Grotte di Ajanta
India

 PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1983

 

Mentre la parabola dell’impero Gupta (240 – 550 d.C.) compiva il suo corso e prendevano forma le soluzioni architettoniche e scultoree che avrebbero generato l’arte dell’induismo, il mondo buddista entrava nelle sue fasi tarde. I monaci buddisti del Deccan, sotto il patrocinio di dinastie locali legate o meno al potere imperiale del Gange, diedero vita a straordinari complessi monastici, scavati in forma di insieme di grotte nei banchi di roccia vulcanica che formano la penisola indiana.

Nella regione nord-occidentale dell'India, corrispondente allo stato di Maharashtra avente per capitale Bombay, sorge lo straordinario complesso sacro di Ajanta: in una valle rocciosa attraversata da un corso d'acqua, il fianco semicircolare di una collina ospita una trentina di grotte scavate nella pietra e disposte su più ordini. La datazione di questo importante insediamento buddista è di difficile determinazione, dal momento che il centro di culto fu attivo dal I secolo a.C. al VII d.C, subendo nel corso dei secoli continue estensioni e abbellimenti. 

Ajanta si risvegliava da un sonno durato mille anni e fin dal primo momento fu oggetto dei sentimenti più contraddittori che un'opera d'arte possa suscitare. La squisita sensualità delle sue figure scandalizzò la puritana società vittoriana, quando le prime riproduzioni furono esposte al Crystal Palace di Londra.

Negli anni della lotta per l'indipendenza i dipinti di Ajanta divennero un'arma politica destinata a risvegliare l'orgoglio del popolo indiano per la propria tradizione culturale. Seguendo la campagna di non-cooperazione voluta dal Mahatma Gandhi, gli studenti delle scuole d'arte si rifiutarono di copiare le opere occidentali e preferirono ispirarsi alle pitture e alle sculture di Ajanta. In breve tempo assursero a capolavori dell'arte universale, paragonabili alle massime espressioni dell'arte europea.  

Il sito archeologico è costituito da una serie di trenta grotte scavate a vari livelli in un anfiteatro roccioso di 76 metri di altezza che si affaccia sul letto del torrente Waghora. Ritenuto sacro da tempo immemorabile, l'idilliaco luogo fu scelto dai monaci buddhisti per il ritiro durante il periodo monsonico. 

Le grotte, un tempo collegate singolarmente al torrente da scale in pietra o in legno e oggi raccordate le une alle altre da un camminamento in cemento, si estendono per mezzo chilometro: la 9, la 10, la 19, la 26 e la 29 sono chaitya, ovvero luoghi di culto, mentre le restanti sono vihara o sangharama, cioè monasteri adibiti ad abitazione. 

I chaitya sono riconoscibili dall'imponente facciata, dominata da un timpano che include un'apertura a ferro di cavallo, il kudu, sovrastante il portale d'ingresso, talvolta preceduto da un protiro sostenuto da due colone. Sulla facciata dei chaitya più tardi compaiono figure del Buddha in varie posizioni e di varie altezze, accompagnate da altri personaggi buddhisti. L'interno è generalmente a pianta rettangolare, con tre navate separate da colonne molto ravvicinate, la cui funzione è puramente ornamentale. La navata centrale è di larghezza doppia, absidata e con soffitto a carena rovesciata, mentre le laterali sono più basse e con soffitto a mezza botte o piatto. Al centro dell'abside, illuminato dalla luce che entra dal kudu, domina uno stupa (reliquiario campaniforme la cui forma deriva da quella del tumulo funerario eretto sui resti della cremazione del Buddha, in seguito assurto a simbolo cosmico), attorno al quale avveniva la deambulazione rituale, la pradakshina, effettuata tenendolo alla propria destra. 

I vihara si articolano in una grande sala centrale a pilastri, coperta da un soffitto piatto a cassettoni, sulla quali si affacciano su tre lati le celle dei monaci, minuscoli vani scavati nella roccia viva. Talvolta nella parete opposta a quella d'ingresso è inserita una cappella che ospita lo stupa e - nei vihara più recenti - la figura del Buddha. La sala è spesso preceduta da una veranda ipostila che si apre sulla facciata mediante uno o tre ingressi, riccamente ornata con decorazioni a intreccio che imitano gli intagli lignei.

Nei soffitti dei vihara prevale l’aspetto decorativo, con motivi floreali e astratti, e comparse solo episodiche di temi zoomorfi e umani. I vivaci colori e le rigide geometrie dei soffitti suggeriscono la comparsa dei paradisi celesti. Sulle pareti, invece, si estendono le composizioni ispirate alle vicende terrene della vita di Buddha e soprattutto a innumerevoli jataka, ossia le storie delle vite precedenti del Buddha Shakyamuni e degli altri Illuminati che lo avevano preceduto.

Le figure dei Buddha e dei Bodhisattva, in ossequio alla concezione soprannaturale che presiede alla generazione delle icone religiose, non venivano trattate in modo realistico, con giochi di luce e di ombre. Le figure sacre, al contrario, emettono la propria luce, a stento contenuta da sottili linee di contorno, e spiccano con forza come silhouettes sulle tonalità scure degli sfondi. I giochi di chiaroscuro sono limitati a modulazioni nei tratti del volto e anche gli occhi dei personaggi, spesso socchiusi, ricordano stati di meditazione e sembrano trattenere con difficoltà l’emanazione di arcane energie interiori

Alcune figure del Buddha recano principesche corone, segno del carattere universale del loro dominio. Non mancano poi i Nagaraja, i Re dei serpenti e degli spiriti ctoni, accompagnati dalle loro consorti, simboli delle antiche religioni e della conversione del mondo intero al credo di Siddarta.

Le figure sono atteggiate in pose morbide e flessuose, tipiche dell’arte del periodo Gupta, con i corpi appena coperti da tessuti diafani, immateriali, quasi a sottolineare il conforto della religione del Buddha e la naturalezza della sua condizione illuminata; i temi narrativi vertono intorno alla promessa dell’ottenimento del Nirvana, l’annullamento individuale nell’assoluto, la più elevata meta spirituale dei buddisti e soprattutto dei monaci che risiedevano nel complesso.

Nell’interno, attorno allo stupa e sui capitelli dei colonnati, si affacciano ancora altre immagini del Buddha, forse riflessi degli infiniti Buddha preposti agli infiniti mondi in cui, secondo i buddisti del Mahyana o Grande Veicolo, si dilatava l’universo. In origine, le sculture delle facciate, come quelle dell’interno, erano coperte di vivaci policromie, una componente fondamentale dell’arte indiana di ogni tempo. Mura, soffitti, pilastri compositi a figure geometriche sovrapposte, centinature, nicchie e statue erano vivacizzate dagli artisti tramite colori semplici ma contrastanti.

Le grotte più recenti, scavate tra la fine del V e gli inizi del VI secolo d.C., già anticipavano l’esuberanza figurativa degli sviluppi più tardi dell’arte buddista e induista. Nelle facciate, il portico viene sostituito da una più ambiziosa veranda che, con le sue ombre, funge da spazio intermedia tra l’assoluto esterno e l’oscurità della grande sala interna, che dà adito alle celle dei monaci e alla sala absidata con il colonnato interno e lo stupa. 

L’interno comunica un’inedita impressione di vastità: le sue superfici sono ora affollate di immagini di Buddha e Bodhisattva e, nella grotta 26, lo stupa stesso si trasforma in una specie di facciata templare dalla quale, tra fregi finemente scolpiti, si materializza la figura dello stesso Buddha, seduto in trono. Dallo stupa si affaccia una serie di ombrelli sovrapposti, simbolo della progressiva ascesi del fedele verso il Nirvana, che sembrano sfondare la volta stessa della sala, percorsa da una fitta trama di centinature che ne accentuano l’illusione di sfondamento spaziale.

Nella stessa grotta, si apre nella parete una grande scultura a sviluppo orizzontale, rappresentante il Buddha Shakyamuni nel Prininirvana, l’Ottenimento della salvezza. La scultura è un colosso lungo sette metri, che il fedele, costretto nel corridoio, poteva vedere solo poco a poco: quasi un’ammissione di umiltà da parte dello spettatore.

Nei monasteri vengono ora scolpite celle e nicchie nelle quali le immagini sacre ricorrono a profusione: da semplice luogo di raccoglimento, meditazione e cult, il monastero si trasforma in una materializzazione dei molti paradisi buddisti, dove il Buddha del Grande Veicolo insegnano ai Bodhisattva e quindi ai fedeli, tramite il dharma, le vie più opportune per il raggiungimento della salvezza. Molte delle celle interne ai monasteri diventano veri e propri sacelli: siamo di fronte a una dilatazione del ritualismo e delle pratiche devozionali.

Lo scavo delle grotte di Ajanta si articolò in due grandi periodi: il primo è collocabile fra il II e il I secolo a.C. e coincide con la dominazione della dinastia Shatavahana e con la diffusione del Buddhismo hinayana, o del "piccolo veicolo" (Grotte 8, 9, 10, 12, 13, 15); mentre il secondo, fiorito dopo una stasi di quattro secoli durante la dinastia locale dei Vakataka, fedeli vassalli dei principi Gupta, raggiunse l'apogeo nella seconda metà del V secolo d.C. sono ascrivibili all'ambito del Buddhismo mahayana o del "gran veicolo".

Tale datazione si basa su una serie di elementi: in primo luogo le iscrizioni votive, piuttosto numerose; quindi la comparazione della statuaria e della pittura con esempi affini già datati e l'osservazione dei soggetti trattati, collegati all'evoluzione del buddhismo; infine, l'analisi dell'ambiente raffigurato. 

Dimenticate per più di mille anni, le grotte di Ajanta furono riscoperte nel 1819 da John Smith, un soldato inglese del 28° Cavalleria, durante una battuta di caccia alla tigre. I primi maldestri restauri, eseguiti nel 1875 con vernice gialla, si devono a Griffith, mentre lavori assai più adeguati vennero condotti fra il 1930 e il 1955 sotto la direzione di Yazdani, direttore del centro archeologico di Hyderabad, assistito da due italiani, Orsini e Cecconi. 

Alcuni ambienti rimasti incompiuti permettono di comprendere il metodo di scavo: il lavoro iniziava dall'alto e il primo elemento a essere terminato era il soffitto. Si procedeva senza impalcature, asportando progressivamente il materiale con il piccone e lasciando in loco i blocchi che avrebbero poi costituito le colonne, elementi raffinatissimi che potevano avere fino a sessantaquattro facce. Il pavimento veniva realizzato per ultimo. 

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Più gruppi di esecutori lavoravano contemporaneamente alle finiture, alla stuccatura e alla pittura. La prima a essere ultimata era la facciata, con l'eventuale veranda; seguivano il vestibolo, la sala principale, le cappelle e le celle. Benché l'architettura e la statuaria rivestano notevole importanza, le grotte di Ajanta sono famose soprattutto per le loro pitture murali.

La tecnica è desunta dalla grotta n. 4, ove gli affreschi non sono terminati. L'esecuzione avveniva dopo che la parete rocciosa era stata pareggiata con uno strato di 2 o 3 centimetri di terra mista a sabbia, paglia tritata, fibre vegetali e talvolta peli di animali, il tutto lasciato ruvido in modo da offrire maggiore presa allo strato successivo, costituito da un impasto simile al primo, ma più fine. Il terzo e ultimo supporto erano costituiti da un sottile velo di calce, che serviva da intonaco ed era livellato con una spatola di legno. 

La sinopia era eseguita dapprima in polvere di ematite sullo strato umido, quindi, dopo avere passato una mano di bianco, ripresa con il cinabro. Si procedeva poi a campire le varie parti del disegno: è da notare che i colori sono sempre ben delimitati e non sfumano mai fra loro, in un tentativo di ricreare i volumi tridimensionali della scultura tramite un modellato tonale che scurisce le parti "vicine" e tondeggianti e schiarisce invece quelle più lisce e "lontane", con effetti di rilievo. 

I colori fondamentali impiegati, tutti di derivazione minerale o vegetale, erano cinque, rosso-ocra, nero-fumo, azzurro-lapislazzulo e bianco. Infine, si accentuavano i contorni liberi in nero o rosso; eventuali riprese erano eseguite a tempera a secco, purtroppo molto deperibile. 

La superficie veniva infine lucidata con un'agata o con un dente di elefante, in modo che la pressione facesse affiorare l'umidità, carica di particelle calcaree, dall'intonaco; questo sottile strato, cristallizzandosi, dava all'insieme la lucentezza dello smalto. 

I soggetti più comuni degli affreschi di Ajanta sono scene ispirate ai Jataka, i racconti delle vite precedenti del Buddha, inserite in un contesto che illustra il vivere quotidiano dell'epoca, nella città e nei villaggi, fra i ricchi e i poveri, in un campionario di abiti, gioielli, oggetti, ambienti e personaggi di incredibile varietà, che costituisce una preziosissima fonte di informazione ambientale e antropologica. 

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Attorno al mondo umano si agita quello divino, popolato non solo dalle figure del Buddha e dai bodhisattva, illuminati che restano nel mondo a soccorrere l'umanità, ma da tutti quegli esseri mitologici che il buddhismo eredita dal contesto indù: splendide ninfe e geni panciuti, esseri in parte animali e divinità celesti. Il profano si accompagna al sacro senza soluzione di continuità: il fascino del mondano sottolinea così la grandezza della rinuncia monastica.

I dipinti nelle 30 grotte di Ajanta, sono una straordinaria testimonianza artistica e religiosa. E, allo stesso tempo, sono cammei che forniscono una vivida immagine degli usi e costumi nell'India all'epoca della dinastia Gupta. Nelle più antiche, l'iconografia seguì i dettami della scuola Hinayana - in cui il Buddha poteva essere rappresentato solo mediante simboli - mentre in quelle dipinte più tardi a prendere il sopravvento fu la più libertaria scuola Mahayana, e le vite del Buddha vennero descritte in ogni dettaglio figurativo.  

Sono immagini bellissime, scene corali - di volta in volta serene, crudeli, sensuali, a volte con sottintesi erotici - animate da un'infinità di personaggi. Donne, uomini, demoni, creature dal volto umano e dal corpo di uccello (yaksha), suonatori (gandharva) e danzatrici celesti (apsara), insieme a fiori, frutti, alberi e animali. 

In molte delle grotte furono introdotti elementi architettonici e sculture che si fondono alla perfezione con i dipinti, creando spazi di grande suggestione. Notevole è anche il sincretismo iconografico delle pitture, dato che, soprattutto nel IV e V secolo - quando Ajanta ospitava stabilmente 200 monaci - a realizzarle furono in gran parte maestranze indù.  

Nel 1866 l 'artista inglese Robert Gill, che aveva trascorso 26 anni ad Ajanta per riportare le pitture su carta, vide il suo lavoro andare perduto nell'incendio del Chrystal Palace di Londra. 

Dieci anni dopo, un altro incendio divampato nel Victoria and Albert Museum ridusse in cenere le fatiche del suo assistente. E produssero più danni che benefici i primi, rozzi tentativi di restauro promossi nel 1920 dal nizam di Hyderabad, che a quel tempo regnava sul territorio di Ajanta. Oggi il sortilegio sembra terminato e l'opera di conservazione dell'Archeological Survey of India sta dando ottimi frutti.