I fenici
furono un popolo organizzato in città-stato del tutto prive di una
coscienza unitaria. Tanto che non è dato sapere neppure come chiamavano
sé stessi. Il termine "fenici" deriva dal greco phoinikes. È
così, infatti, che li chiamava Omero, in relazione al bene più
prezioso che questo popolo produceva: la phoinix, la tintura rosso
porpora. Venduta a peso d'oro, era il vanto di Tiro, città che faceva
risalire la sua fondazione proprio alla "scoperta" della
porpora.
Una
leggenda narra che il dio fenicio Melqart s'innamorò di una ninfa di
nome Tiro. Una mattina, mentre i due passeggiavano sulla spiaggia
inseguiti dal cane del dio, l'animale mangiò una conchiglia sporcandosi
il muso di porpora. Quando la ninfa lo vide, disse a Melqart che gli
avrebbe concesso le sue grazie se lui le avesse donato una veste di quel
colore. E così Melqart si affrettò a raccogliere quanti più molluschi
poteva per esaudire il desiderio dell'amata, e dunque il suo.
In
prossimità di quella stessa spiaggia, dove nel frattempo era sorta
Tiro, giunse nel V secolo a.C. Erodoto di Alicarnasso, il personaggio
noto nel mondo greco come il "padre della storia". Lo studioso
era stato spinto a intraprendere il viaggio dal desiderio di conoscere
uno dei luoghi verso il quale i greci si sentivano debitori, dato che
avevano attribuito a Cadmos di Tiro l'invenzione del loro alfabeto. A
quel tempo, il culto di Melqart era già stato associato a quello del
greco Eracle e Tiro era dominata da un tempio a lui dedicato.
Nelle
sue memorie, Erodoto scrive di aver chiesto ai sacerdoti circa l'epoca
della costruzione del tempio, ricevendo in risposta che esso era vecchio
di 2300 anni, tanti quanti la città. In verità, il tempio - simile a
quello di Salomone a Gerusalemme, probabilmente realizzato anch'esso
dalle maestranze di Tiro - era stato eretto nel X secolo a.C. da re
Hiram I, a rimpiazzare un edificio leggendario che aveva una colonna
d'oro e una di smeraldo.

All'epoca
di Hiram I la città - che grazie all'industria e al commercio della
porpora era diventata il principale porto del Mediterraneo orientale -
era costituita da due parti separate da un braccio di mare lungo mezzo
miglio. Una si trovava sulla terraferma, l'altra era stata costruita su
due isolotti; entrambe erano cinte da possenti fortificazioni ed erano
ricche di templi, palazzi e mercati. Sebbene il suo monopolio
commerciale sia stato minato, a partire dal IX secolo, dallo sviluppo di
Cartagine - fondata, ironia della sorte, proprio da coloni ribelli di
Tiro - la città restò florida e inespugnabile fino al
332 a
.C.
In
quell'anno Alessandro Magno la conquistò dopo sette mesi di assedio,
che gli furono necessari per costruire una diga che unisse le isole alla
terraferma e portare le sue micidiali macchine da guerra a ridosso delle
mura.
Oggi di
quella favolosa città resta appena l'ombra, semisepolta com'è ancora
dalla sabbia che, nel corso dei secoli, ha interrato il tratto di mare
che era stato chiuso dalla diga di Alessandro e poi ha ricoperto anche
il resto. E, a parte il porto fenicio, oggi oggetto di scavi
sottomarini, le vestigia sono in gran parte di epoca romana. Tra tutti,
i resti più spettacolari sono quelli dell'ippodromo.
Eretto
nel II secolo d.C, poteva contenere 20.000 spettatori e ha un campo da
corsa a forma di "U" diviso in due giri da segnali di pietra
(metae). A nord della costruzione sorgono i resti dell'acquedotto
romano, un arco di trionfo e una via fiancheggiata da sarcofagi scolpiti
a bassorilievo, mentre su un promontorio affacciato sul mare vi sono una
via colonnata con frammenti di mosaici bizantini del V secolo e le
rovine di un complesso termale. Dopo i romani fu la volta dei crociati,
i quali completarono l'opera di cancellazione delle antiche
testimonianze fenicie. E, prima della nascita di una nuova città araba,
nel XIII secolo venne sepolto a Tiro Federico Barbarossa, nell'attesa -
vana -che le sue spoglie regali potessero essere trasportate a
Gerusalemme.
