Una
leggenda, raccontata ancora oggi nel Madhya Pradesh, vuole che il
capostipite della dinastia Chandella sia il frutto dell'amplesso tra una
giovane e bellissima donna di casta brahminica e il dio della Luna. Si
narra che un indovino avesse intimato alla donna di andare a partorire
nei boschi di Khajuraho, predicendole che il figlio sarebbe diventato re
sconfiggendo una tigre a mani nude. E avrebbe scolpito per sé un regno
immenso e meraviglioso. Del resto, leggende simili sono piuttosto
comuni.
Alimentarle
è servito ai sovrani dell'antichità come legittimazione della loro
origine divina. E le dinastie che si succedettero nel Nord dell'India si
spartirono equamente in Chandra vamsha e Surya vamsha, ovvero in clan
generati rispettivamente dalla Luna e dal Sole. Antiche iscrizioni
rinvenute a Khajuraho rivelano che i Chandella derivano da Chandatreya,
figlio del saggio - e "lunare" - Atri. Sebbene questo nome sia
associato a una serie di capi clan sotto l'influenza dell'impero gupta
già dal VI secolo, soltanto nel IX secolo i Chandella fondarono un
regno indipendente che viss il suo periodo di massimo splendore tra il
950 e il 1050 e riuscì a mantenere la sua supremazia fino al XIII
secolo, quando fu sconfitto dalle truppe del sultano di Delhi.
Nel
secolo del loro apogeo, i Chandella eressero a Khajuraho 85 templi
scolpiti nell'arenaria - dei quali 20 giunti fino a no: - che
costituiscono uno degli esiti più alti dell'arte indiana di tutti i
tempi. Il primo a descriverne la straordinaria bellezza fu, intorno al
1335, il viaggiatore arabo Ibn Battuta, che giunse in un luogo detto
Kajarra e lì intrattenne una conversazione filosofica con saggi indù
dai lunghissimi capelli. Poi su Khajuraho non fu scritta più una riga
fino a 500 anni più tardi, quando il capitano T. S. Burt, geniere
dell'esercito britannico di stanza nel Bengala, li riscoprì. Ma il
primo occidentale a fornirne mappe e descrizioni dettagliate fu un altro
ufficiale inglese, Sir Alexander Cunningham, nella seconda metà
dell'Ottocento. Ed è di Cunningham la suddivisione dei templi nel
cosiddetto "gruppo occidentale" - nel migliore stato di
conservazione - e in altri due "orientali", a loro volta
divisi in induisti e giainisti a seconda delle religioni che vi si
praticavano.
Seppure
diversi per dimensioni, i templi hanno tutti il medesimo impianto
architettonico, che si rifà alla concezione induista dell'Universo, poi
mutuata anche dai giainisti. Costruiti su una piattaforma (simbolo del
mare e della terra abitata dagli uomini), rappresentano le dimore degli
dèi e si innalzano, anche fino a
35 metri
, in pinnacoli conici finemente scolpiti, detti shikhara. Sulle pareti
esterne e sullo shikhara dei templi Kandariya Mahadev e Lakshman - i più
spettacolari di Khajuraho -, per esempio, si contano circa 900 sculture
di divinità alte almeno un metro. Da un portale, anch'esso ricco di
sculture, si accede al sacrario del dio che invece è disadorno e sempre
in penombra, a simboleggiare la calma del nucleo dell'universo.
Ognuno
dei templi è dedicato a una specifica divinità ma, a parte il Varaha
mandapa e il Nandi mandapa che recano rispettivamente maestose sculture
di Varaha, il verro che è l'incarnazione di Vishnu, e di Nandi, il
vitello veicolo di Shiva, le attribuzioni non sono immediatamente
evidenti per chi non ha grande dimestichezza con lo sterminato pantheon
induista.
All'epoca della riscoperta di Khajuraho, sull'impero britannico
governava la morigerata regina Vittoria. E quei templi - sebbene venisse
riconosciuta la perizia con cui erano stati scolpiti - avevano suscitato
un forte imbarazzo. Se ne parlava come di opere immorali, indecenti,
altamente offensive, addirittura disgustose. La severità dei giudizi
era dovuta alla presenza di raffigurazioni erotiche - in cui nulla è
lasciato all'immaginazione -scolpite in posizione molto evidente sulle
facciate laterali e posteriori dei templi. Gli accademici vittoriani
dibattevano con veemenza circa il loro significato.
Secondo
i più intransigenti, Khajuraho era il simbolo di una fase decadente
della storia indiana, nella quale i valori morali erano caduti così in
basso che nei luoghi religiosi venivano celebrati gli istinti più
turpi. Altri, invece, reputavano che i templi fossero stati eretti da
una setta tantrica che praticava riti esoterici. Altri ancora, infine,
erano più propensi a credere che fossero una sorta di "guida
visuale" al Kamasutra, l'antico testo di arte amatoria indiana.
Tutti avevano torto. Le sculture - per così dire - osé di Khajuraho
non erano state realizzate con intento pornografico, bensì filosofico.
Uno dei miti induisti più diffusi riguarda infatti il matrimonio tra
Shiva, il dio multiforme e spietato che crea e distrugge, e Parvati, la
dea della passione e della sensualità.
Si
dice che sia stato Brahma a volere l'unione tra i due. Per favorirla,
inviò Kamadev, il cupido induista, da Shiva - che a quel tempo viveva,
ascetico, sulla montagna - perché lo colpisse con i suoi strali. Ma
questi non gradì l'intrusione e aprì il suo terzo occhio riducendo
Kamadev in cenere. In quel mentre, dalla montagna emerse il lingam -
sorta di obelisco dall'evidente simbologia fallica - a rappresentare che
soltanto tramite la rinuncia ai desideri terreni si può guadagnare la
vita eterna. Il mito ha però un lieto fine: Shiva si innamorò comunque
di Parvati e decise di sposarla. E la loro unione fu l'evento cosmico
che, secondo gli induisti, permette il perpetuarsi del ciclo della vita
e della morte di ogni essere umano.
I
Chandella eressero i templi di Khajuraho per rappresentare sulla terra
la cerimonia - detta Maha Shivatri - del matrimonio tra Shiva e Parvati.
Al di là delle figure erotiche, i meravigliosi edifici recano scolpiti
personaggi e momenti della processione nuziale, con file di elefanti
bardati a festa, musicanti e carri adorni di ghirlande di fiori,
sensuali figure femminili dal seno florido e ornato di gioielli,
ritratte come se l'evento le avesse coke di sorpresa, nello svolgimento
delle loro attività quotidiane. Donne che, con sguardo civettuolo, si
rimirano allo specchio, o si lavano i capelli, o si truccano gli occhi
con il kajal. O ancora, si massaggiano l'una con l'altra con l'unguento,
o si dipingono le piante dei piedi con l'henne. Un inno alla bellezza
femminile, immutata nel tempo; la si ritrova nei volti emozionati delle
donne di Khajuraho che ogni anno, per una notte intera, si recano ai
templi per rievocare - in un tripudio di inni, musica e danze -il
matrimonio sacro tra Shiva e Parvati.
I
templi di Khajuraho, per la maggior parte in arenaria, disseminati in
uno spazio aperto privo di cinte, sorgono su ampie piattaforme spesso
con quattro tempietti angolari e sono caratterizzati da un alto
basamento a elaborate modanature che ne sottolineano lo slancio
verticale. Seguendo la collocazione geografica, il complesso di
Khajuraho si divide in due settori, il più importante dei quali è
quello occidentale che
include i templi Varaha,
Lakshmana,
Kandariya Mahadeva,
Mahadeva,
Devi Jagadamba,
delle Chaunsath Jogini,
Chitragupta,
Parvati
e Vishvanatha.
Il più splendido ed imponente, nonchè paradigmatico dello stile,
è il Kandariya Mahadeva,
nella foto di apertura, con il suo Shikhara,
la torre, di
31 m., dedicato a Shiva;
su pianta cruciforme, aveva originariamente altri quattro sacrari agli
angoli della piattaforma ed è così articolato:
Ardhamandapa,
portico d'ingresso
Mahamandapa,
sala centrale a 4 colonne
Antarala,
vestibulo che precede la cella
Garbhagriha,
la cella che ospita la divinità
Pradakshinapatha,
il deambulatorio
Il
Torana,
portale trionfale, d'ingresso all'Ardhamandapa,
i soffitti del Mandapa,
le colonne e la cornice della porta del Garbhagriha,
che ospita un Linga
di marmo, simbolo di Shiva, presentano un intaglio raffinatissimo.
Ornato da 650 statue è considerato il capolavoro degli artisti Chandella.
Sulle pareti esterne, nelle nicchie delimitate da elementi
architettonici e separate orizzontalemnte da teorie di fregi, spiccano
le deliziose Surasundari,
bellissime ninfe celesti, esperte nei giochi amorosi. Sulla
stessa piattaforma troverete i resti dei templi di Mahadeva
e di Devi Jagadamba,
che anticamente non era come adesso dedicato a
Kalì.
Dea signora del mondo, uno degli aspetti della consorte di Shiva, ma a Vishnu,
come indica l'immagine intagliata sull'ingresso.
Il sacello
di Mahadeva
ospita un pregevole gruppo statuario costituito da un Shardula,
sorta di grifone, con davanti un personaggio inginocchiato.
A
poca distanza sorge il tempio Chitragupta,
dedicato a Surya, dio
del
sole, la cui figura è ancora nel tabernacolo, Garbhagriha.
Notevoli processioni di elefanti e cavalieri, scene di battaglia, caccia
e amori ornano il basamento.
Con la stessa struttura a doppio transetto del Kandaryia
Mahadeva,
il tempio Vishvanatha
è dedicato ugualmente a Shiva. Tra le più famose figure femminili che
lo ornano vi sono la ninfa che suona il flauto rivolgendo il dorso allo
spettatore, quella che coccola un bimbo e quella col pappagallo sul
dorso.
Davanti
all'ingresso principale, il padiglione
del
toro Nandi
ospita una delle più belle e colossali figure
del
veicolo-cavalcatura di Shiva. A sud-ovest di questo si trova il piccolo
tempio di Parvati,
dedicato alla più nota forma della sposa di Shiva.
Il
tempio di Lakshmana
fu iniziato da Lakshmanavaram e terminato dal figlio Dhanga nel 954
d.C.: sulla sua piattaforma, decorata da una parata di guerrieri e da scene
erotiche
tra le più celebri, chiamate Mithuna, quattro
sacrari angolari inquadrano la costruzione centrale edificata per
ospitare l'immagine di Vishnu-Vaikuntha,
ovvero con tre teste: la frontale umana e le altre due di leone e di
cinghiale, entrambi
avatar
del dio. I fregi, le coppie di amanti, i gruppi statuari e gli altri
elementi decorativi sono di pregevole fattura. Una ripida scala conduce
all'ingresso, ornato da un Torana
costituito da un festone di Makara,
i mitici mostri acquatici, e schermato da un ampio spiovente.
Nelle
vicinanze il tempio Varaha
ospita una colossale rappresentazione
del
varaha, il cinghiale,
sotto le cui spoglie si incarnò Vishnu per recuperare la dea terra
tenuta prigionera nel fondo melmoso dell'oceano. Edificato in granito e
unico per stile austero il tempio delle Chaunsath
Yogini,
64 divine ascete dotate di poteri esoterici che assistono
Devi,
un altro tra gli aspetti della consorte di Shiva. 64
celle
austere e disadorne fanno ala al piccolo sacrario della dea.
Al
gruppo orientale appartengono vari templi, Vamana,
Javari,
Duladeo
e il Chaturbhuja -
Vishnu a 4 braccia - più a sud: con notevoli gruppi statuari, il
Chaturbhuja è privo
del
Mahamandapa
ed esibisce un accentuato verticalismo. Il Duladeo
è caratterizzato da un armonioso Shikhara
arrotondato agli angoli da shikhara minori. Le pareti sottostanti sono
animate da eccellenti gruppi plastici e da statue singole. A
sud di Khajuraho potrete in oltre visitare un complesso di templi jain
il più importante dei quali è il
Parshvanatha, racchiuso in una cinta e sormontato da un Shikhara
di proporzioni perfette.
Tempio
di Kandariya Mahadeva |
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Tempio
di Varaha |
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