Complesso dei templi di Borobudur
Indonesia

 PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1991
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Nel cuore dell'isola di Giava si erge il Borobudur, il più grande tempio buddhista del mondo. Fatto costruire dalla dinastia dei Sailendra, probabilmente fra il 760 e l'810 d.C., è situato in una pianura circondata da vulcani e montagne, non lontano dalla costa che si affaccia sull'oceano Indiano. 

Rappresenta un'importante testimonianza dei regni di Giava centrale, di cui mancano quasi del tutto documenti scritti o altro materiale utile alla ricostruzione di quel periodo. La presenza di questi imponenti luoghi di culto si può spiegare infatti solo con l'esistenza di organizzazioni statuali in grado di produrre un surplus di ricchezza così grande da giustificare opere di tali dimensioni e impegno. Sappiamo che in quell'epoca alcune dinastie si contendevano il dominio sul territorio di Giava centrale, dove da secoli, grazie soprattutto allo sviluppo della tecnica di coltivazione del riso in campi allagati (sawah), avevano preso forma grandi insediamenti, organizzati in regni spesso in conflitto tra di loro. 

All'inizio della nostra era risalgono le prime tracce di contatti con la cultura indiana; attraverso le rotte commerciali marittime, infatti, gruppi di mercanti indiani seguiti da individui appartenenti alle caste più elevate, tra i quali dei Brahmani, erano giunti presso le corti dei regni dell'arcipelago indonesiano, come quelle di Srivijaya e Sumatra e della regione di Giava Centrale. E' soprattutto a livello delle corti, infatti, che avviene una graduale diffusione delle religioni provenienti dall'India: il buddhismo e l'induismo. 

Tra la fine dell'VIII e l'inizio del IX secolo la dinastia dei Sailendra (Signori della Montagna) di religione buddhista, aveva probabilmente preso il sopravvento sui gruppi rivali e governava su buona parte di Giava. E' in questo periodo che prende corpo il Borodudur, luogo di culto del buddhismo Mahayana che, oltre alla funzione religiosa, rappresenta un'occasione di celebrazione dei sovrani di allora nel momento di massimo sviluppo del regno. 

La sua realizzazione richiese uno sforzo immane considerando le tecniche allora disponibili; la costruzione che poggia su una piccola collina è infatti costituita da più di un milione di blocchi di pietra, ciascuno del peso di 100 chilogrammi che, trasportati faticosamente sul posto dal letto di un vicino fiume, venivano tagliati, lavorati e decorati dagli artigiani. Possiamo immaginare pertanto quanti uomini fossero coinvolti in questa attività per un periodo di lavoro che si calcola intorno ai trent'anni, compresi tra il 760 e l'830 d.C. Il regno dei Sailendra doveva essere in un momento d grande splendore per potersi permettere uno sforzo di tali proporzioni. Alcuni sostengono addirittura che le oscure vicende che seguirono furono determinate proprio dall'eccessivo sforzo prodotto in quegli anni, Infatti, alcuni decenni dopo il termine dei lavori, l'intero territorio di Giava centrale cadde nella più profonda oscurità e il nucleo propulsore della civiltà giavanese si spostò verso la parte orientale dell'isola.

Non si conosce ancora la ragione di questo abbandono e numerose sono le ipotesi: un'eruzione vulcanica, un terremoto, una carestia, un insieme di fattori, tra i quali poteva avere influito anche l'immane sforzo prodotto per realizzare le grandi opere architettoniche di Giava centrale, fra le quali il complesso induista di Prambanan. 

Il Borobodur stesso cadde nell'oblio e bisogna andare all'inizio del XVIII secolo per ritrovare testimonianze locali della sua presenza. Ma la vera riscoperta e valorizzazione del tempio è opera di un europeo, sir Thomas Stamford Raffles, a quel tempo - i primi anni del XIX secolo -, vice-governatore inglese in quella parte del mondo normalmente controllata dagli olandesi, allora in grave difficoltà a causa delle campagne napoleoniche e che per questo avevano di fatto ceduto i controllo di quell'area agli inglesi. 

Il giovane Raffles, oltre che un efficiente funzionario, era una persona di grande cultura, attratto dalle civiltà dei Paesi in cui operava. Egli incaricò un esploratore militare, Colin MacKenzie, che aveva trascorso diversi anni in India e che conosceva l'arte di ispirazione buddhista e induista, di formare un gruppo di ricerca sui resti delle civiltà antiche presenti nell'isola. Fu uno dei suoi membri, un ingegnere olandese di nome H.C. Cornelius che, guidato da abitanti del luogo, trovò nel 1814 le rovine del Borobudur.

Fu necessario circa un mese e mezzo di lavoro con duecento uomini perché il tempio fosse liberato dalla copertura vegetale che lo aveva avvolto. I primi lavori di recupero terminarono con gli ultimi rilievi intorno al 1870 ma, ironia della sorte, questo ritorno alla vita determinò l'inizio della sua rovina. Infatti la vegetazione e la cenere depositata da antiche eruzioni, oltre che nascondere la costruzione, l'avevano protetta dagli agenti atmosferici e pertanto quando sole, pioggia, vento e sbalzi i temperatura ricominciarono a infierire sull'edificio, questo iniziò a deteriorarsi soprattutto per il pessimo drenaggio dell'acqua che, nella stagione delle piogge, cadeva copiosa.

Nel 1900 venne nominata una commissione per la conservazione del sito, a capo della quale venne posto l'ingegnere Thadeus Van Erp. Van Erp si trovò subito di fronte a una gravissima urgenza: nel 1907, dopo sette mesi di scavo, si rese conto che i muri perimetrali rischiavano di cedere e l'intera struttura minacciava di afflosciarsi su sé stessa; non esitò quindi a stendere una colata di cemento sul pavimento della galleria per assestarlo. Attorno al plinto fu necessario porre una cinta di contenimento in pietra per rafforzarlo, che ancor oggi impedisce la contemplazione del livello inferiore dei bassorilievi.

Nei primi anni sessanta la ripresa del restauro, resa necessaria da infiltrazioni d'acqua che rischiavano di far collassare la struttura, fu impedita da due terremoti. Nel 1973 un'associazione di ventisette nazioni, il governo dell'Indonesia, l'Unesco e qualche mecenate privato si lanciarono in un restauro decennale del costo di 25 milioni di dollari, uno sforzo pari allo spostamento di Abu Simbel nel 1966 dalle piene della diga di Assuan.

Circa un milione di pietre dell'edificio venne rimosso, alcune di esse furono trattate e rimodellate, tutte infine vennero riposizionate nell'ordine precedente. Grazie a questa operazione fu possibile attivare vari accorgimenti per risolvere il problema delle infiltrazioni d'acqua e così oggi l'intera costruzione del Borobudur si presenta completamente restaurata nella sua magnificenza. 

Ogni anno più di un milione di visitatori si recano ad ammirarla, tra questi ben pochi sono pellegrini buddhisti, i più sono individui attratti dalla bellezza e dalla magia della costruzione intesa come opera d'arte e come testimonianza di un passato di cui poco si conosce, ma anche affascinati dalla profonda religiosità per pervade i luogo.

Borobudur è spesso tradotto come "tempio sul colle", ma il termine vale in realtà come abbreviazione di Bhumisan Brabadura, "la montagna ineffabile dell'accumulazione delle virtù": Borobudur intendeva cioè echeggiare una montagna - non una qualsiasi, bensì una montagna di iniziazione, che proponeva un itinerario di formazione dal molteplice all'uno. Lo stupa di dimensioni inusitate si propone come una replica dell'universo secondo la visione cosmogonica del buddhismo mahayana: il Borobudur è un esempio di mandala tridimensionale.

Tale microcosmo è organizzato su tre registri decorativi: il primo, kàmadhatu, la "sfera dell'amore fisico", rappresenta il mondo del desiderio influenzato da impulsi negativi, ed è un livello in parte interrato; quello mediano, rupadhatu, la "sfera della forma", raffigura uno stato esistenziale, più che uno spazio geografico, ove l'uomo arriva a controllare gli istinti negativi e cavalca quelli positivi; il registro superno celebra un mondo in cui l'uomo non è più legato a desideri fisici.  

Osservato dall'alto il Borobudur ci appare come un immenso mandala, insieme di forme geometriche che delimitano un territorio sacro, che dal centro in cui vi è la parte più importante, si sviluppa in aree sempre più ampie, geometricamente delimitate con precisi riferimenti ai quattro punti cardinali. 

La forma di buddhismo che si propagò a Giava fu prevalentemente quella Mahayana o del Grande Veicolo, la forma quindi della grande compassione, più aperta ai percorsi individuali che i fedeli potevano intraprendere anche nel corso di una sola vita verso il Nirvana, l'interruzione del ciclo delle reincarnazioni. Sappiamo inoltre che nel periodo compreso fra i secoli VII e XIV, grande diffusione ebbero anche forme esoteriche, fra le quali il tantrismo, che attraverso riti e pratiche di vario genere consentiva percorsi più rapidi verso l'illuminazione e il Nirvana. In questo contesto va inteso il Borobudur che bene esprime queste concezioni del buddhismo. 

Il tempio è costituito da quattro terrazze quadrate e tre circolari, sormontate dal piccolo stupa terminale. Nella sua pradakshina, la circoambulazone rituale in senso orario, il pellegrino doveva percorrere le gallerie delle prime quattro terrazze riccamente decorate con pannelli sia verso il lato interno, sia sulla balaustra. Essendo la prima galleria abbellita con quattro serie di pannelli e le successive con due ciascuna, il pellegrino doveva percorrerle dieci volte, osservando e apprendendo quanto rappresentato nei bassorilievi per poter accedere alle terrazze circolari superiori. 

Secondo il simbolismo cosmico del buddhismo Mahayana, al centro dell'universo vi è la Montagna Sacra, il monte Meru, intorno al quale ruotano mondi, cieli e mari. Il percorso verso l'illuminazione corrisponde metaforicamente all'ascesa della montagna quale viene inteso il Borobudur. La base del tempio rappresenta il mondo della materia, della forma, della sfera dei desideri e delle sofferenze della vita: il Karmadhatu.

Le pareti della base, che misurano 113 metri per lato, appaiono oggi quasi completamente prive di decorazioni infatti, per ragioni ancora non del tutto chiare, i circa 160 pannelli che vi sono stati realizzati sono stati coperti da un muro e sono giunti a nostra conoscenza soltanto nel 1885. 

Qualunque fosse il motivo, una maggiore stabilità dell'edificio o il desiderio di nascondere ai religiosi la parte riguardante la sfera dei desideri e delle passioni terrene, vi era infatti una parete protettiva intorno alla base; questa, dopo essere stata smantellata per consentirne una documentazione fotografica, è stata ricostruita e oggi solo quattro pannelli sono stati lasciati scoperti per renderli visibili. 

Vi sono riportate scene tratte da un testo buddhista, il Mahakarmavibbangga, su paradiso e inferno, peccati e pene, buone azioni e premi.

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Nel mezzo di ogni lato della base una stretta scala consente l'accesso alla terrazza superiore; per un corretto percorso si deve accedere dal lato orientale, il più sacro. Osservato dall'esterno, il tempio non rivela alcun bassorilievo, ma numerose statue del Buddha; appare come un immenso stupa. Lo stupa è impenetrabile come il Borobudur, che sappiamo essere adagiato su una collina, privo di parti interne. Per accedere agli insegnamenti rappresentati nei pannelli, è però necessario entrare nelle gallerie superiori. E' quindi una costruzione molto particolare, inaccessibile a prima vista dall'esterno, chiusa per chi non desideri entrare nelle gallerie per appendere gli insegnamenti e quindi procedere nel suo percorso di salvazione. 

Per seguire tutte le metope nell'ordine corretto, occorre partire dalla scalinata sud della facciata est, tenendo l'edificio alla propria destra e girando verso destra in senso orario, seguendo cioè il corso del sole. Tale attività prende infatti il nome di pradaksinàpatha, "camminata verso sud", e nella cultura indiana è un atto di devozione nei confronti dell'oggetto attorno al quale si gira. Alla fine del percorso si saranno compiute ben dieci circumdeambulazioni attorno allo stupa, per un totale di cinque chilometri di percorso e 2500 metri quadrati di bassorilievi, distribuiti in 1460 metope di due metri ciascuna.

Ogni terrazzamento è circondato da patii scoperti, con registri di bassorilievi. Le scene rappresentate nei terrazzamenti inferiori sono più mondane e hanno un intento didattico-morale; più si sale più la narrazione si rarefa per lasciare posto a una rappresentazione statica, ieratica, epifanica della figura del Buddha. I pannelli delle terrazze inferiori sono fonti preziose per gli oggetti della vita quotidiana a cavallo fra l'VIII e il IX secolo a Giava: edifici, navi, armi, strumenti musicali, utensili.  

Probabilmente, tutti i bassorilievi erano stuccati e colorati; ancora oggi riportano screziature di colore, dovute però a muschi e licheni che, complice il clima, si adagiano sulla loro superficie sfalsando un poco la percezione dei bassorilievi. I contorni dei rilievi sono rotondi, pieni, in accordo con il canone dell'arte indiana classica Gupta.

Borobudur13.jpg (323255 byte)I percorsi sono organizzati in gallerie larghe due metri che invitano alla meditazione. La prima galleria presenta un perimetro più ridotto - 88 metri per lato - della base, nella quale è contenuta e così è per quelle dei livelli superiori, ugualmente ridotte in modo progressivo. Le quattro terrazze quadrate rappresentano il Rupadhatu, la forma fisica del Buddha: percorrendole, il pellegrino ha già imboccato la via verso il Nirvana, si trova nella fase di crescita interiore in cui deve apprendere gli insegnamenti, ma ha già cominciato il suo distacco dalla vita materiale quale viene rappresentata nella base. 

Solo percorrendo tutte e quattro le gallerie nella maniera corretta, può accedere all'ultimo livello: quello dell'Arupadhatu, cioè della non forma. Qui vi sono le tre terrazze circolari con una serie di stupa disposti in modo concentrico contenenti statue del Buddha che si vedono attraverso piccole aperture di forma geometrica. Non vi è alcuna rappresentazione iconografica, la fase dell'apprendimento è terminata e si può giungere così all'ultimo grande stupa centrale che è impenetrabile. L'ascesa al monte Meru è conclusa: si è nello stato della non forma, nell'annullamento.

Il Borobudur è quindi una costruzione dai molteplici significati, la cui struttura risulta assai complessa. Può essere vissuto in diversi modi: apprezzato per la sua bellezza, per il valore artistico delle sue decorazioni oppure come testimonianza storica di un passato glorioso di cui si sono smarrite le tracce. Il suo senso più profondo va però letto in questa triplice immagine di stupa, monte Meru e mandala, tre aspetti di uno stesso percorso che, nelle intenzioni dei costruttori, doveva probabilmente consentire ai pellegrini di illuminarsi, di avvicinare il proprio spirito al Buddha.

Dall'aereo, il tempio sembra un loto pronto a sbocciare che galleggia sul terreno. Ed è più di un'impressione, perché probabilmente tutt'attorno, un millennio fa, si stendeva un lago: i geologi hanno infatti verificato che tutti i villaggi circostanti, compresi i templi Pawon e Mendut che sorgono nella medesima area, si attestano a 235 metri sul livello del mare.

Il solo terrapieno di pietre che avvolge il plinto ha un volume di 11.600 metri cubi; affollano il perimetro delle terrazze un centinaio di doccioni per il drenaggio dell'acqua; il Buddha è celebrato in cinquecentoquattro statue alte non meno di un metro e mezzo nel terrazzamento mediano, il rupadhatu. Ogni faccia accampa novantadue stupa con un Dhyani Buddha all'interno, atteggiato in un mudra diverso a segnalare i punti cardinali, cinque nella tradizione indiana: indica l'est con il bhumisparsa mudra (il mudra della "chiamata a testimonianza della Terra"); il sud con il gesto della benedizione; l'ovest con il mudra della meditazione; il nord con il mudra del "non aver paura"; il centro se sfoggia il gesto dell'insegnamento.

Il tempio di Borobudur misura 123 metri di base e si ergeva originariamente per quarantadue metri di altezza; oggi, parzialmente infossato, non supera i 31,5. Con i suoi 55.000 metri cubi di pietra, pari a un milione di pezzi da un quintale, non solo si pone per dimensioni al livello dei complessi di Pagan in Birmania e di Angkor in Cambogia, ma è in assoluto il monumento antico più grande dell'emisfero australe, una testimonianza dell'ineguagliabile bacino di forza lavoro su cui i Sailendra poterono contare.  

I BASSORILIEVI - I bassorilievi narrano la storia del Buddha divisa in vari passaggi:

- Il karma (Karmavibhangga) - Questa serie di bassorilievi illustra il Karma, le sue caratteristiche e la sua natura, vale a dire il rapporto di causa-effetto secondo cui una buona azione porta dei benefici nelle vite future mentre una cattiva azione avrà effetti sicuramente negativi per le vite future di chi la esegue, questi bassorilievi illustrano quali sono le azioni migliori e quali le peggiori. In sostanza questa parte del tempio è una specie di "manuale" sul Karma.

- La nascita del Buddha (Lalitavistara) - E' la storia della gravidanza della Regina Maya, moglie del re Suddhodana, e dell'attesa per la nascita dell'erede al trono da parte degli esseri viventi sulla terra e da parte delle creature superiori, la storia prosegue con la cronaca della nascita del piccolo e con i suoi primi anni di vita fino a quando decide di intraprendere il suo viaggio. La storia continua nella sezione successiva della sequenza di bassorilievi del tempio.

- La storia del principe Siddharta (Jataka) e altre leggendarie persone (Avadana) - E' la storia del principe Siddharta e di altri importanti personaggi della storia e della religione buddhista.

- Sudhana cerca la verità finale (Gandavyuha) - Durante la sua ricerca, Sudhana si reca da non meno di 30 saggi, ma nessuno di questi riesce a soddisfare appieno la sua sete di sapere. Nel suo viaggio Sudhana incontra Supratisthita, Muktaka, Saradhvaja (un eremita), Upasika, Bhismottaranirghosa (un brahmino), Jayosmayatna, Maitrayani (una principessa), Sudarsana (un eremita), Indriyesvara (un ragazzo), Upasika Prabhuta, Ratnachuda, King Anala, il dio Siva Mahadeva, Maya, Maitreya e di nuovo Manjusri. Ognuno di questi incontri ha permesso a Sudhana di apprendere qualcosa di nuovo. Questi incontri sono narrati nella terza galleria. Dopo l'ultimo incontro con Manjusri, Sudhana va a casa di Bodhisattva Samantabhadra. Tutta la quarta galleria è dedicata agli insegnamenti di Samantabhadra. La storia finisce quando Sudhana apprende la suprema conoscenza e la verità finale.