementi stilistici dell'ordine inferiore, più tipicamente nabatei, si oppongono a quelli ellenistici dell'ordine superiore che riprendono motivi del Khazneh, o la grandiosa e solenne tomba Palazzo, o ancora la più semplice tomba della seta, così chiamata per lo straordinario effetto cromatico delle venature della roccia in cui è stata scolpita. 

Quest'ultima appartiene al tipo più diffuso a Petra, tombe a forma di torre con la fronte decorata da un fregio a gradini (raffigurante due piccole scale opposte) o a merli disposti su una o due file, elementi di chiara derivazione orientale, assira o persiana; le partiture architettoniche, invece, sono costituite da semicolonne o pilastri sormontati dai caratteristici capitelli nabatei a corni. I due tipi di facciate rupestri, quello più complesso e quello più semplice, sono contemporanei: le trentaquattro tombe a frontone o a tempio sono da attribuire alla casa reale e alla corte, che si ispiravano ai modelli occidentali, ellenistico-alessandrini e romani, ampiamente diffusi nel I secolo a.C. in tutto il Vicino Oriente ellenizzato, invece le oltre seicento tombe del tipo più sobrio sono riferibili alla classe media che, più conservatrice nei gusti, privilegiava nelle sue scelte forme orientali. 

Se l'architettura funeraria rupestre, con le tombe dalle facciate riccamente intonacate o dipinte, come dimostrano alcune tracce ancora visibili di colore giallo, rosso e blu, rappresenta l'espres­sione più caratteristica della civiltà nabatea, non eguagliata per originalità, sfarzo e monumentalità da manifestazioni analoghe di altre civiltà del Mediterraneo quali gli etruschi, i liei e i frigi, ricerche archeologiche più recenti hanno portato alla luce anche interi quartieri di abitazioni, sia costruite che scavate nella roccia, ma che non presentavano alcuna decorazione architettonica in facciata. 

Notevoli sono anche le testimonianze di età romana: ai margini meridionali della valle sorge il teatro del I secolo d.C, quasi interamente scavato nella roccia, che poteva contenere più di ottomila spettatori, mentre alla fine del Siq si aprono i resti della via colonnata, una strada circondata da alte colonne su entrambi i lati, cui si accedeva tramite un arco: essa fungeva da ingresso monumentale per i mercanti e le carovane che giungevano in città, secondo un modello urbanistico assai diffuso nell'Oriente romano. 

Su un promontorio che domina a ovest la valle di Petra, raggiungibile grazie a una sorta di via Sacra a gradini tagliata nella roccia, si trova un altro edificio dall'imponente facciata scavata nella roccia: è El-Deir, o convento. 

Lo schema architettonico ripete quello del Khazneh, ma in modo meno articolato e meno ricco, così come gli ornamenti decorativi, capitelli a corni e fregio dorico continuo in cui le metope sono state sostituite da dischi, sono tipicamente nabatei: l'austerità e la semplicità del complesso concorrono a dimostrare l'originale rielaborazione locale di elementi della tradizione ellenistica. 

Per i caratteri della struttura architettonica l'edificio è stato avvicinato alla Biblioteca di Celso a Efeso, datata all'età adrianea (117-138 d.C). La struttura dell'interno è priva di qualunque installazione funeraria, ma presenta una piattaforma inserita in una nicchia aperta nella parete di fondo e limitata da pilastri e da un arco con cornice a stucco; inoltre lungo le pareti laterali sono stati rinvenuti i resti di due banchine, assimilabili a triclini cultuali. 

Considerando tutto questo e in più la posizione elevata del monumento, fin da epoca molto antica la collocazione più caratteristica in tutto il Vicino Oriente per i luoghi destinati all'epifania della divinità, gli archeologi sono giunti alla conclusione che l'edificio costituiva un luogo d'incontro per le cerimonie e i pasti sacri legati alla venerazione di un dio o di un dinasta divinizzata.