Agrigento e la Valle dei Templi
  
  

Chiesa di San Calogero

Poco fuori Porta di Ponte, procedendo oltre i giardinetti con cui il colonnello borbonico Fleres volle decorare un secolo e mezzo fa l’ingresso della città, svetta la Chiesa dedicata dagli Agrigentini al Santo a loro più caro, l’eremita San Calogero, uno dei santi più amati e venerati nella Sicilia occidentale e in particolare in diversi centri dell’agrigentino (oltre al capoluogo, Sciacca, Naro, Porto Empedocle, Aragona in particolare).

Non molti edifici religiosi vennero costruiti nei secoli passati fuori dalle mura chiaramontane che circondavano la medievale Girgenti, ma gli Agrigentini vollero che la chiesetta venisse innalzata proprio sul luogo (allora piuttosto impervio ed alle falde della Rupe Atenea) dove la tradizione indica le grotte in cui il Santo avrebbe trovato rifugio durante la sua permanenza in città.

Tra gli estimatori del Santuario troviamo l’artista siracusano Raffaello Politi, che trasferitosi ad Agrigento nel 1804 vi rimase sino alla morte e fu a lungo custode delle antichità della città. Nell’opera, “Il viaggiatore in Girgenti e il Cicerone di piazza, ovvero guida agli avanzi di Girgenti” (1826), Politi ha accenni di ammirazione per la chiesa sancalogerina, che definisce: “la più graziosa di tutte per la sua leggerezza e semplicità architettonica”.

Appare tuttora incerta la data di fondazione della Chiesa. Alcuni studiosi ritengono che il Santuario risalga almeno al XIV secolo, ma è comunque certo che nel 1573, considerata la vetustà del piccolo Santuario medievale dedicato a San Calogero e la sempre maggiore affluenza dei fedeli, ben 86 notabili agrigentini ottennero l’autorizzazione a ricostruire il tempio.

Fonti d’archivio (datati 4 dicembre 1573) ritrovati dal sacerdote Salvatore La Rocca (che al culto di San Calogero ha dedicato diverse opere) attestano infatti che esisteva sullo stesso luogo una chiesa dedicata al santo eremita e che i Giurati di Agrigento (i baroni Pietro del Porto, Pietro Montaperto e il vicario generale della Diocesi mons. Giacomo Sanfilippo), col consenso del vescovo, mons. Hoxeda, furono lieti di autorizzare i lavori richiesti dai notabili della città per migliorare l’edificio. Gli interventi sulla precedente struttura medievale furono piuttosto laboriosi perché l’edificio venne notevolmente ampliato e ristrutturato ed affrescato da un artista di cui non ci è pervenuto il nome. Il tetto ligneo era tra le parti più ammirate.

Quattro secoli fa questo luogo era remoto e solitario. Anche se non distava certo molto da Porta di Ponte, tuttavia, tra questa Porta e la Chiesa di San Calogero vi è stato per molto tempo un fossato, che solo nel secolo scorso è stato colmato, ma che fino ad allora ha reso piuttosto impervia la località; tanto che per gli Agrigentini, per secoli, quella chiesetta assunse quasi l’aspetto di un eremo e veniva pertanto indicata come “u rimitaggiu di San Caloriu” (l’eremo di S. Calogero).

Nella piccola Chiesa di San Calogero si costituì il 30 giugno 1595 anche una confraternita di cittadini di diverso ceto, fra i quali figuravano anche nove ecclesiastici, un principe chierico, Vincenzo Pitruzzella, 5 spettabili, 16 magnifici, 7 notabili (tra cui un notar Gerlando de Maxara); 47 onorabili, maestri e un personaggio più umile, un certo Nardo Bonanno, in rappresentanza del popolo.

I confrati manifestarono sin dall’inizio l’intenzione di celebrare ogni anno la festa di San Calogero. Il vescovo Hoxeda accolse benevolmente la Confraternita e la benedisse dicendo di condividerne i benefici scopi. Un suo successore, il vescovo Orosco de Leiva approvò nuovi capitoli della Confraternita che nel mentre aveva aperto le porte a molti figli del popolo. La Confraternita continuò ancora per diversi anni il suo cammino e tra l’altro diede incarico ad un artista rimasto sconosciuto di realizzare la statua che ancora oggi viene portata in processione, che è infatti d’epoca certamente non posteriore al 1600.

Da allora nel mese di luglio si videro in città, in occasione della festa dedicata a San Calogero, i Confrati che sfilavano processionalmente con le torce, coperti con mantelli e sacchi; calzavano semplici sandali e chiedevano umilmente l’elemosina. E’ probabile che venisse condotta in processione anche un’immagine del Santo (probabilmente una statua).

La Confraternita rendeva alla fine conto al Vescovo delle elemosine raccolte e del reddito della Chiesa e questi fondi servivano soprattutto a compiere i necessari lavori per migliorare l’aspetto della chiesetta e per costruire un oratorio. Difatti nel XVII secolo, quando era a capo della Chiesa agrigentina mons. Francesco Gisulfo (1653-1664), la chiesa subì nuovi interventi: vennero tolti gli archi a sesto acuto e le finestre a feritoia e furono realizzate nuove finestre rettangolari. All’interno l’artista Michele Blasco da Sciacca realizzò nuove decorazioni, una serie di stucchi e gli affreschi con i quattro Evangesti e San Gerlando.

Nei secoli successivi la chiesetta venne ancora abbellita con altre opere raffiguranti San Giacomo, San Paolo, Sant’Emiliana e con i medaglioni di San Barnaba, San Mattia, San Filippo, Sant’Eufrosina, San Simone ed altri che ancora nel 1927 era possibile ammirare, prima, cioé, dei lavori di restauro realizzati in quell’anno e che tra l’altro hanno ripristinato le antiche finestre a feritoia che si trovano sul prospetto laterale ed hanno rinnovato la facciata anche con la realizzazione di nuovo elegante portale di stile trecentesco. Altri interventi sono stati realizzati nel 1938, nel 1950 e in anni assai recenti ed hanno permesso il recupero dell’altare centrale e del tabernacolo oltre che arricchito la chiesetta di nuove decorazioni.

Negli ultimi anni la piazzetta antistante l’ingresso principale è stata meglio pavimentate e sistemata e su di essa si eleva una più agevole scalinata.

Nel XVII secolo venne realizzato accanto alla chiesa un conventino, in cui oggi sono ubicati alcuni uffici pubblici, ma che nei secoli passati ha alloggiato vari ordini religiosi, l’ultimo dei quali fu quello dei frati minori del convento di San Vito che nel 1863, con la soppressione degli ordini religiosi, videro espropriato il proprio convento e trasformato in carcere. Anche le opere d’arte che prima erano sistemate nel suddetto convento vennero pertanto collocate a San Calogero ed ancora oggi si possono ammirare. Ci riferiamo in particolare al Crocifisso ligneo realizzato da Frate Umile da Petralia nel 1637, alla bella statua lignea raffigurante San Diego, ad una Madonna con Bambino di stile gaginesco, alla statua di San Pasquale ed alla Pietà.

Si tratta delle uniche opere oggi esistenti all’interno del Santuario.

Durante le varie trasformazioni subite i preziosi affreschi che ne ornavano la volta e le pareti sono andati, infatti, completamente distrutti. Il campanile è stato rivestito in cotto ed ha assunto una forma piuttosto moresca che riecheggia i motivi del campanile della Chiesa di San Domenico. La Chiesa è stata elevata a Santuario nel 1977 grazie ad un decreto del Vescovo, mons. Giuseppe Petralia.

La statua di San Calogero che si trova sopra l’altare si conserva con molto amore. Raffigura un vecchio alto e forte, col volto scuro, vestito da monaco antico, con una lunga barba che gli scende sul petto e l’aureola. Sta assorto, nella lettura di un libro, che ha aperto sulla palma destra, mentre tiene la sinistra poggiante ad un lungo bastone ferrato rivestito d’argento. La statua che si trova sopra l’ingresso principale, in una nicchia, ha un panneggio diverso ed inoltre presenta una cassetta, in forma di piccolo baule, attaccata all’avambraccio destro e una fida cerva, rannicchiata accanto al Santo.

In sagrestia si possono ammirare molti attestati di grazie ricevute (gli ex-voto). Si tratta di quadretti che descrivono con disegni assai semplici, ma efficaci, eventi miracolosi e in genere riportano il ritratto del fedele che ritiene di avere ottenuto da San Calogero una straordinaria grazia; invocando il Santo, ad esempio, ha ottenuto la sua intercessione ed ha avuto la vita salva, dopo un grave incidente o una grave malattia.

Riguardo, poi, all’altra intenzione della confraternita, di promuovere cioè la devozione a San Calogero e di un’organizzarne un annuale festa ricordiamo che alla fine del secolo XVI il Cardinale della Curia romana, Simone Aragona, approvò l’ufficio e la messa da celebrare nella festa di San Calogero che il sacerdote di Sciacca Andrea Argomento aveva composto.

Sia l’ufficio che la Messa vennero approvati successivamente anche dal Papa Clemente VII, con decreto del 3 giugno 1598 per tutta la Sicilia. Ciò fu considerato un importante riconoscimento e diede impulso al culto e alla festa del Santo.

Circa la festa annuale al Santo diremo inoltre che, dopo i primi anni di fervore religioso, già nel secolo XVII, quando la stessa Confraternita cessò di esistere – e non sappiamo bene perché – anche la festa di San Calogero perse alcune caratteristiche originarie e cominciò ad assumere quella dimensione molto più popolare che ha oggi. La festa nei secoli passati arrivò a durare anche un mese (mentre oggi si svolge nella prima settimana di luglio) e si caratterizzò sempre di più come il momento più alto della religiosità popolare locale. In poco tempo riuscì a divenire il vero festino di Agrigento, ottenendo un successo assai ampi.

Alla festa venne associato un mercato e divenne la manifestazione più vivace durante l’anno del mondo contadino agrigentino. I semplici e umili devoti contadini, infatti, hanno dato vita nei secoli a festeggiamenti meno pomposi e forse anche meno ordinati, ma pieni di passionalità, spesso fino all’irriverenza, tanto che qualche Vescovo ha dovuto minacciare pene severissime nei confronti di coloro che, per esempio, davano la scalata all’altare prima che terminasse la Messa per arrivare prima degli altri a prendere possesso della statua e condurla a spalle in processione (in questo senso si esprime anche un documento del Viceré del 1756).

Ma spesso inutili erano, allora come oggi, questi moniti, perché era (ed è) pressoché impossibile frenare gli entusiasmi di un popolo in estasi per il Santo delle Grazie.

Santuario dell'Addolorata

Si tratta di uno dei santuari più amati dai fedeli agrigenti, sede di una delle più antiche confraternite della città, quella appunto di Maria Santissima dei sette dolori. Sorge nella popolare via Garibaldi, una strada dell’antico Rabato.

La sua costruzione risale al 1656. L’edificio è stato anche di recente restaurato in tutte le sue parti.

La sua struttura è molto semplice: presenta una sola navata ed anche la facciata è piuttosto sobria e con un ingresso costituito da una porta con una decorazione barocca. Il campanile è costituito tra l’altro da tre edicolette, ornate da capitelli corinzi e frontoncini. All’interno del santuario troviamo, sopra l’altare maggiore, la bella statua lignea della Madonna dell’Addolorata (secolo XVIII) di Filippo Quattrocchi (1764-1818).

Vi si custodiscono inoltre una copia della Deposizione di Apelle Politi, artista agrigentino del secolo scorso e diverse tele di Domenico Provenzani, tra cui segnaliamo “La Natività di Gesù”; ” Gesù Bambino tra i dottori”;” L’ultima Cena;” Gesù che incontra la madre sulla via Crucis”.

Le pareti presentano stucchi di ispirazione serpottiana. Lungo le pareti laterali vi sono gli altari minori dedicati al Crocifisso e al Sacro Cuore di Gesù.

Basilica dell'Immacolata Concezione o San Francesco

La Basilica di San Francesco d'Assisi o dell'Immacolata, è una delle chiese più grandi della città.

Secondo alcune fonti il complesso monumentale, che includeva la chiesa e il convento dei frati francescani minori, fu edificato nel XIV secolo per volere della famiglia Chiaramonte. Nel sacro edificio trovarono sepoltura gli antichi signori di Agrigento.

Eretta nella forma attuale nel 1788, la Chiesa, fatta di tufo arenario, presenta una facciata in stile barocco a tre ordini, con due imponenti torri campanarie e una statua del Santo in marmo bianco; sul campanile, invece, è posta la statua della Madonna col Bambino. Per volere di Pio XII la chiesa fu nominata Basilica dell’Immacolata. 

L'interno, a navata unica, si possono ammirare gli affreschi del palermitano Sebastiano Consoli, la Madonna della Catena di scuola gaginesca, e il preziosissimo Crocefisso ligneo del ‘700 di Vittorio Cardinale. 

Durante l'ultimo conflitto mondiale subì gravissimi danni e, grazie al parroco monsignor Michele Sclafani che ne promosse il restauro, si diffusione in città il culto dell’Immacolata e ottenne anche di consacrare il capoluogo alla Vergine. Oggi la festa dell’Immacolata ad Agrigento è tra le più attese e seguite.

Addossato alla Chiesa si conservano ancora i resti di uno dei più antichi conventi della città, quello chiaramontano dedicato al Santo di Assisi. Alla fine degli anni novanta, gli spazi sottostanti la Basilica sono stati oggetto di restauro che li ha resi di nuovo fruibili. L’Associazione Amici della Pittura Siciliana dell’Ottocento acquisì  in locazione il sito per adibirlo a spazi espositivi. 

Anche il giardino antistante è stato oggetto di un corposo restauro allo scopo di uniformare l’ambiente esterno ai luoghi interni permettendone l'utilizzo come sede di incontri culturali.

Alla struttura espositiva è stato dato il nome di Fabbriche Chiaramontane. FAM è l’acronimo di “Fabbriche Chiaramontane, Arte Moderna Galleria Permanente”.

Basilica Santa Maria dei Greci

Le viuzze ed i cortili della città medievale di Agrigento, ci accolgono con quell’atmosfera impregnata di semplicità e odore proveniente dai giardini nascosti fra le case.

Il cielo terso e l’aria frizzante ci invogliano a rallentare il passo per gustare la pace ed il silenzio che avvolgono le stradine dominate dagli austeri palazzi nobiliari ancora capaci di sprigionare l’antico fascino.

Dalla via S. Vincenzo, costeggiando l’artistico palazzo Maraventano-Iacono, arriviamo nella via Santa Maria dei Greci.

L’omonima chiesa ci appare subito davanti nell’eleganza del suo prospetto nord appena restaurato, dove l’antico e il moderno si armonizzano in un accurato susseguirsi di linee architettoniche.

Con lo sguardo accarezziamo il tufo che emerge dal moderno intonaco mentre, mentalmente, lo confrontiamo con l’immagine deprimente che offrivano quelle strutture prima dei lavori di restauro.  

Svoltato l’angolo con la via Manetta, entriamo nel cortiletto antistante la chiesa e subito a sinistra notiamo le arcate del porticato che prima era inglobato nelle mura della casa e da dove si apriva il cunicolo sotterraneo che conduceva ai gradoni del crepidoma del tempio greco sulle rovine del quale fu edificata nel XII secolo la chiesa.

Lo scrittore greco Polieno (II sec. D.C.) racconta che durante la tirannia di Terone, in quel sito fu eretto un tempio, del tutto simile agli altri presenti nella mitica “Valle dei Templi”, dedicato ad Athena. Era un periptero, con cella munita di pronao e opistodomo, delle dimensioni di m. 34,70×15,30, munito di 13 colonne sul lato lungo e 6 su quello corto.

Dopo l’abbandono della città greca, e la conseguente urbanizzazione del Colle di Girgenti da parte degli abitanti, il tempio di Athena (o di Giove Polieo per alcuni studiosi) venne trasformato in chiesa cristiana, divenendo la prima Cattedrale di Girgenti entro le mura.

Per diversi secoli la piccola chiesa, che dominava la collina finché la costruzione di case ed edifici signorili non finì con l’occupare tutto lo spazio circostante soffocandola, custodì il prezioso segreto che celava nelle sue fondamenta.

La scoperta del tempio greco si deve al chierico teatino Giuseppe Maria Pancrazi, il quale seguendo la descrizione fatta da Polieno (VI, 51), ne individua un tratto del lato meridionale del crepidoma sormontato da sei filari di muratura. Della sua scoperta, il religioso parlò nella sua opera “Antichità siciliane spiegate”, allegandovi un disegno che illustrava il manufatto.

Viaggiatori e scrittori di tutte le epoche, visitando Agrigento, si sono voluti recare sul sito poiché esso costituiva uno dei pochi esempi, in Sicilia, di trasformazione di un tempio pagano in cristiano.

Dal cunicolo sotterraneo, si poteva vedere parte del crepidoma, con tre gradoni per una lunghezza do m. 22,50, e i tamburi inferiori di sei colonne. Altri elementi del tempio sono stati incorporati nelle mura della chiesa o asportati totalmente.

In uno suo disegno, Raffaele Politi, ci fa pervenire l’esterno della chiesa prima della sistemazione dell’area circostante. Nell’elaborato si vede una struttura prismatica, sul lato ad oriente, sormontata da un campanile che copre l’abside centrale e, inoltre, sul fianco a settentrione al di sopra del piano stradale, cinque tronchi di colonne che successivamente furono foderate e inglobate a nicchia all’interno della chiesa, dopo essere state acconciamente tagliate, come ancora oggi si possono ammirare. La realizzazione della via Gubematis ha cagionato, poi, la totale scomparsa del fronte orientale del tempio.

La chiesa dalle tre navate e dal soffitto ligneo ha molte somiglianze con la cattedrale di San Gerlando.

Al suo interno si conserva un sarcofago in marmo, che custodisce le ossa dei nobili palermitani Bartolomeo Caputo e Isabella Termini, e un affresco parietale quattrocentesco.

Nel corso degli anni la chiesa è stata oggetto di studi ed interventi, tra i quali gli scavi condotti dal Soprintendente Pietro Griffo che ha permesso di determinare meglio la tipologia e le caratteristiche del tempio.

I lavori di restauro sono durati circa due anni, con interventi di grande difficoltà, al termine dei quali è stato raggiunto un risultato eccezionale.

Parte della pavimentazione interna, è stata realizzata in vetro speciale che permette di ammirare il crepidoma e l’antica cripta, successivamente utilizzata per sepolture, ricavata da una più antica vasca, di un’altra più profonda vasca di forma tronco-conica scavata nella roccia della collina. Nei vani sottostanti il caseggiato sono stati rinvenuti altri importanti e singolari resti archeologici di grande interesse scientifico, che non erano stati mai oggetto di scavo, né di studio. Si tratta in particolare delle sottofondazioni del tempio greco, del terminale occiden tale dello stesso e di singolari ed unici resti risalenti probabilmente al periodo paleolitico, a dimostrazione della presenza dell’uomo sulla collina, prima ancora della venuta dei Greci.

Nei locali esistenti attorno alla chiesa, espropriati e oggetto di recupero, sono stati ricavati degli spazi che, opportunamente arredati, saranno destinati ad “Antiquarium” e sale per mostre e convegni.

Il monumento, grazie agli scavi archeologiche alle indagini diagnostiche effettuate, è stato interamente studiato, coinvolgendo in questa meravigliosa ed emozionante esperienza progettisti, direttori dei lavori, imprese esecutrici e maestranze tutte, che con sensibilità e impegno si sono accostati a questo autentico gioiello sintesi dell’architettura greca, medievale e moderna.

Chiesa di San Nicola

Incastonato tra i mandorli e gli ulivi secolari della campagna agrigentina, a poco più di un chilometro dalla città, ma a pochi passi dall’ecclesiasterion e dall’oratorio di Falaride, troviamo uno dei maggiori esempi di gotico cistercense presenti in Sicilia, la chiesa di San Nicola.

La sua costruzione probabilmente risale all’ XI secolo poiché un documento rinvenuto dallo storico Rocco Pirri indica chiaramente l’esistenza già nell’anno 1181 della contrada intitolata San Nicola e un secondo atto, datato gennaio 1219 così recita: “Nell’anno 1219, nel mese di Gennaio, il nostro Ursone (vescovo) col concorso dei suoi canonici cedette a Pellegrino, Priore di Santa Maria in Adrano ed alla congregazione, il monastero che a causa delle guerre era stato distrutto. Parimenti la Chiesa di San Nicolò che è fuori la città vecchia insieme alle terre…”. Qualche tempo dopo il suddetto priore edificò accanto alla chiesa un cenobio che divenne il convento dei monaci cistercensi, che si erano allora stabiliti ad Agrigento.

Nell’anno 1223 inoltre Pellegrino e la sua congregazione vendettero al vescovo di Agrigento Ursone alcune terre con relativo canneto “in commutazionem ecclesiae S. Nicolai” (in cambio della Chiesa di San Nicola).

Lo studioso agrigentino Alessandro Giuliana Alaimo ha rinvenuto tra le carte dell’archivio Capitolare di Agrigento altri documenti riguardanti la storia della Chiesa e del Convento. Da uno di questi documenti in particolare (del 1322) risulta che il benedettino Pietro ricevette mandato dal vescovo agrigentino Bertoldo de Labro di ricostruire l’abbazia e la chiesa di San Nicola per riportarle al primitivo stato, poiché erano state danneggiate. Finalmente nel 1417 il papa Martino V diede facoltà a Beato Matteo Cimarra, frate minore di Agrigento, di erigere in Sicilia cinque conventi di Minori Osservanti, dei quali il primo vide la luce a Messina, il secondo a Palermo (sotto il titolo di Santa Maria di Gesù), il terzo ad Agrigento nel 1426 (gli altri due sorsero a Cammarata e a Caltagirone).

Così Matteo Cimarra edificò a spese del Re il secondo monastero francescano di Agrigento (innalzandolo sull’antico cenobio cistercense) e volle dedicarlo a San Nicola.

Lo storico Tognoletto così descrive, nell’opera “Paradiso Serafico del fertilissimo Regno i Sicilia” (stampato a Palermo nel 1667), alcuni momenti della vita del beato Agrigentino: “Nel medesimo anno 1426 partitosi da Palermo se ne andò in Giorgiento sua patria dove arrivato, e dopo essere stato dalli suoi paesani invitato, per fondare il terzo convento (della Sicilia) mossi da santa invidia per avere fondato quello di Messina e Palermo; gli diedero per abitazione un convento con la chiesa dedicata a San Nicola Vescovo posto al luogo dove anticamente era il palazzo di Fallari tiranno di Giorgiento, dove abitavano innanzi monaci cistercensi il quale monsignor Urso Vescovo di detta città l’anno 1219 nel mese di Gennaio lo cesse, e diede a fra Peregrino Priore di Santa Maria di Adriano del detto Ordine, ma in detto anno 1426 l’ottenne il Beato Matteo e l’anno 1430 con l’aiuto di certa limosina assignatale da re Alfonso, si finì”.

Il beato Matteo però non riuscì a completare la costruzione del San Nicola che venne portata a termine nel 1669-70 da Fra Bonaventura Sciascia. Ma poco più di un secolo dopo, nel 1789, il convento francescano venne soppresso e tornò in possesso del Vescovo.

Certamente il visitatore è innanzitutto attratto dal suggestivo portale gotico. La facciata ha delle piccole sculture in marmo che raffigurarono i santi Giorgio, Pietro e Paolo e inoltre presenta due poderose ante che sorreggono una cornice in forte risalto. Sopra il portale è evidente l’emblema francescano.

La chiesa è in stile piuttosto rustico nel complesso ed è tutta avvolta di quel tufo conchigliare che è presente ovunque nella Valle dei Templi. Misura otto metri circa di larghezza e ventiquattro di lunghezza. Ad essa si accede da un portone di legno del XVI secolo realizzato dall’artista Angelo Di Blundo. 

L’interno è ad una navata ed appare poco rifinito, così da sembrare quasi incompleto. Ha tuttavia uno sviluppo di grande armonia, ben proporzionato: la volta ogivale è sostenuta da grandiosi costoloni, mentre le imponenti arcate sostengono un massiccio cornicione. Sulla parete di fondo, all’interno della chiesa, si aprono cinque arcatelle rinascimentali dentro le quali vi sono affreschi cinquecenteschi raffiguranti figure di santi.

Le opere poste ai lati dell’altare maggiore, sulla stessa parete, raffigurano San Corrado (a sinistra, 1574) e Sant’Onofrio (a destra, 1575).Nel coro vi sono altri affreschi forse del XV secolo e un grosso frammento di trabeazione classica inserito sulle pareti.

Delle due originarie navate rimane oggi solo quella di destra, dove si trovano le Cappelle: nella prima vi è una bellissima statua di marmo rappresentante la Madonna col Bambino, ritenuta opera del Gagini; nella seconda si trova l’altare del Sacramento e il Signore ligneo, detto comunemente “Signore della nave”; nella terza cappella è conservato il sarcofago di Fedra; sul retro vi è il coro dei cistercensi con l’attiguo chiostro, da dove si può vedere l’abside, a forma quadrangolare, con fregio dipinto su una trabeazione.

Da alcuni anni viene riproposta la bella Sagra del Signore della Nave, una delle più belle tradizioni locali. Festività legata al suddetto Crocifisso e che ha ispirato un omonimo lavoro teatrale di Luigi Pirandello.

Monastero e Chiesa di Santo Spirito

Nei secoli XIV e XV la storia della Sicilia è caratterizzata dall’anarchia baronale. Alla morte del sovrano Federico IV il semplice, avvenuta a Messina il 27 luglio 1377, l’autorità sovrana si trasferì in una fanciulla di quindici anni, Maria, contro le ambizioni di Pietro IV d’Aragona che rivendicava per sé il diritto al trono. In mancanza di una diffusa democrazia cittadina, i grandi baroni dell’Isola rappresentarono l’unico autentico potere politico, fino a quando non riuscirono ad imporsi gli Spagnoli. Una delle maggiori famiglie dell’epoca, la più illustre ed importante, fu quella dei Chiaramonte, di origine normanna (infatti il nome deriva dal francese “Claire- Mont”), che già nel secolo XI deteneva grandi feudi a Capua e in Basilicata.

Durante il periodo angioino, i Chiaramonte si trasferirono in Sicilia ma contribuirono all’affermazione degli Aragonesi. Stabilitisi nella città demaniale di Girgenti (Agrigento), dal matrimonio tra Federico I Chiaramonte e la girgentina Marchisia Prefoglio nacquero tre figli, Manfredi, Giovanni I, detto il Vecchio, e Federico II, che avviarono quell’ascesa familiare che li farà divenire la più potente famiglia dell’Isola al tempo degli Aragonesi.

Manfredi divenne, infatti, conte di Modica e Caccamo e Gran Siniscalco del Re; Giovanni fu Conte di Chiaramonte nella Val di Noto e si distinse nella guerra del Vespro e infine Federico II ebbe la signoria di Racalmuto e Siculiana.

Tra alterne fortune, i Chiaramonte, prima schierandosi contro i francesi, che insistevano nei loro tentativi di riconquistare l’isola, e poi capeggiando la resistenza contro l’aristocrazia catalana immigrata, furono al centro degli eventi del secolo, fino alla rivolta contro il re Martino I. Andrea, uno dei discendenti di Federico I, fu catturato e decapitato a Palermo nel 1392, segnando così la fine di questa illustre casata.

Ma i rampolli di questa illustre famiglia vollero primeggiare in quegli anni anche in mecenatismo, volendo forse continuare in Sicilia quello splendido rapporto di protettorato militare e culturale che i loro ascendenti normanni ebbero con i grandi Pontefici del passato. A quegli eventi è legata la realizzazione ad Agrigento di uno dei più bei monumenti del periodo chiaramontano: il monastero di Santo Spirito.

Dal documento originale di fondazione e donazione del partenio di Santo Spirito risulta che donatrice ne fu Marchisia Prefoglio, moglie di Federico Chiaramonte. Così attesta infatti l’atto di donazione del 27 agosto 1299 stipulato presso il notaio Giovanni di Amarea di Girgenti (interamente trascritto dallo storico Inveges): “Ea propter nos Marchisia de Prefoglio… de nostro patrimonio fundavimus seu fundari facimus in praedicta civitate agrigentina infra eius moenia quoddam Monasterium Sancti Spiritus noncupatum” (Quella dinanzi a noi Marchisia Prefoglio… del nostro patrimonio abbiamo fondato e faremo fondare in detta città agrigentina dentro le sue mura un Monastero di Santo Spirito). Da cui si evince innanzitutto che il monastero era gia esistente ed era stato per suo volere costruito, mentre il rogito che viene citato nell’atto attesta che era gia abitato nel 1299 (“in quo quamplures mulieres moniales et honestae commoratur”: in esso si fermano molte monache nobildonne e oneste).

La donazione veniva fatta a favore di Roberto, abate di Santo Spirito di Palermo, e a frate Taddeo di Aversa, commissario del monastero di Casamari e comprendeva, oltre al Monastero, alcune terre e case, comprese una bottega e due mulini, i censi di 28 case ubicate nei pressi del monastero, cinque schiavi, vari capi di bestiame, buoi, ovini, suini, cavalli.

Purtroppo, essendo andato distrutto l’archivio per l’incuria di chi avrebbe avuto interesse a conservarlo, la documentazione è scarsa e le lacune storiche, nel ricostruirne la vita attraverso i secoli sono numerose. Le fonti ad esempio nulla ci dicono intorno a coloro che parteciparono alla costruzione di questo straordinario monumento.

Da un’antica giuliana (calendario) esistente nell’archivio del Monastero risulta con certezza che esisteva nel 1295 una comunità formata ed operante ed il fabbricato era stato costruito o era in via di ultimazione, poiché due atti notarili stipulano la donazione ad esso di due case e la permuta di alcune fosse e di una pagliera con terreno vacante. Si tratta di un atto del gennaio 1295 del notaio Pietro de Vanusio che attesta che un certo Salvo e Giovanna di Turano donarono al Monastero agrigentino due case del borgo di San Francesco e l’anno seguente perfezionarono la donazione con la “permutatio della medietà di terra vuota coi limiti di una botteca e di un palazzo” che si trovavano nel borgo di san Michele.

In quel tempo esisteva una tradizione benedettina e cistercense in Girgenti e nel suo territorio, un Nicolò Chiaramonte, Vescovo di Tuscolo e cardinale al tempo di Onorio III, apparteneva all’ordine dei Cistercensi; ciò spiega il fatto che la nobildonna, nel fondare il grande Monastero di vergini di Santo Spirito (come lo chiamano il Mongitore e l’Amico), chiedesse che questo andasse soggetto alle dipendenze dell’Abate del Cenobio di Casamari.

Come Casamari, questo Monastero divenne centro e focolare di cultura intellettuale. Sappiamo che nel 1321, quando esso contava già 15 monache, era sede di attività di insegnamento, di “lettura e di abaco per le figliole di gentili homini e persone di abeni”, come recita un documento del 1400, esistente nell’Archivio di Stato a Palermo.

Occorre inoltre ricordare che il Monastero era stato ubicato sul luogo dell’antico Steri (palazzo) della famiglia Chiaramonte. Probabilmente esso è stato demolito e dalle sue ceneri è sorta la nuova costruzione. Ma può è probabile anche che sia stato adattato o integrato. Gli studi sugli elementi architettonici non ci sono di alcun conforto intorno a queste ipotesi. Nel 1310 Manfredi Chiaramonte, uno dei figli della Prefoglio, ottenne dal Vescovo Bertoldo de Labro l’autorizzazione a costruire per la sua famiglia un nuovo Steri presso la Cattedrale (oggi ospita il Seminario vescovile).

Dalla tradizione è risaputo poi che fino al tardo secolo XVIII, il Monastero ha avuto vita gloriosa e le venerabili Abbattesse appartenevano alle famiglie che per nobiltà primeggiavano in Sicilia.

I maggiori monumenti edificati dai Chiaramonte ad Agrigento furono: lo Steri, il Monastero e la Chiesa di Santo Spirito ed i conventi di san Domenico e di san Francesco; a Palermo invece furono: il Chiostro di san Domenico e le Chiese di Sant’Agostino e San Francesco.

In tutte queste opere si possono riscontrare i segni dell’arte chiaramontana che ebbe grande sviluppo durante il 1300. “Portali e finestre sono gli elementi con cui preferisce esprimersi questa maniera artistica – scrive Andrea Carisi -. Infatti, principalmente in queste costruzioni, come, anche se in parte minore, nelle opere architettoniche, si può notare in che modo lo stile chiaramontano fosse costituito da residui latini e bizantini, soluzioni tecniche e manodopere arabe, stili mormanno-svevi, influenze aragonesi e catalane, debitamente mescolate, individuabili in un particolare o in un altro, fanno del complesso monumentale, qualcosa di eclettico che ritrova proprio in questo eclettismo l’elemento caratterizzante e unificante delle costruzioni chiaramontane in particolare, e di tutta l’architettura siciliana del 1300 in genere, sino a costituire un modello suggestivo per i secoli successivi.

La pianta basilicale latina, le nicchie arabe, le finestre goticizzanti, l’uso dell’arco e della volta arabo- normanna a struttura incrociata, l’esterno dove i vuoti delle finestre, benché frequenti ed ampi, non contraddicono l’uniformità e la maestosità dei muri esterni, ma evidenziano la natura composita della comunità cittadina di allora”.

E’ assai difficile comprendere oggi quale articolazione avesse la pianta dell’edificio in origine, poiché specialmente negli ultimi tre secoli sono state apportate numerose modifiche sulla primigenia struttura.

L’intero complesso sorge su una piazzetta quasi quadrata ed è costituito da una Chiesa ad unica navata e dal Monastero composto da ambienti in doppia elevazione.

La facciata dell’edificio, prospiciente sulla piazzetta, è stata profondamente alterata per l’aggiunta del piano più alto rifatto in stile barocco; così come la torretta campanaria della chiesa annessa al Monastero.

La parte monumentale del fabbricato antico che è pervenuta ai nostri giorni presenta un piano terreno ed un primo piano. Il piano terreno è costituito soprattutto dalla cappella ed accanto dall’aula capitolare (di metri nove per otto).

Nella facciata barocca della Chiesa spicca il bellissimo portale a sesto acuto, largamente modulato con triplice archivolto, di stile chiaramontano e sormontato da un ricco rosone. Nel Seicento è stata aggiunta la cella campanaria.

L’interno si sviluppa a pianta rettangolare ad una navata, con soffitto cassettonato e con la cantoria nella parte anteriore, sostenuta da quattro colonne. Sulle pareti, dentro quattro quadroni dietro l’altare maggiore si stende il candido manto delle sculture in stucco di Giacomo Serpotta. Le scene raffigurano episodi del Nuovo Testamento : la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto. Nella superficie di fondo della parete centrale è rappresentata la Gloria con il Padre Eterno, la colomba dello Spirito Santo e le figure dei Santi Bernardo e Benedetto.

“In questi stucchi, tutti eseguiti con la tecnica dell’altorilievo, figure di putti, simbolo della vita al suo nascere, sgusciano per ogni dove, nel tripudio naturalistico delle loro carni grassocce, in una sarabanda di addobbi, panneggi e cartocci di un festoso spettacolo di gioia e ottimismo sfrenatamente infantile, ma maestosamente sacro nella sua liturgia” (Andrea Carisi).

Completano l’interno dell’edificio sacro la cappelletta a volta costolonata destinata a sepoltura di Giovanni Chiaramonte (che è però visibile dalla chiesa solo attraverso una grata e non è possibile visitarla); il coro (assai diverso oggi dal primitivo a causa di numerosi e deformanti interventi); una statua di Madonna con bambino di stile gaginesco, un crocifisso e un gruppo marmoreo con la Madonna che consegna il rosario ad un santo.

L’insieme della fabbrica del Monastero prospiciente il Chiostro comprende un piano terreno e da un primo piano. Al pianterreno troviamo la cappella, l’aula capitolare e il salone refettorio. Il primo piano è composto dal dormitorio e dagli ambienti destinati all’abadessa e alla Priora. La cappella è costituita da un unico ambiente, con l’abside ricavata nello spessore del muro e bellissima volta a crociera con costoloni a sesto acuto e vele di volta in mattoni pieni, posti di piatto, legati con malta a rapida presa. Essa oggi ospita un artistico presepio realizzato dall’agrigentino Roberto Vanadia, che riproduce la sacra scena come se avvenisse in un quartiere della vecchia Girgenti. Il portale di ingresso alla Cappella è ornato con doppio archivolto.

Sempre al piano terreno si trova l’aula capitolare (di metri 9 per metri 8), fiancheggiata da due bifore davvero sontuose e attraversata da ampi archi ogivali. Essa presenta tra l’altro sulla parete di fondo un bellissimo arco finemente sagomato.
Anche l’ex refettorio (di metri 36 di lunghezza per metri nove di larghezza), si trova su piano terreno ed è anch’esso quest’ultimo caratterizzato da poderosi archi a sesto acuto mensolati che reggevano le travi dell’antico solaio del soprastante salone e che reca sulla parete di fondo un bell’arco finemente sagomato. Tali archi non sono originari perché vennero rifatti da certo mastro Calì che li data e firma 1621, come si legge nella tavoletta di pietra murata sulla parete frontale del vano rispetto il portone d’ingresso (fecit 1621 magistro Jacobo Cali).

Da un grande portale, e sempre dallo stesso prospetto, si accede, per mezzo di due rampe di scale, al piano dell’ex dormitorio. Questo vastissimo vano si presenta con lo stesso ordine di archi a sesto acuto ma anche queste strutture non sono originarie perché egualmente ricostruite. Il soffitto è cassettonato ed alle pareti vediamo numerose nicchie, che venivano probabilmente usate come ripostigli.

Sono comunque i portali, le bifore, le monofore, gli elementi decorativi che offrono la maggiore suggestione. L’elemento gotico invade qui i capitelli, gli archi tanto ricchi di decorazioni e di linee spezzate. Si rimane incantati dinanzi agli archi delle due finestre bifore aperte nel largo spessore del muro e costituite da snelle colonnine con i capitelli uniti da un solo abaco.

“Uno spirito potente pervade e impiega le strutture, eroga o trattiene le tensioni, modella le sfaccettature, imposta i costolini e gli archivolti, intaglia gli ornati, eleva le colonnine radenti, determina i piani di luce e i colori. Antiche e tradizionali maniere come gli zigzag o denti di sega, vengono riconquistate in termini di memoria illuminante, di sunto potente presupposto al fasto di una nuova fondata coscienza delle cose, all’impiego della ricchezza” (S. Biondi).

Il monastero agrigentino è stato innalzato alla condizione di monumento nazionale per la notevole importanza storica ed artistica.
Durante la seconda guerra mondiale alcune bombe danneggiarono il monastero e da allora per diversi decenni ha conosciuto solo una triste storia di abbandono che non faceva onore alla città. Finalmente negli ultimi anni intensi lavori di restauro hanno recuperato in gran parte la struttura che attualmente ospita alcune sezioni del Museo Civico di Agrigento ed è destinata a diventare un importante centro polifunzionale e sede di altre sezioni del museo. Anche le abitazioni delle suore sono state ristrutturate.

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Agosto 2018