Grotte di Ellora
India

 PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1983

 

Dakshinapata è il nome che gli indiani hanno dato alla via che tocca le principali mete di pellegrinaggio del subcontinente. Percorsa anche dalle carovane di mercanti, con il passare del tempo è stata dotata di una serie illimitata di monumenti, fatti erigere a testimonianza del fervore dei pellegrini, così come della ricchezza dei loro regnanti. Tra queste opere spiccano le grotte di Ellora, racchiuse nella collina basaltica di Charanadari, che s'innalza sulla piana del Deccan a poca distanza dall'odierna metropoli di Aurangabad. 

Le Grotte di Ellora rappresentano una delle ultime testimonianze di santuari rupestri, costruzioni sacre che erano molto diffuse nell'antica India. Sul versante occidentale di una collina, per una lunghezza di due chilometri e mezzo, si apre un totale di trentaquattro grotte artificiali, numerate convenzionalmente da sud a nord, appartenenti alle tre religioni principali dell'India.  

Chiamarle grotte, tuttavia, è riduttivo. E non rende merito né ai sovrani della dinastia Gupta, devoti committenti, né all'eccezionale valore culturale, religioso e artistico che esse rivestono. Si tratta, in verità, di un insieme di templi (chaitya) e monasteri (vihara) forgiati nella roccia e completi di un corredo scultoreo che "fotografa" il susseguirsi - e il sovrapporsi - dei culti buddhista, induista e giainista in India. 

Percorrendo la collina da sud a nord, s'incontrano dapprima le grotte buddhiste, le più antiche (VI-VIII secolo). Sono 12 in tutto e lo stile in cui sono state realizzate riflette il passaggio tra l'austera scuola Hinayana - che vietava rappresentazioni umane del divino - a quella Mahayana - in cui il culto si arricchì e si cominciarono a venerare una serie di bodhisattva, le reincarnazioni del principe Siddharta nel suo percorso verso l’illuminazione. Fino alla mistica scuola del Vajrayana, sorta quando il buddhismo entrò in competizione con l'induismo. 

Tra le grotte buddhiste la più maestosa è la numero 5, detta "Maharwada", che ha una sala lunga oltre 60 metri un tempo adibita a refettorio. Le sculture di maggior pregio si trovano invece nella numero 6 che contiene, tra l'altro, un'effigie di Mahayamuri, divinità della conoscenza, rappresentata assisa su un pavone, uccello che poi verrà assimilato a Sarasvati, dea induista dagli analoghi poteri. Il momento del trapasso tra buddhismo e induismo è invece evidente nella grotta numero 12, detta "Tìn Tala", un enorme vihara che si sviluppa su tre piani sovrapposti. 

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Il Giainismo, che in India ebbe sempre carattere minoritario ma stabile, è rappresentato a Ellora da cinque grotte la cui qualità artistica non è certo all'altezza degli altri santuari giainisti fondati da Mahavira nel V secolo a.C. L'architettura di queste grotte rispecchia quella delle vicine grotte induiste, fino al punto che il primo santuario, il numero 32 o Chota-Kailasa, è una copia in scala ridotta del Kailasanatha.

La decorazione scultorea, estremamente ricca, è basata su una tecnica a filigrana che ricorda le sculture in avorio e rappresenta le figure ieratiche dei tirthankara, predecessori di Mahavira, insieme ad altre divinità. Tra queste ultime spicca l'antichissima figura, già quasi dimenticata in quest'epoca, del dio ariano Indra.  

Ma nulla, nelle ascetiche grotte buddhiste, lascia ancora presagire la travolgente scenografia delle successive 17 grotte. Scavate tra il VII e la fine del IX secolo, sono in maggioranza dedicate a Shiva, il più potente e ambiguo tra le divinità che affollano il pantheon induista. Una di esse, la numero 16, con la sua roccia grigia ricoperta di stucco bianco a simboleggiare le nevi perenni, è una favolosa ricostruzione del Kailash, la montagna che la mitologia indica come la dimora del dio.

Voluta da re Krishna I Rashtrakutra (756-773), la grotta vanta il primato della struttura monolitica più grande del mondo. Per completarla sono stati necessari oltre cent'anni e oltre mille uomini che hanno rimosso 200.000 tonnellate di roccia. Ma le sue dimensioni ciclopiche - doppie, per fare un paragone, di quelle del Partenone - sono soltanto uno degli elementi che rendono unico l'insieme degli ambienti in cui è suddiviso. 

Oltre il portale si apre un patio circondato da un chiostro, nel cui centro si innalza il santuario del dio, preceduto da un santuario più piccolo dedicato al toro Nandi, il mezzo di trasporto di Shiva. Il santuario principale è sormontato da una cupola stratificata, a rappresentazione dell'Himalaya, eretta su un fregio con elefanti a grandezza naturale nell'atto di sostenerla. Al suo interno troviamo la cappella sacra che contiene il Unga (fallo), elemento derivato dagli antichi culti dravidici che l'Induismo assimilò come simbolo della forza creatrice di Shiva.

Gli artefici del complesso non hanno tralasciato di usare una cura "cinematografica" per ogni minimo dettaglio scultoreo. E dunque ogni bassorilievo è un capolavoro a sé. Tra tutti, quello che raffigura il terribile demone Ravana che, imprigionato nelle viscere del Kailash, tenta di liberarsi scuotendo ma montagna con la forza rabbiosa delle sue braccia mentre Shiva, tra il divertito e lo sprezzante, vanifica la sua opera usando appena l'alluce del suo piede sinistro per placare il terremoto. 

Le ultime quattro grotte della collina furono invece realizzate tra il IX e l'XI secolo, quando in India si cominciò a praticare il giainismo. Sebbene in esse si sia tentato di competere con le opere induiste, nessuna ne ha eguagliato la magnificenza. Piuttosto, nelle delicate decorazioni che appaiono come merletti, a colpire sono il senso di serenità che le pervade, così come la totale assenza di rappresentazioni violente. Del resto, i giainisti professano ancora oggi una pace "fondamentalista". Quella che fa indossare ai suoi monaci una benda davanti alla bocca, in modo che nessuna delle creature viventi possa essere disturbata, anche appena dal loro respiro.