L'opera architettonica di Le Corbusier, 
un contributo eccezionale al Movimento Moderno Argentina/Belgio/Francia/Germania/Giappone/India/Svizzera 

PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 2016

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Maison de la Weissenhof-Seidlung

Il quartiere Weissenhof (in tedesco Weißenhofsiedlung) è un quartiere costruito a Stoccarda nel 1927, in occasione dell'esposizione organizzata dal Deutscher Werkbund. È stato una sorta di "vetrina" internazionale, per mostrare le innovazioni (architettoniche e sociali) proposte dal Movimento moderno.

Il comprensorio includeva ventun edifici, per un totale di sessanta abitazioni, progettate da sedici architetti europei, la maggior parte dei quali tedeschi. Mies van der Rohe era stato incaricato della gestione del progetto, in qualità di direttore architettonico del Werkbund, e fu lui a scegliere gli architetti, a distribuire i lotti e i fondi, e a supervisionare l'intero progetto.

Le Corbusier ottenne due lotti diretti verso la città e il budget più ampio. Gli edifici non variano molto nella forma, presentando una grande coerenza progettuale; si tratta di case a schiera, villette e blocchi di appartamenti. Le caratteristiche comuni agli edifici sono le facciate essenziali, i tetti piani, adibiti a terrazza, le finestre a nastro, la cosiddetta "pianta libera" e l'elevato livello di prefabbricazione, che permise l'edificazione del complesso in soli cinque mesi.

L'esposizione aprì al pubblico il 23 luglio 1927, con una notevole partecipazione di pubblico.

Dei ventuno edifici originari, attualmente ne sopravvivono undici.  

Musée National des Beaux-Arts de l’Occident

Il Museo nazionale d'arte occidentale - noto anche con il nome inglese National Museum of Western Art, sigla NMWA - è un museo di Tokyo, situato nel distretto museale del parco di Ueno. Si tratta dell'unico museo nazionale interamente dedicato all'arte occidentale in un paese non occidentale.

Il museo nacque nell'aprile del 1959 come organizzazione per l'esposizione al pubblico della collezione Matsukata, restituita qualche anno prima dal governo francese. L'apertura al pubblico risale al giugno di quell'anno. Kojiro Matsukata, presidente delle industrie navali Kawasaki per 32 anni, fu un grande collezionista d'arte sulla scena europea, amico di intellettuali e pittori soprattutto a Parigi (tra i quali Monet e Rodin), che desiderava offrire al suo popolo la possibilità di ammirare direttamente i capolavori dell'arte occidentale, con la prospettiva quindi di creare un museo in patria. All'epoca era infatti difficile, per i giapponesi, visitare l'estero e la circolazione di opere d'arte tramite prestiti ed esposizioni temporanee era cosa molto rara, tanto più in Giappone. Dopo aver raccolto una vasta collezione di arte europea, che spaziava dal medioevo ai post-impressionisti, e circa ottomila esemplari di Ukiiyo-e giapponesi (dal 1944 al Museo nazionale di Tokyo), nel 1920 spedì una prima parte della sua collezione nel suo paese di origine, dove fu esposta con un grande successo di pubblico e di critica.

Tuttavia, nel marzo 1927, il fallimento della Banca Jugo, che finanziava le industrie Kawasaki, portò la compagnia sull'orlo del fallimento, che venne arginato tramite la vendita delle opere d'arte di Matsukata già in Giappone. Una consistente parte delle collezioni dell'imprenditore era però ancora in Europa, tenuta in un deposito a Londra e uno a Parigi. Quando Matsukata si preparava a spedire questi due nuclei superstiti, venne a mancare la disponibilità immediata di denaro contante per finanziare la spedizione e, poco dopo, scoppiò la seconda guerra mondiale, complicando estremamente le vicende della collezione. La parte londinese andò infatti distrutta in un incendio, mentre quella parigina venne infine confiscata dal governo francese, che la dichiarò di sua proprietà come parte di indennizzo nei confronti di un Paese sconfitto: tale atto venne ratificato dal trattato di San Francisco nel 1951, un anno dopo che Matsukata era deceduto.

Già in quell'occasione però, il primo ministro giapponese Shigeru Yoshida avviò una serie di contatti e trattative per ottenere la restituzione della collezione Matsukata al popolo giapponese. I negoziati tra i due paesi proseguirono per molti anni, con fasi di stallo. Infine, con un decreto firmato da Charles de Gaulle, la Francia decise di fare dono unilateralmente al Giappone della collezione Matsukata, tenendo tuttavia solo qualche esemplare volto a coprire particolari lacune nelle collezioni d'arte dei musei nazionali francesi. 365 pezzi d'arte (di cui 196 dipinti, 80 disegni, 26 stampe e 63 sculture) furono destinate così al Giappone nel 1957 e, nel clima di relazioni amichevoli tra i due paesi, il direttore del Louvre Georges Salles propose che fosse Le Corbusier a disegnare l'edificio museale per ospitare la collezione, cosa effettivamente venne messa in pratica, grazie anche all'intermediazione di tre studenti giapponesi assistenti di Le Corbusier: Kunio Maekawa, Junzo Itakura e Takamasa Yoshisaka, ciascuno poi diventato un architetto di rilievo nel campo dell'architettura contemporanea giapponese. Le condizioni finanziarie del governo giapponese all'epoca, impegnato nella ricostruzione postbellica, permisero tuttavia che solo una parte del progetto di Le Corbusier fosse creata, ottenendo una superficie espositiva totale di circa 1533 metri quadri, compreso il cortile antistante l'edificio in cui trovarono posto copie della Porta dell'infernoIl pensatore e altri bronzi di Rodin.  

L'istituzione vera e propria del museo, come già accennato, avvenne nell'aprile del 1959, quando le opere d'arte arrivarono dalla Francia, e a giugno avvenne l'apertura al pubblico, che rappresentò uno straordinario successo: nei primi dieci mesi di apertura furono registrati più di 500.000 visitatori.

Negli anni successivi la collezione si arricchì di altre donazioni e di acquisti, rendendo necessario l'ampliamento dell'edificio, progettato nel 1967/1968 da Maekawa e completato nel 1979, in occasione del XX° anniversario dall'apertura. La nuova ala aggiunse 1525 metri quadri all'esposizione, permettendo, ad esempio, di destinare alcune sale alla mostra a rotazione di opere della collezione grafica. Nel 1993 si progettò poi la creazione di uno spazio per le esposizioni temporanee, che venne completato nel 1997, mentre nel 1999 venne portato a termine l'isolamento sismico dell'intera struttura museale e delle sue opere monumentali come La porta dell'inferno.  

Nel dicembre 2007 il museo possedeva più di 4500 pezzi d'arte, di cui 370 dipinti, 136 acquarelli e stampe, più di 3700 stampe, 101 sculture e 176 opere di altri media. Il percorso espositivo è fondamentalmente diviso in due tronconi, che rispecchiano la struttura della collezione Matsukata. Il primo, quello più consistente, è dedicato alla pittura francese del XIX e XX secolo, con opere di pittori della scuola di Barbizonimpressionistipost-impressionistisimbolisti e fauves, a cui si aggiungono una serie di opere di pittori più legate all'accademismo o alle mode floreali in voga negli anni di Matsukata, solo di recente rivalutate. Fanno parte di questa sezione opere di DelacroixCourbetFüssliCorotMilletManetMonet (11 opere, nell'arco intero della sua produzione), Renoir (3 opere), Gauguin (3 opere), Van GoghCézanneDante Gabriel Rossetti, Signac. Aggiunte successive, con opere di Picasso, Fernand LégerMax ErnstJoan MiróJackson Pollock e altri, portano il percorso museale fino agli anni cinquanta del Novecento.

L'altra sezione, la prima che si incontra nel percorso espositivo, documenta l'arte europea dal Basso Medioevo (un'icona greca di Andreas Ritzos, un San Michele di scuola senese e altre opere), attraverso il Rinascimento, il secolo d'oro olandese e il barocco, fino al XVIII secolo. Sebbene non in grado di competere con le collezioni delle grandi istituzioni europee e americane, la raccolta documenta tutto lo sviluppo dell'arte occidentale e tutte le principali scuole (italianafiamminga, olandese, tedesca, francese, spagnola), con opere di Cranach il VecchioTintorettoVeroneseVasariEl Greco, Guercino, Guido ReniRubensVan Dyck, Jusepe de RiberaMurilloGeorges de La TourClaude LorrainTiepoloFragonard.

A parte è la collezione di sculture, prevalentemente di Auguste Rodin, di cui Matsukata possedeva ben 59 esemplari: tranne alcuni bozzetti, le statue esposte sono tutte fusioni tratte fedelmente dagli originali, rimasti in Francia.  

Complexe du Capitole

Chandigarh, la “Città d’argento”, è un insediamento urbano di nuova fondazione per 150mila abitanti (oggi 650mila), adagiato a 320 metri di altitudine sul Punjab-Haryana Plains, un vasto altopiano desertico ai piedi delle Shivalik Ranges nelle quali si stemperano le prime pendici himalayane.

È concepito come un organismo funzionale, ovvero come un gigantesco corpo umano metaforico e reale. Il tronco, a sud, è una scacchiera a maglia ortogonale di circa cinquanta isolati o “settori” lunghi ciascuno 1200 metri e larghi 800, numerati a scendere dalla testa (manca il tredici, per rispettare la tradizionale superstizione), e distribuiti su 114 chilometri quadrati; ciascun Sector di circa cento ettari è parzialmente autosufficiente e suddiviso in zone corrispondenti alle classi sociali che, secondo una consuetudine antica, dividono la popolazione indiana.

All’interno di questa griglia urbanistica concepita per potersi espandere, come poi è successo, secondo necessità, i polmoni sono i parchi verdi che forniscono ossigeno, e le vene e le arterie sono l’ordinatissimo sistema di grandi viali che garantiscono il fluire della circolazione secondo un razionale schema viario reticolare gerarchico nel quale i percorsi automobilistici e quelli pedonali sono separati.

Qui Le Corbusier applica la sua “teoria delle sette vie”, codificata nel 1948 ma già preconizzata nella Carta d’Atene del 1933 (pubblicata nel 1941): la V1, arteria nazionale, collega Chandigarh con Delhi, Simla e Lahore; dalla V1 si stacca la V2, strada di spina orizzontale sulla quale nel primo tratto si affacciano installazioni commerciali a scala regionale e nel secondo musei, università e svaghi di massa. Un’altra V2 verticale e ortogonale, larga 100 metri, sale al Campidoglio, attraversa a metà percorso il centro degli affari sotto cui piega a gomito e sfocia in una via che costituisce il limite originale della città dei 150mila abitanti.

Ogni settore, poi, è circondato da una V3, riservata alla circolazione automobilistica veloce e priva di accessi pedonali: ogni 400 metri la via si apre in un parcheggio che consente il contatto con l’interno dei settori.

La V4, invece, attraversa orizzontalmente i vari settori ed è la strada commerciale e artigianale della tradizione indiana, a traffico misto pedonale e automobilistico lento, da cui si staccano le V5 e le V6 che arrivano davanti alle abitazioni.

Le V7, infine, sono vie pedonali e si snodano attraverso le larghe fasce verdi dei parchi che solcano in senso verticale ogni settore. I visceri, in ultimo, sono invece i quartieri degli insediamenti produttivi che forniscono le energie per la vita della città. 

A nord, alla sommità di questo corpo e in direzione delle montagne, c’è la testa che è costituita dal quartiere degli edifici amministrativi pubblici del Capitol Complex, che controllano l’intero organismo. Si dice che per disegnare la struttura organica e funzionale di Chandigarh Le Corbusier avesse preso a modello gli Champs-Elysées del barone Eugène Haussmann, prefetto della Senna, l’Acropoli di Atene e il Campidoglio di Roma, che visitò tra il 1906 e il 1914 in un Grand Tour di studi dell’architettura classica: una visione d’insieme che, per la verità, è apprezzabile solo in volo, o nel meraviglioso plastico di progetto che oggi occupa buona parte dell’ufficio del supervisore architettonico alla città, il Chief Architect.

Lo straordinario capolavoro indiano di Le Corbusier ripropone nell’età moderna il mito rinascimentale della città ideale, che racchiude gli edifici di maggiore significato architettonico; a destra, il Parlamento.

All’interno dei settori gli edifici residenziali sono “democraticamente” tutti uguali, e sono la replica della celeberrima Unité d’habitation, un nuovo tipo edilizio teorizzato e realizzato a Marsiglia tra il 1947 e il 1952 3 nel quale gli elementi tecnico-architettonici codificati dal grande architetto svizzero (struttura sollevata su pilotis, finestra a nastro, frangisole, tetto-terrazza, lontananza dalla strada, spazi verdi sotto l’edificio) vengono riorganizzati socialmente nella logica ergonomica del Modulor in edifici seriali ciascuno da trecentosessanta alloggi, muniti di servizi comuni.

Le cellule-appartamento, di tagli diversi per rispondere alle esigenze di persone sole, di coppie senza figli o di famiglie con due o più figli, sono disegnate per dare la quantità minima di spazio necessario alla vita privata, perché la maggior parte delle funzioni si svolge in modo comunitario. A metà dell’altezza dell’edificio, infatti, corre una “strada” interna lungo la quale sono disposti i servizi collettivi e comuni: ristoranti, bar, negozi, camere d’albergo per visitatori e locali per ricreazione; altre strutture di carattere sociale sono ospitate all’ultimo piano e sul tetto-terrazzo, dove ci sono asili-nido, spazi per il gioco dei bambini, solarium, piscine e palestre. 

Oggi queste lunghe stecche sono state “indianizzate” dai residenti che non sanno di abitare in un luogo mitico dell’architettura che è su tutti i libri di storia dell’arte, e si presentano in un triste stato di degrado: obiettivamente dicono poco a chi non sia un cultore della materia. Straordinaria è invece la testa o Sector 1, cioè il Campidoglio (Capitol Complex), che contiene il Segretariato, realizzato tra il 1952 e il 1958 e sede dei governi degli Stati del Punjab e dell’Haryana, il Palazzo dell’assemblea o Parlamento (Assembly, o Vidhan Sabha) che ospita, a giorni alterni, gli organi legislativi dei due Stati, e il Palazzo di giustizia o Alta corte (High Court).

Insieme al Palazzo del governatore, previsto anch’esso nella testa ma mai realizzato, questi imponenti edifici – i soli di tutta la città che superano i quattro piani – sono disposti nello spazio rarefatto della spianata del Campidoglio intorno a una gigantesca piazza che corona a nord la città verso l’Himalaya, movimentata da numerosi interventi paesistici e simbolici con vasche d’acqua dalle quali si erge una grande scultura raffigurante una mano aperta in pacifico segno di saluto: alta ventisei metri, di metallo, libera di girare al vento su un lungo perno, l’icona della città e del grande maestro è la mano dell’uomo del Modulor, una mano aperta per ricevere e donare, come scrisse Le Corbusier che la disegnò nel 1964, un anno prima di morire.

L’insieme è notevole, e per chi sente il fascino dell’architettura moderna è una visita che dà i brividi; l’interno del Palazzo dell’assemblea, retto da pilastri altissimi che sfidano le leggi della statica e sovrastato nella sala centrale da un immenso lucernario sostenuto da un iperboloide di cemento armato, così come la copertura dell’edificio dell’Alta corte di giustizia, protetta da un lastrico sospeso di calcestruzzo che è metafora del “riparo” della Legge, sono esercizi arditi e sublimi di altissima ingegneria, visioni di enorme e incontrollabile emozione.

Immeuble Clarté

Questo edificio alla Rue Saint-Laurent 2-4 del quartiere Villereuse potrà forse sembrare datato, ma alla sua costruzione (1931-32) sotto il grande architetto svizzero Le Corbusier era un'opera d'avanguardia, tutto in acciaio e vetro. Lo scheletro metallico ha liberato le pareti interne da qualsiasi funzione portante.

Nel 1932, l'architetto si associa a un fabbricante di oggetti in ferro battuto al fine di realizzare l'edificio «La Clarté», le cui pareti di vetro lasciano trasparire la luce. 

Vero e proprio capolavoro avanguardista, questo edificio è oggi classificato monumento storico. Fatto in materia al contempo rigida e fragile, questo edificio è chiamato altresì «casa di vetro». 
Situato nella parte alta del quartiere des Eaux-Vives, l'edificio ospita 48 appartamenti e uffici.

Petite villa au bord du Lac Léman 

Questa è la petite maison, progettata nel 1923-24 da Le Corbusier insieme a suo cugino Pierre Jeanneret per i suoi genitori.

È una piccola abitazione di 64 mq che sorge sulla riva del lago Corseaux in Svizzera.

In questo caso si può parlare di un’architettura “a priori”. Infatti è il progetto a precedere il luogo, non è questo ad influenzare il primo. L’abitazione è la chiara sintesi di alcuni dei punti che diventeranno essenziali nell’architettura di Le Corbusier.

Non è un caso se a Villa Le Lac si associa il termine “essenziale e purista”. Di quei punti espressi quattro anni più tardi in Ville Savoye, questo progetto prodromico ne esprime già tre: il roof garden, il piano libero e la  finestra a nastro.

L’architetto concepisce la casa, da sempre considerata l’intimo spazio legato al primitivo gesto del ripararsi, come una macchina, all’interno della quale ogni ambiente è dimensionato e proporzionato in relazione all’uomo.

In questo progetto Le Corbusier pone il punto su alcuni elementi  che per lui saranno importanti, come l’attenzione rigorosa alla proporzione, l’uso del piano libero per interni (ottenuto con l’uso del calcestruzzo armato) la funzionalità di ogni spazio, l’orientamento legato all’uso della finestra a nastro e il giardino pensile.

Quindi è proprio questo che spinge alla progettazione di un edifico “puro”: funzioni specifiche connesse a spazi calibrati in base alle necessità.

La petite maison è un lungo fabbricato (16x4m) su un unico livello. Tutte le attività quotidiane di una coppia di anziani sono state pensate secondo uno spazio minimo, preciso e misurato: soggiorno, camera da letto, sala da bagno, salotto, cucina, lavanderia e guardaroba.

La finestra a nastro di 11 m, posta a sud, permette al sole di entrare in tutte le stanze principali e incornicia lo scenario del lago, della valle del Rodano e delle Alpi, rendendoli  protagonisti di questi spazi.  

Se all’interno dell’abitazione il paesaggio partecipa in maniera quasi prepotente, ponendosi in continuità con l’abitazione, all’esterno, paradossalmente, la situazione si ribalta.

Nella stanza all’aperto, al contrario, vi è un alto muro su cui si apre una sola bucatura di forma quadrata, come ad incorniciare un dipinto sul paesaggio, invitando alla contemplazione dello stesso.

La petite maison di Le Corbusier è espressione dell’essenza dell’abitare, problema a cui l’architetto trova risposta con semplici punti, ponendo grande attenzione sull’uomo, unico vero protagonista dell’atto in sè.

Riconosciuto il grande valore architettonico, la villa nel 1962 è stata dichiarata monumento storico, aperto ai visitatori, proprietà della Fondazione Le Corbusier in gestione al comune di Corseaux.  

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