Dakshinapata
è il nome che gli indiani hanno dato alla via che tocca le principali
mete di pellegrinaggio del subcontinente. Percorsa anche dalle carovane
di mercanti, con il passare del tempo è stata dotata di una serie
illimitata di monumenti, fatti erigere a testimonianza del fervore dei
pellegrini, così come della ricchezza dei loro regnanti. Tra queste
opere spiccano le grotte di Ellora, racchiuse nella collina basaltica di
Charanadari, che s'innalza sulla piana del Deccan a poca distanza
dall'odierna metropoli di Aurangabad.
Le
Grotte di Ellora rappresentano una delle ultime testimonianze di
santuari rupestri, costruzioni sacre che erano molto diffuse nell'antica
India. Sul versante occidentale di una collina, per una lunghezza di due
chilometri e mezzo, si apre un totale di trentaquattro grotte
artificiali, numerate convenzionalmente da sud a nord, appartenenti alle
tre religioni principali dell'India.
Chiamarle
grotte, tuttavia, è riduttivo. E non rende merito né ai sovrani della
dinastia Gupta, devoti committenti, né all'eccezionale valore
culturale, religioso e artistico che esse rivestono. Si tratta, in verità,
di un insieme di templi (chaitya) e monasteri (vihara) forgiati nella
roccia e completi di un corredo scultoreo che "fotografa" il
susseguirsi - e il sovrapporsi - dei culti buddhista, induista e
giainista in India.

Percorrendo
la collina da sud a nord, s'incontrano dapprima le grotte buddhiste, le
più antiche (VI-VIII secolo). Sono 12 in tutto e lo stile in cui sono
state realizzate riflette il passaggio tra l'austera scuola Hinayana -
che vietava rappresentazioni umane del divino - a quella Mahayana - in
cui il culto si arricchì e si cominciarono a venerare una serie di
bodhisattva, le reincarnazioni del principe Siddharta nel suo percorso
verso l’illuminazione. Fino alla mistica scuola del Vajrayana, sorta
quando il buddhismo entrò in competizione con l'induismo.
Tra le
grotte buddhiste la più maestosa è la numero 5, detta
"Maharwada", che ha una sala lunga oltre
60 metri
un tempo adibita a refettorio. Le sculture di maggior pregio si trovano
invece nella numero 6 che contiene, tra l'altro, un'effigie di
Mahayamuri, divinità della conoscenza, rappresentata assisa su un
pavone, uccello che poi verrà assimilato a Sarasvati, dea induista
dagli analoghi poteri. Il momento del trapasso tra buddhismo e induismo
è invece evidente nella grotta numero 12, detta "Tìn Tala",
un enorme vihara che si sviluppa su tre piani sovrapposti.


Il
Giainismo, che in India ebbe sempre carattere minoritario ma stabile, è
rappresentato a Ellora da cinque grotte la cui qualità artistica non è
certo all'altezza degli altri santuari giainisti fondati da Mahavira nel
V secolo a.C. L'architettura di queste grotte rispecchia quella delle
vicine grotte induiste, fino al punto che il primo santuario, il numero
32 o Chota-Kailasa, è una copia in scala ridotta del Kailasanatha.
La
decorazione scultorea, estremamente ricca, è basata su una tecnica a
filigrana che ricorda le sculture in avorio e rappresenta le figure
ieratiche dei tirthankara, predecessori di Mahavira, insieme ad altre
divinità. Tra queste ultime spicca l'antichissima figura, già quasi
dimenticata in quest'epoca, del dio ariano Indra.
Ma
nulla, nelle ascetiche grotte buddhiste, lascia ancora presagire la
travolgente scenografia delle successive 17 grotte. Scavate tra il VII e
la fine del IX secolo, sono in maggioranza dedicate a Shiva, il più
potente e ambiguo tra le divinità che affollano il pantheon induista.
Una di esse, la numero 16, con la sua roccia grigia ricoperta di stucco
bianco a simboleggiare le nevi perenni, è una favolosa ricostruzione
del Kailash, la montagna che la mitologia indica come la dimora del dio.
Voluta
da re Krishna I Rashtrakutra (756-773), la grotta vanta il primato della
struttura monolitica più grande del mondo. Per completarla sono stati
necessari oltre cent'anni e oltre mille uomini che hanno rimosso 200.000
tonnellate di roccia. Ma le sue dimensioni ciclopiche - doppie, per fare
un paragone, di quelle del Partenone - sono soltanto uno degli elementi
che rendono unico l'insieme degli ambienti in cui è suddiviso.

Oltre il
portale si apre un patio circondato da un chiostro, nel cui centro si
innalza il santuario del dio, preceduto da un santuario più piccolo
dedicato al toro Nandi, il mezzo di trasporto di Shiva. Il santuario
principale è sormontato da una cupola stratificata, a rappresentazione
dell'Himalaya, eretta su un fregio con elefanti a grandezza naturale
nell'atto di sostenerla. Al suo interno troviamo la cappella sacra che
contiene il Unga (fallo), elemento derivato dagli antichi culti
dravidici che l'Induismo assimilò come simbolo della forza creatrice di
Shiva.
Gli
artefici del complesso non hanno tralasciato di usare una cura
"cinematografica" per ogni minimo dettaglio scultoreo. E
dunque ogni bassorilievo è un capolavoro a sé. Tra tutti, quello che
raffigura il terribile demone Ravana che, imprigionato nelle viscere del
Kailash, tenta di liberarsi scuotendo ma montagna con la forza rabbiosa
delle sue braccia mentre Shiva, tra il divertito e lo sprezzante,
vanifica la sua opera usando appena l'alluce del suo piede sinistro per
placare il terremoto.
Le
ultime quattro grotte della collina furono invece realizzate tra il IX e
l'XI secolo, quando in India si cominciò a praticare il giainismo.
Sebbene in esse si sia tentato di competere con le opere induiste,
nessuna ne ha eguagliato la magnificenza. Piuttosto, nelle delicate
decorazioni che appaiono come merletti, a colpire sono il senso di
serenità che le pervade, così come la totale assenza di
rappresentazioni violente. Del resto, i giainisti professano ancora oggi
una pace "fondamentalista". Quella che fa indossare ai suoi
monaci una benda davanti alla bocca, in modo che nessuna delle creature
viventi possa essere disturbata, anche appena dal loro respiro.
