Rovine buddiste a Takht-i-Bahi 
e resti della vicina cittadina di Sahr-i-Bahlol 
Pakistan

 PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1980

    

La città di Peshawar è il capoluogo della North-West Frontier Province. E una terra aspra, abitata dai fieri pashtun e dai "signori della guerra" - e del traffico d'armi - tra il Pakistan e il martoriato Afghanistan. L'unica legge, qui, è quella del più forte. Poco più di duemila anni fa, su questo stesso territorio, fiorì uno dei più grandi imperi della civiltà dell'Indo, quello Kushana. Fondato dai discendenti dei soldati Alessandro Magno lasciati a guardia delle sue conquiste in Oriente, raggiunse l'apice del suo splendore nel II secolo d.C, quando, grazie a un lungo periodo di pace, si aggiudicò il controllo di quella che sarà nota come la Via della Seta, facendo da tramite per gli intensi scambi commerciali tra la Cina e Roma. 

Fin dagli albori dell'impero, i Kushana abbracciarono la religione buddhista e la loro ricchezza favorì la costruzione di città, monasteri e templi che vennero adornati con stupefacenti opere d'arte. 

Nota con il nome di "Gandhara", la scuola scultorea dei Kushana costituisce un unicum, e forse anche un paradosso, nella storia dell'arte orientale.

L'origine "greca" dell'impero, così come la sua posizione al crocevia di culture, portò i suoi artisti a interpretare l'iconografia buddhista in modo "occidentale", rappresentando il Buddha con un volto apollineo, circondato da tritoni, ninfe, centauri e tralci di vite. 

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Elementi, questi, propri dell'arte classica greca e romana che non trovano riscontro né nelle opere precedenti né in quelle successive del mondo orientale. Sono scarse le testimonianze dell'impero Kushana giunte fino a noi.

Ma proprio nella regione di frontiera tra Pakistan e Afghanistan si trova il Takht-i-Bahi, il monastero buddhista più imponente e meglio conservato della valle dell'Indo. 

Arroccato sulla cima di uno sperone roccioso alto 152 metri , proprio dove la piana di Peshawar incontra le alture dello Swat, il Takht-i-Bahi - il cui nome significa "Trono delle Origini" - sorse all'inizio del I secolo d.C. e restò attivo fino alla fine del VII.  

Song Yun, un viaggiatore cinese del II secolo, ha lasciato una testimonianza scritta su questo monastero, così come su Sahr-i-Bahlol, la città che sorgeva nei suoi pressi, raccontando di edifici maestosi, cinti di mura, che racchiudevano statue ricoperte di foglie d'oro. 

Di Sahr-i-Bahlol, su cui successivamente sorse un villaggio pashtun, restano le rovine di uno stupa - reliquiario buddhista a forma di cupola - e alcune pietre con iscrizioni a soggetto religioso in kharoshthi, la lingua dei Kushana. Quello che doveva essere il favoloso corredo statuario del Takht-i-Bahi è stato in gran parte rimosso, andato distrutto nel corso delle razzie compiute da indù e musulmani, succedutisi attraverso i secoli, o "portato al sicuro" dagli ufficiali dell'esercito britannico che riscoprirono il monastero nella seconda metà dell'Ottocento, o ancora è custodito nel museo di Peshawar. 

Ciononostante, il Takht-i-Bahi è un luogo straordinario. Costruito in granito grigio dalle sfumature verdi - lo stesso nel quale vennero forgiate le statue - il monastero ha un ingresso con due colonne dai capitelli corinzi che introduce alla "Grande Corte degli Stupa". Questo ampio spazio contiene 38 stupa votivi che racchiudevano statue di grandi dimensioni. 

Da qui, alcuni gradini portano al cortile del monastero delimitato su tre lati da edifici che un tempo erano alti due piani: fino a noi è arrivato solo quello inferiore, con le celle per i monaci e i pellegrini. Un passaggio porta alle cucine e al refettorio, mentre in cima a un'ampia scalinata c'è un'altra corte dove resta il basamento di uno stupa che probabilmente era alto 10 metri. Tutt'intorno si aprono alcune cappelle che recano intatte le volte ricoperte di stucco, la sala per le udienze e una terrazza.

Qui, coperte da una tettoia, ci sono le poche statue superstiti. Sono meravigliose e il Buddha ha le fattezze di un dio greco.