Antica città di Tiro
Libano

 PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1984

    

I fenici furono un popolo organizzato in città-stato del tutto prive di una coscienza unitaria. Tanto che non è dato sapere neppure come chiamavano sé stessi. Il termine "fenici" deriva dal greco phoinikes. È così, infatti, che li chiamava Omero, in relazione al bene più prezioso che questo popolo produceva: la phoinix, la tintura rosso porpora. Venduta a peso d'oro, era il vanto di Tiro, città che faceva risalire la sua fondazione proprio alla "scoperta" della porpora. 

Una leggenda narra che il dio fenicio Melqart s'innamorò di una ninfa di nome Tiro. Una mattina, mentre i due passeggiavano sulla spiaggia inseguiti dal cane del dio, l'animale mangiò una conchiglia sporcandosi il muso di porpora. Quando la ninfa lo vide, disse a Melqart che gli avrebbe concesso le sue grazie se lui le avesse donato una veste di quel colore. E così Melqart si affrettò a raccogliere quanti più molluschi poteva per esaudire il desiderio dell'amata, e dunque il suo. 

In prossimità di quella stessa spiaggia, dove nel frattempo era sorta Tiro, giunse nel V secolo a.C. Erodoto di Alicarnasso, il personaggio noto nel mondo greco come il "padre della storia". Lo studioso era stato spinto a intraprendere il viaggio dal desiderio di conoscere uno dei luoghi verso il quale i greci si sentivano debitori, dato che avevano attribuito a Cadmos di Tiro l'invenzione del loro alfabeto. A quel tempo, il culto di Melqart era già stato associato a quello del greco Eracle e Tiro era dominata da un tempio a lui dedicato. 

Nelle sue memorie, Erodoto scrive di aver chiesto ai sacerdoti circa l'epoca della costruzione del tempio, ricevendo in risposta che esso era vecchio di 2300 anni, tanti quanti la città. In verità, il tempio - simile a quello di Salomone a Gerusalemme, probabilmente realizzato anch'esso dalle maestranze di Tiro - era stato eretto nel X secolo a.C. da re Hiram I, a rimpiazzare un edificio leggendario che aveva una colonna d'oro e una di smeraldo. 

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All'epoca di Hiram I la città - che grazie all'industria e al commercio della porpora era diventata il principale porto del Mediterraneo orientale - era costituita da due parti separate da un braccio di mare lungo mezzo miglio. Una si trovava sulla terraferma, l'altra era stata costruita su due isolotti; entrambe erano cinte da possenti fortificazioni ed erano ricche di templi, palazzi e mercati. Sebbene il suo monopolio commerciale sia stato minato, a partire dal IX secolo, dallo sviluppo di Cartagine - fondata, ironia della sorte, proprio da coloni ribelli di Tiro - la città restò florida e inespugnabile fino al 332 a .C. 

In quell'anno Alessandro Magno la conquistò dopo sette mesi di assedio, che gli furono necessari per costruire una diga che unisse le isole alla terraferma e portare le sue micidiali macchine da guerra a ridosso delle mura. 

Oggi di quella favolosa città resta appena l'ombra, semisepolta com'è ancora dalla sabbia che, nel corso dei secoli, ha interrato il tratto di mare che era stato chiuso dalla diga di Alessandro e poi ha ricoperto anche il resto. E, a parte il porto fenicio, oggi oggetto di scavi sottomarini, le vestigia sono in gran parte di epoca romana. Tra tutti, i resti più spettacolari sono quelli dell'ippodromo.

Eretto nel II secolo d.C, poteva contenere 20.000 spettatori e ha un campo da corsa a forma di "U" diviso in due giri da segnali di pietra (metae). A nord della costruzione sorgono i resti dell'acquedotto romano, un arco di trionfo e una via fiancheggiata da sarcofagi scolpiti a bassorilievo, mentre su un promontorio affacciato sul mare vi sono una via colonnata con frammenti di mosaici bizantini del V secolo e le rovine di un complesso termale. Dopo i romani fu la volta dei crociati, i quali completarono l'opera di cancellazione delle antiche testimonianze fenicie. E, prima della nascita di una nuova città araba, nel XIII secolo venne sepolto a Tiro Federico Barbarossa, nell'attesa - vana -che le sue spoglie regali potessero essere trasportate a Gerusalemme.