Çatalhöyük,
la più antica città
del mondo ad oggi conosciuta è stata costruita dagli Hatti a sud-est di
Ankara. E’ un importante centro abitato
di epoca neolitica dell’Anatolia, nella regione di Konya,
ai margini meridionali della pianura.
Çatalhöyük
è stata scoperta nel 1958 dall’archeologo inglese James Mellaart che
aveva individuato una doppia collina, attraversata da un fiume che
scendeva dal Tauro e si perdeva nella steppa. Sempre da Mellaart è
stata scavata tra 1961 e 1965 e ulteriori ricerche sono condotte da Ian
Hodder. Il sito è rapidamente diventato famoso al livello
internazionale per la sua grandezza, per le spettacolari pitture murali
e per alcune statuette raffiguranti la Dea Madre Anatolica (Cibele).
Questa
antica città ha subito diverse distruzioni e ricostruzioni, partendo
dal primo neolitico (8000-7000 a.C.); il sito archeologico è, per
questo motivo, articolato su vari strati per un’altezza di ben 19
metri, di cui i primi dieci sono stati datati usando il metodo del
carbonio 14. La storia di Çatalhöyük è abbastanza nota a partire da
circa il 6500 a.C., per cui vi sono circa duemila anni ancora da
studiare e decifrare.
Dare
un’età ad un reperto archeologico non è più un problema e molti
studiosi pensano che sarebbe logico modificare, entro certi limiti,
l’attuale divisione della preistoria, in quanto quello che vale per
l’Europa settentrionale non può essere valido per la Cina o per
l’Asia Minore. A Çatalhöyük, per esempio, nella così detta età
della pietra, erano già in uso manufatti di rame, che altrove non sono
presenti in quel periodo.

Il
villaggio era costruito secondo una logica completamente diversa da
quella moderna: le case erano monocellulari e addossate l'una all'altra;
essendo poi di altezze diverse, ci si spostava passando da un tetto ad
un altro e per molte case l'ingresso su quest'ultimo era l'unica
apertura. La circolazione e gran parte delle attività domestiche
avveniva dunque al livello delle terrazze.
L'assenza
di aperture verso l'esterno, nonché di porte a livello del terreno,
difendeva la comunità dagli animali selvatici e da eventuali incursioni
di popolazioni confinanti, anche se resta oscuro il livello di
conflittualità tra le diverse comunità dell'epoca. L'unica via
d'accesso all'intero complesso erano scale che potevano facilmente
essere ritirate in caso di pericolo.
A
Çatalhöyük ogni abitazione era divisa in due stanze. Quella più
grande aveva al centro un focolare rotondo ed intorno dei sedili e delle
piattaforme elevate per dormire; in un angolo c'era un forno per cuocere
il pane. La stanza più piccola era una dispensa per conservare il cibo:
tra una casa e l'altra c'erano dei cortili usati come stalle per capre e
pecore. Circa un terzo delle case presenta stanze decorate e arredate
apparentemente per scopi cultuali: sulle pareti, infatti, sono state
rinvenute pitture e sculture di argilla che raffigurano teste di animali
(qualcosa di analogo ai bucrani) e divinità (specialmente femminili,
legate al culto domestico della fertilità e della generazione). Queste
abitazioni non vanno pensate come santuari: il culto è ancora solo
domestico e dà conto di una "ossessione simbolica", quella di
un aggregato di umani che vivono a stretto contatto con i propri morti.
Gli
abitanti della città di Çatalhoyuk seppellivano i propri morti,
divisi per sesso, sotto il letto. Questi, prima di essere sistemati
sotto i letti, venivano esposti all’aperto in attesa che gli avvoltoi
procedessero ad una completa escarnazione, con lo stesso sistema usato
ancora oggi in India ed in Persia, dove i cadaveri sono depositati nelle
cosiddette Torri del Silenzio.
Secondo
un principio molto antico la parte essenziale dell’uomo sono le ossa,
perché la carne si deteriora e quello che si seppelliva sotto il letto
non era il cadavere, bensì l’”imperituro”, cioè le ossa.
Talvolta era riposto non lo scheletro intero, ma solo una singola parte,
come il cranio che veniva elaborato mediante l’uso di un colorante e
di conchiglie inserite nelle orbite.
La
tumulazione dei morti in casa presumeva un sentimento di amore verso di
loro, in quanto essi continuavano a fare parte della famiglia anche dopo
morti, godendosi il sopore eterno nel focolare domestico.
Fra i
ritrovamenti relativi alla cultura materiale sono da segnalare
l'abbondante produzione ceramica (via via lustrata chiara, poi scura,
poi ingubbiata di rosso, ma non ancora dipinta, come poi accadrà nel
neolitico anatolico e la raffinata industria litica, realizzata per il
90% in ossidiana, pietra vulcanica vetrosa di cui la regione è ricca e
di cui è attestato un intenso commercio locale fin dall'epoca
protostorica.
Lo
schema economico di base è quello tipicamente agro-pastorale, ma si
segnalano scelte ardite, quali quella di coltivare frumento invece che
orzo e quella di allevare bovini invece che caprovini.
Probabilmente
a seguito di un incendio o di un catastrofico evento naturale (forse
un’eruzione vulcanica) Çatalhöyük venne abbandonata intorno al 5700
a.C. La città millenaria era distrutta ma la civiltà degli hatti era
vitale e solida infatti venne fondata una nuova città nei pressi della
precedente: Çatalhöyük Ovest, che fu abitata per circa 700 anni e poi
abbandonata anch’essa a causa di un incendio. Successivamente, vennero
fondate altre città, divenute ora famosi siti archeologici, in cui
l’assetto urbanistico e la tipologia mostrano l’evoluzione della
civiltà degli hatti: Mersin-Tarso, Can Hasan, Beycesultan, Troia, Alaca
Hoyuk, Kultepe. Sarà proprio da Kultepe che comincerà la comparsa
degli ittiti.
Gli
Hatti parlavano una lingua non indoeuropea, connessa con quella dei
Khaldi/Kardu. Alla fine questo popolo si mescolò o fu rimpiazzato dagli
Ittiti, che parlavano una lingua indoeuropea.
