Chiesa
di San Calogero
Poco
fuori Porta di Ponte, procedendo oltre i giardinetti con cui il
colonnello borbonico Fleres volle decorare un secolo e mezzo fa
l’ingresso della città, svetta la Chiesa dedicata dagli Agrigentini
al Santo a loro più caro, l’eremita San Calogero, uno dei santi più
amati e venerati nella Sicilia occidentale e in particolare in diversi
centri dell’agrigentino (oltre al capoluogo, Sciacca, Naro, Porto
Empedocle, Aragona in particolare).
Non
molti edifici religiosi vennero costruiti nei secoli passati fuori dalle
mura chiaramontane che circondavano la medievale Girgenti, ma gli
Agrigentini vollero che la chiesetta venisse innalzata proprio sul luogo
(allora piuttosto impervio ed alle falde della Rupe Atenea) dove la
tradizione indica le grotte in cui il Santo avrebbe trovato rifugio
durante la sua permanenza in città.
Tra gli
estimatori del Santuario troviamo l’artista siracusano Raffaello
Politi, che trasferitosi ad Agrigento nel 1804 vi rimase sino alla morte
e fu a lungo custode delle antichità della città. Nell’opera, “Il
viaggiatore in Girgenti e il Cicerone di piazza, ovvero guida agli
avanzi di Girgenti” (1826), Politi ha accenni di ammirazione per la
chiesa sancalogerina, che definisce: “la più graziosa di tutte per la
sua leggerezza e semplicità architettonica”.
Appare
tuttora incerta la data di fondazione della Chiesa. Alcuni studiosi
ritengono che il Santuario risalga almeno al XIV secolo, ma è comunque
certo che nel 1573, considerata la vetustà del piccolo Santuario
medievale dedicato a San Calogero e la sempre maggiore affluenza dei
fedeli, ben 86 notabili agrigentini ottennero l’autorizzazione a
ricostruire il tempio.
Fonti
d’archivio (datati 4 dicembre 1573) ritrovati dal sacerdote Salvatore
La Rocca (che al culto di San Calogero ha dedicato diverse opere)
attestano infatti che esisteva sullo stesso luogo una chiesa dedicata al
santo eremita e che i Giurati di Agrigento (i baroni Pietro del Porto,
Pietro Montaperto e il vicario generale della Diocesi mons. Giacomo
Sanfilippo), col consenso del vescovo, mons. Hoxeda, furono lieti di
autorizzare i lavori richiesti dai notabili della città per migliorare
l’edificio. Gli interventi sulla precedente struttura medievale furono
piuttosto laboriosi perché l’edificio venne notevolmente ampliato e
ristrutturato ed affrescato da un artista di cui non ci è pervenuto il
nome. Il tetto ligneo era tra le parti più ammirate.
Quattro
secoli fa questo luogo era remoto e solitario. Anche se non distava
certo molto da Porta di Ponte, tuttavia, tra questa Porta e la Chiesa di
San Calogero vi è stato per molto tempo un fossato, che solo nel secolo
scorso è stato colmato, ma che fino ad allora ha reso piuttosto
impervia la località; tanto che per gli Agrigentini, per secoli, quella
chiesetta assunse quasi l’aspetto di un eremo e veniva pertanto
indicata come “u rimitaggiu di San Caloriu” (l’eremo di S.
Calogero).
Nella
piccola Chiesa di San Calogero si costituì il 30 giugno 1595 anche una
confraternita di cittadini di diverso ceto, fra i quali figuravano anche
nove ecclesiastici, un principe chierico, Vincenzo Pitruzzella, 5
spettabili, 16 magnifici, 7 notabili (tra cui un notar Gerlando de
Maxara); 47 onorabili, maestri e un personaggio più umile, un certo
Nardo Bonanno, in rappresentanza del popolo.
I
confrati manifestarono sin dall’inizio l’intenzione di celebrare
ogni anno la festa di San Calogero. Il vescovo Hoxeda accolse
benevolmente la Confraternita e la benedisse dicendo di condividerne i
benefici scopi. Un suo successore, il vescovo Orosco de Leiva approvò
nuovi capitoli della Confraternita che nel mentre aveva aperto le porte
a molti figli del popolo. La Confraternita continuò ancora per diversi
anni il suo cammino e tra l’altro diede incarico ad un artista rimasto
sconosciuto di realizzare la statua che ancora oggi viene portata in
processione, che è infatti d’epoca certamente non posteriore al 1600.
Da
allora nel mese di luglio si videro in città, in occasione della festa
dedicata a San Calogero, i Confrati che sfilavano processionalmente con
le torce, coperti con mantelli e sacchi; calzavano semplici sandali e
chiedevano umilmente l’elemosina. E’ probabile che venisse condotta
in processione anche un’immagine del Santo (probabilmente una statua).
La
Confraternita rendeva alla fine conto al Vescovo delle elemosine
raccolte e del reddito della Chiesa e questi fondi servivano soprattutto
a compiere i necessari lavori per migliorare l’aspetto della chiesetta
e per costruire un oratorio. Difatti
nel XVII secolo, quando era a capo della Chiesa agrigentina mons.
Francesco Gisulfo (1653-1664), la chiesa subì nuovi interventi: vennero
tolti gli archi a sesto acuto e le finestre a feritoia e furono
realizzate nuove finestre rettangolari. All’interno l’artista
Michele Blasco da Sciacca realizzò nuove decorazioni, una serie di
stucchi e gli affreschi con i quattro Evangesti e San Gerlando.
Nei
secoli successivi la chiesetta venne ancora abbellita con altre opere
raffiguranti San Giacomo, San Paolo, Sant’Emiliana e con i medaglioni
di San Barnaba, San Mattia, San Filippo, Sant’Eufrosina, San Simone ed
altri che ancora nel 1927 era possibile ammirare, prima, cioé, dei
lavori di restauro realizzati in quell’anno e che tra l’altro hanno
ripristinato le antiche finestre a feritoia che si trovano sul prospetto
laterale ed hanno rinnovato la facciata anche con la realizzazione di
nuovo elegante portale di stile trecentesco. Altri interventi sono stati
realizzati nel 1938, nel 1950 e in anni assai recenti ed hanno permesso
il recupero dell’altare centrale e del tabernacolo oltre che
arricchito la chiesetta di nuove decorazioni.
Negli
ultimi anni la piazzetta antistante l’ingresso principale è stata
meglio pavimentate e sistemata e su di essa si eleva una più agevole
scalinata.
Nel
XVII secolo venne realizzato accanto alla chiesa un conventino, in cui
oggi sono ubicati alcuni uffici pubblici, ma che nei secoli passati ha
alloggiato vari ordini religiosi, l’ultimo dei quali fu quello dei
frati minori del convento di San Vito che nel 1863, con la soppressione
degli ordini religiosi, videro espropriato il proprio convento e
trasformato in carcere. Anche le opere d’arte che prima erano
sistemate nel suddetto convento vennero pertanto collocate a San
Calogero ed ancora oggi si possono ammirare. Ci riferiamo in particolare
al Crocifisso ligneo realizzato da Frate Umile da Petralia nel 1637,
alla bella statua lignea raffigurante San Diego, ad una Madonna con
Bambino di stile gaginesco, alla statua di San Pasquale ed alla Pietà.
Si
tratta delle uniche opere oggi esistenti all’interno del Santuario.
Durante
le varie trasformazioni subite i preziosi affreschi che ne ornavano la
volta e le pareti sono andati, infatti, completamente distrutti. Il
campanile è stato rivestito in cotto ed ha assunto una forma piuttosto
moresca che riecheggia i motivi del campanile della Chiesa di San
Domenico. La Chiesa è stata elevata a Santuario nel 1977 grazie ad un
decreto del Vescovo, mons. Giuseppe Petralia.
La
statua di San Calogero che si trova sopra l’altare si conserva con
molto amore. Raffigura un vecchio alto e forte, col volto scuro, vestito
da monaco antico, con una lunga barba che gli scende sul petto e
l’aureola. Sta assorto, nella lettura di un libro, che ha aperto sulla
palma destra, mentre tiene la sinistra poggiante ad un lungo bastone
ferrato rivestito d’argento. La statua che si trova sopra l’ingresso
principale, in una nicchia, ha un panneggio diverso ed inoltre presenta
una cassetta, in forma di piccolo baule, attaccata all’avambraccio
destro e una fida cerva, rannicchiata accanto al Santo.
In
sagrestia si possono ammirare molti attestati di grazie ricevute (gli
ex-voto). Si tratta di quadretti che descrivono con disegni assai
semplici, ma efficaci, eventi miracolosi e in genere riportano il
ritratto del fedele che ritiene di avere ottenuto da San Calogero una
straordinaria grazia; invocando il Santo, ad esempio, ha ottenuto la sua
intercessione ed ha avuto la vita salva, dopo un grave incidente o una
grave malattia.
Riguardo,
poi, all’altra intenzione della confraternita, di promuovere cioè la
devozione a San Calogero e di un’organizzarne un annuale festa
ricordiamo che alla fine del secolo XVI il Cardinale della Curia romana,
Simone Aragona, approvò l’ufficio e la messa da celebrare nella festa
di San Calogero che il sacerdote di Sciacca Andrea Argomento aveva
composto.
Sia
l’ufficio che la Messa vennero approvati successivamente anche dal
Papa Clemente VII, con decreto del 3 giugno 1598 per tutta la Sicilia.
Ciò fu considerato un importante riconoscimento e diede impulso al
culto e alla festa del Santo.
Circa
la festa annuale al Santo diremo inoltre che, dopo i primi anni di
fervore religioso, già nel secolo XVII, quando la stessa Confraternita
cessò di esistere – e non sappiamo bene perché – anche la festa di
San Calogero perse alcune caratteristiche originarie e cominciò ad
assumere quella dimensione molto più popolare che ha oggi. La festa nei
secoli passati arrivò a durare anche un mese (mentre oggi si svolge
nella prima settimana di luglio) e si caratterizzò sempre di più come
il momento più alto della religiosità popolare locale. In poco tempo
riuscì a divenire il vero festino di Agrigento, ottenendo un successo
assai ampi.
Alla
festa venne associato un mercato e divenne la manifestazione più vivace
durante l’anno del mondo contadino agrigentino. I semplici e umili
devoti contadini, infatti, hanno dato vita nei secoli a festeggiamenti
meno pomposi e forse anche meno ordinati, ma pieni di passionalità,
spesso fino all’irriverenza, tanto che qualche Vescovo ha dovuto
minacciare pene severissime nei confronti di coloro che, per esempio,
davano la scalata all’altare prima che terminasse la Messa per
arrivare prima degli altri a prendere possesso della statua e condurla a
spalle in processione (in questo senso si esprime anche un documento del
Viceré del 1756).
Ma
spesso inutili erano, allora come oggi, questi moniti, perché era (ed
è) pressoché impossibile frenare gli entusiasmi di un popolo in estasi
per il Santo delle Grazie.
Santuario
dell'Addolorata

Si
tratta di uno dei santuari più amati dai fedeli agrigenti, sede di una
delle più antiche confraternite della città, quella appunto di Maria
Santissima dei sette dolori. Sorge nella popolare via Garibaldi, una
strada dell’antico Rabato.
La
sua costruzione risale al 1656. L’edificio è stato anche di recente
restaurato in tutte le sue parti.
La
sua struttura è molto semplice: presenta una sola navata ed anche la
facciata è piuttosto sobria e con un ingresso costituito da una porta
con una decorazione barocca. Il campanile è costituito tra l’altro da
tre edicolette, ornate da capitelli corinzi e frontoncini. All’interno
del santuario troviamo, sopra l’altare maggiore, la bella statua
lignea della Madonna dell’Addolorata (secolo XVIII) di Filippo
Quattrocchi (1764-1818).
Vi
si custodiscono inoltre una copia della Deposizione di Apelle Politi,
artista agrigentino del secolo scorso e diverse tele di Domenico
Provenzani, tra cui segnaliamo “La Natività di Gesù”; ” Gesù
Bambino tra i dottori”;” L’ultima Cena;” Gesù che incontra la
madre sulla via Crucis”.
Le
pareti presentano stucchi di ispirazione serpottiana. Lungo le pareti
laterali vi sono gli altari minori dedicati al Crocifisso e al Sacro
Cuore di Gesù.
Basilica
dell'Immacolata Concezione o San Francesco
La
Basilica di San Francesco d'Assisi o dell'Immacolata, è una delle
chiese più grandi della città.
Secondo
alcune fonti il complesso monumentale, che includeva la chiesa e il
convento dei frati francescani minori, fu edificato nel XIV secolo per
volere della famiglia Chiaramonte. Nel sacro edificio trovarono
sepoltura gli antichi signori di Agrigento.
Eretta
nella forma attuale nel 1788, la Chiesa, fatta di tufo arenario,
presenta una facciata in stile barocco a tre ordini, con due imponenti
torri campanarie e una statua del Santo in marmo bianco; sul campanile,
invece, è posta la statua della Madonna col Bambino. Per volere di Pio
XII la chiesa fu nominata Basilica dell’Immacolata.
L'interno,
a navata unica, si possono ammirare gli affreschi del palermitano
Sebastiano Consoli, la Madonna della Catena di scuola gaginesca, e il
preziosissimo Crocefisso ligneo del ‘700 di Vittorio Cardinale.
Durante
l'ultimo conflitto mondiale subì gravissimi danni e, grazie al parroco
monsignor Michele Sclafani che ne promosse il restauro, si diffusione in
città il culto dell’Immacolata e ottenne anche di consacrare il
capoluogo alla Vergine. Oggi la festa dell’Immacolata ad Agrigento è
tra le più attese e seguite.
Addossato
alla Chiesa si conservano ancora i resti di uno dei più antichi
conventi della città, quello chiaramontano dedicato al Santo di Assisi.
Alla fine degli anni novanta, gli spazi sottostanti la Basilica sono
stati oggetto di restauro che li ha resi di nuovo fruibili.
L’Associazione Amici della Pittura Siciliana dell’Ottocento acquisì
in locazione il sito per adibirlo a spazi espositivi.
Anche
il giardino antistante è stato oggetto di un corposo restauro allo
scopo di uniformare l’ambiente esterno ai luoghi interni permettendone
l'utilizzo come sede di incontri culturali.
Alla
struttura espositiva è stato dato il nome di Fabbriche Chiaramontane.
FAM è l’acronimo di “Fabbriche Chiaramontane, Arte Moderna Galleria
Permanente”.
Basilica
Santa Maria dei Greci
Le
viuzze ed i cortili della città medievale di Agrigento, ci accolgono
con quell’atmosfera impregnata di semplicità e odore proveniente dai
giardini nascosti fra le case.
Il
cielo terso e l’aria frizzante ci invogliano a rallentare il passo per
gustare la pace ed il silenzio che avvolgono le stradine dominate dagli
austeri palazzi nobiliari ancora capaci di sprigionare l’antico
fascino.
Dalla
via S. Vincenzo, costeggiando l’artistico palazzo Maraventano-Iacono,
arriviamo nella via Santa Maria dei Greci.
L’omonima
chiesa ci appare subito davanti nell’eleganza del suo prospetto nord
appena restaurato, dove l’antico e il moderno si armonizzano in un
accurato susseguirsi di linee architettoniche.
Con lo
sguardo accarezziamo il tufo che emerge dal moderno intonaco mentre,
mentalmente, lo confrontiamo con l’immagine deprimente che offrivano
quelle strutture prima dei lavori di restauro.
Svoltato
l’angolo con la via Manetta, entriamo nel cortiletto antistante la
chiesa e subito a sinistra notiamo le arcate del porticato che prima era
inglobato nelle mura della casa e da dove si apriva il cunicolo
sotterraneo che conduceva ai gradoni del crepidoma del tempio greco
sulle rovine del quale fu edificata nel XII secolo la chiesa.
Lo
scrittore greco Polieno (II sec. D.C.) racconta che durante la tirannia
di Terone, in quel sito fu eretto un tempio, del tutto simile agli altri
presenti nella mitica “Valle dei Templi”, dedicato ad Athena. Era un
periptero, con cella munita di pronao e opistodomo, delle dimensioni di
m. 34,70×15,30, munito di 13 colonne sul lato lungo e 6 su quello
corto.
Dopo
l’abbandono della città greca, e la conseguente urbanizzazione del
Colle di Girgenti da parte degli abitanti, il tempio di Athena (o di
Giove Polieo per alcuni studiosi) venne trasformato in chiesa cristiana,
divenendo la prima Cattedrale di Girgenti entro le mura.
Per
diversi secoli la piccola chiesa, che dominava la collina finché la
costruzione di case ed edifici signorili non finì con l’occupare
tutto lo spazio circostante soffocandola, custodì il prezioso segreto
che celava nelle sue fondamenta.
La
scoperta del tempio greco si deve al chierico teatino Giuseppe Maria
Pancrazi, il quale seguendo la descrizione fatta da Polieno (VI, 51), ne
individua un tratto del lato meridionale del crepidoma sormontato da sei
filari di muratura. Della sua scoperta, il religioso parlò nella sua
opera “Antichità siciliane spiegate”, allegandovi un disegno che
illustrava il manufatto.
Viaggiatori
e scrittori di tutte le epoche, visitando Agrigento, si sono voluti
recare sul sito poiché esso costituiva uno dei pochi esempi, in
Sicilia, di trasformazione di un tempio pagano in cristiano.
Dal
cunicolo sotterraneo, si poteva vedere parte del crepidoma, con tre
gradoni per una lunghezza do m. 22,50, e i tamburi inferiori di sei
colonne. Altri elementi del tempio sono stati incorporati nelle mura
della chiesa o asportati totalmente.
In uno
suo disegno, Raffaele
Politi, ci fa pervenire l’esterno della chiesa prima della
sistemazione dell’area circostante. Nell’elaborato si vede una
struttura prismatica, sul lato ad oriente, sormontata da un campanile
che copre l’abside centrale e, inoltre, sul fianco a settentrione al
di sopra del piano stradale, cinque tronchi di colonne che
successivamente furono foderate e inglobate a nicchia all’interno
della chiesa, dopo essere state acconciamente tagliate, come ancora oggi
si possono ammirare. La realizzazione della via Gubematis ha cagionato,
poi, la totale scomparsa del fronte orientale del tempio.
La
chiesa dalle tre navate e dal soffitto ligneo ha molte somiglianze con
la cattedrale di San
Gerlando.
Al suo
interno si conserva un sarcofago in marmo, che custodisce le ossa dei
nobili palermitani Bartolomeo Caputo e Isabella Termini, e un affresco
parietale quattrocentesco.
Nel
corso degli anni la chiesa è stata oggetto di studi ed interventi, tra
i quali gli scavi condotti dal Soprintendente Pietro Griffo che ha
permesso di determinare meglio la tipologia e le caratteristiche del
tempio.
I
lavori di restauro sono durati circa due anni, con interventi di grande
difficoltà, al termine dei quali è stato raggiunto un risultato
eccezionale.
Parte
della pavimentazione interna, è stata realizzata in vetro speciale che
permette di ammirare il crepidoma e l’antica cripta, successivamente
utilizzata per sepolture, ricavata da una più antica vasca, di
un’altra più profonda vasca di forma tronco-conica scavata nella
roccia della collina. Nei vani sottostanti il caseggiato sono stati
rinvenuti altri importanti e singolari resti archeologici di grande
interesse scientifico, che non erano stati mai oggetto di scavo, né di
studio. Si tratta in particolare delle sottofondazioni del tempio greco,
del terminale occiden tale dello stesso e di singolari ed unici resti
risalenti probabilmente al periodo paleolitico, a dimostrazione della
presenza dell’uomo sulla collina, prima ancora della venuta dei Greci.
Nei
locali esistenti attorno alla chiesa, espropriati e oggetto di recupero,
sono stati ricavati degli spazi che, opportunamente arredati, saranno
destinati ad “Antiquarium” e sale per mostre e convegni.
Il
monumento, grazie agli scavi archeologiche alle indagini diagnostiche
effettuate, è stato interamente studiato, coinvolgendo in questa
meravigliosa ed emozionante esperienza progettisti, direttori dei
lavori, imprese esecutrici e maestranze tutte, che con sensibilità e
impegno si sono accostati a questo autentico gioiello sintesi
dell’architettura greca, medievale e moderna.
Chiesa
di San Nicola

Incastonato
tra i mandorli e gli ulivi secolari della campagna agrigentina, a poco
più di un chilometro dalla città, ma a pochi passi
dall’ecclesiasterion e dall’oratorio di Falaride, troviamo uno dei
maggiori esempi di gotico cistercense presenti in Sicilia, la chiesa di
San Nicola.
La sua
costruzione probabilmente risale all’ XI secolo poiché un documento
rinvenuto dallo storico Rocco Pirri indica chiaramente l’esistenza già
nell’anno 1181 della contrada intitolata San Nicola e un secondo atto,
datato gennaio 1219 così recita: “Nell’anno 1219, nel mese di
Gennaio, il nostro Ursone (vescovo) col concorso dei suoi canonici
cedette a Pellegrino, Priore di Santa Maria in Adrano ed alla
congregazione, il monastero che a causa delle guerre era stato
distrutto. Parimenti la Chiesa di San Nicolò che è fuori la città
vecchia insieme alle terre…”. Qualche tempo dopo il suddetto priore
edificò accanto alla chiesa un cenobio che divenne il convento dei
monaci cistercensi, che si erano allora stabiliti ad Agrigento.
Nell’anno
1223 inoltre Pellegrino e la sua congregazione vendettero al vescovo di
Agrigento Ursone alcune terre con relativo canneto “in commutazionem
ecclesiae S. Nicolai” (in cambio della Chiesa di San Nicola).
Lo
studioso agrigentino Alessandro Giuliana Alaimo ha rinvenuto tra le
carte dell’archivio Capitolare di Agrigento altri documenti
riguardanti la storia della Chiesa e del Convento. Da uno di questi
documenti in particolare (del 1322) risulta che il benedettino Pietro
ricevette mandato dal vescovo agrigentino Bertoldo de Labro di
ricostruire l’abbazia e la chiesa di San Nicola per riportarle al
primitivo stato, poiché erano state danneggiate. Finalmente nel 1417 il
papa Martino V diede facoltà a Beato Matteo Cimarra, frate minore di
Agrigento, di erigere in Sicilia cinque conventi di Minori Osservanti,
dei quali il primo vide la luce a Messina, il secondo a Palermo (sotto
il titolo di Santa Maria di Gesù), il terzo ad Agrigento nel 1426 (gli
altri due sorsero a Cammarata e a Caltagirone).

Così
Matteo Cimarra edificò a spese del Re il secondo monastero francescano
di Agrigento (innalzandolo sull’antico cenobio cistercense) e volle
dedicarlo a San Nicola.
Lo
storico Tognoletto così descrive, nell’opera “Paradiso Serafico del
fertilissimo Regno i Sicilia” (stampato a Palermo nel 1667), alcuni
momenti della vita del beato Agrigentino: “Nel medesimo anno 1426
partitosi da Palermo se ne andò in Giorgiento sua patria dove arrivato,
e dopo essere stato dalli suoi paesani invitato, per fondare il terzo
convento (della Sicilia) mossi da santa invidia per avere fondato quello
di Messina e Palermo; gli diedero per abitazione un convento con la
chiesa dedicata a San Nicola Vescovo posto al luogo dove anticamente era
il palazzo di Fallari tiranno di Giorgiento, dove abitavano innanzi
monaci cistercensi il quale monsignor Urso Vescovo di detta città
l’anno 1219 nel mese di Gennaio lo cesse, e diede a fra Peregrino
Priore di Santa Maria di Adriano del detto Ordine, ma in detto anno 1426
l’ottenne il Beato Matteo e l’anno 1430 con l’aiuto di certa
limosina assignatale da re Alfonso, si finì”.
Il
beato Matteo però non riuscì a completare la costruzione del San
Nicola che venne portata a termine nel 1669-70 da Fra Bonaventura
Sciascia. Ma poco più di un secolo dopo, nel 1789, il convento
francescano venne soppresso e tornò in possesso del Vescovo.
Certamente
il visitatore è innanzitutto attratto dal suggestivo portale gotico. La
facciata ha delle piccole sculture in marmo che raffigurarono i santi
Giorgio, Pietro e Paolo e inoltre presenta due poderose ante che
sorreggono una cornice in forte risalto. Sopra il portale è evidente
l’emblema francescano.

La
chiesa è in stile piuttosto rustico nel complesso ed è tutta avvolta
di quel tufo conchigliare che è presente ovunque nella Valle dei
Templi. Misura otto metri circa di larghezza e ventiquattro di
lunghezza. Ad essa si accede da un portone di legno del XVI secolo
realizzato dall’artista Angelo Di Blundo.
L’interno
è ad una navata ed appare poco rifinito, così da sembrare quasi
incompleto. Ha tuttavia uno sviluppo di grande armonia, ben
proporzionato: la volta ogivale è sostenuta da grandiosi costoloni,
mentre le imponenti arcate sostengono un massiccio cornicione. Sulla
parete di fondo, all’interno della chiesa, si aprono cinque arcatelle
rinascimentali dentro le quali vi sono affreschi cinquecenteschi
raffiguranti figure di santi.
Le
opere poste ai lati dell’altare maggiore, sulla stessa parete,
raffigurano San Corrado (a sinistra, 1574) e Sant’Onofrio (a destra,
1575).Nel coro vi sono altri affreschi forse del XV secolo e un grosso
frammento di trabeazione classica inserito sulle pareti.
Delle
due originarie navate rimane oggi solo quella di destra, dove si trovano
le Cappelle: nella prima vi è una bellissima statua di marmo
rappresentante la Madonna col Bambino, ritenuta opera del Gagini; nella
seconda si trova l’altare del Sacramento e il Signore ligneo, detto
comunemente “Signore della nave”; nella terza cappella è conservato
il sarcofago di Fedra; sul retro vi è il coro dei cistercensi con
l’attiguo chiostro, da dove si può vedere l’abside, a forma
quadrangolare, con fregio dipinto su una trabeazione.
Da
alcuni anni viene riproposta la bella Sagra del Signore della Nave, una
delle più belle tradizioni locali. Festività legata al suddetto
Crocifisso e che ha ispirato un omonimo lavoro teatrale di Luigi
Pirandello.
Monastero
e Chiesa di Santo Spirito
Nei
secoli XIV e XV la storia della Sicilia è caratterizzata
dall’anarchia baronale. Alla morte del sovrano Federico IV il
semplice, avvenuta a Messina il 27 luglio 1377, l’autorità sovrana si
trasferì in una fanciulla di quindici anni, Maria, contro le ambizioni
di Pietro IV d’Aragona che rivendicava per sé il diritto al trono. In
mancanza di una diffusa democrazia cittadina, i grandi baroni
dell’Isola rappresentarono l’unico autentico potere politico, fino a
quando non riuscirono ad imporsi gli Spagnoli. Una delle maggiori
famiglie dell’epoca, la più illustre ed importante, fu quella dei
Chiaramonte, di origine normanna (infatti il nome deriva dal francese
“Claire- Mont”), che già nel secolo XI deteneva grandi feudi a
Capua e in Basilicata.
Durante
il periodo angioino, i Chiaramonte si trasferirono in Sicilia ma
contribuirono all’affermazione degli Aragonesi. Stabilitisi nella città
demaniale di Girgenti (Agrigento), dal matrimonio tra Federico I
Chiaramonte e la girgentina Marchisia Prefoglio nacquero tre figli,
Manfredi, Giovanni I, detto il Vecchio, e Federico II, che avviarono
quell’ascesa familiare che li farà divenire la più potente famiglia
dell’Isola al tempo degli Aragonesi.

Manfredi
divenne, infatti, conte di Modica e Caccamo e Gran Siniscalco del Re;
Giovanni fu Conte di Chiaramonte nella Val di Noto e si distinse nella
guerra del Vespro e infine Federico II ebbe la signoria di Racalmuto e
Siculiana.
Tra
alterne fortune, i Chiaramonte, prima schierandosi contro i francesi,
che insistevano nei loro tentativi di riconquistare l’isola, e poi
capeggiando la resistenza contro l’aristocrazia catalana immigrata,
furono al centro degli eventi del secolo, fino alla rivolta contro il re
Martino I. Andrea, uno dei discendenti di Federico I, fu catturato e
decapitato a Palermo nel 1392, segnando così la fine di questa illustre
casata.
Ma
i rampolli di questa illustre famiglia vollero primeggiare in quegli
anni anche in mecenatismo, volendo forse continuare in Sicilia quello
splendido rapporto di protettorato militare e culturale che i loro
ascendenti normanni ebbero con i grandi Pontefici del passato. A quegli
eventi è legata la realizzazione ad Agrigento di uno dei più bei
monumenti del periodo chiaramontano: il monastero di Santo Spirito.
Dal
documento originale di fondazione e donazione del partenio di Santo
Spirito risulta che donatrice ne fu Marchisia Prefoglio, moglie di
Federico Chiaramonte. Così attesta infatti l’atto di donazione del 27
agosto 1299 stipulato presso il notaio Giovanni di Amarea di Girgenti
(interamente trascritto dallo storico Inveges): “Ea propter nos
Marchisia de Prefoglio… de nostro patrimonio fundavimus seu fundari
facimus in praedicta civitate agrigentina infra eius moenia quoddam
Monasterium Sancti Spiritus noncupatum” (Quella dinanzi a noi
Marchisia Prefoglio… del nostro patrimonio abbiamo fondato e faremo
fondare in detta città agrigentina dentro le sue mura un Monastero di
Santo Spirito). Da cui si evince innanzitutto che il monastero era gia
esistente ed era stato per suo volere costruito, mentre il rogito che
viene citato nell’atto attesta che era gia abitato nel 1299 (“in quo
quamplures mulieres moniales et honestae commoratur”: in esso si
fermano molte monache nobildonne e oneste).
La
donazione veniva fatta a favore di Roberto, abate di Santo Spirito di
Palermo, e a frate Taddeo di Aversa, commissario del monastero di
Casamari e comprendeva, oltre al Monastero, alcune terre e case,
comprese una bottega e due mulini, i censi di 28 case ubicate nei pressi
del monastero, cinque schiavi, vari capi di bestiame, buoi, ovini,
suini, cavalli.
Purtroppo,
essendo andato distrutto l’archivio per l’incuria di chi avrebbe
avuto interesse a conservarlo, la documentazione è scarsa e le lacune
storiche, nel ricostruirne la vita attraverso i secoli sono numerose. Le
fonti ad esempio nulla ci dicono intorno a coloro che parteciparono alla
costruzione di questo straordinario monumento.

Da
un’antica giuliana (calendario) esistente nell’archivio del
Monastero risulta con certezza che esisteva nel 1295 una comunità
formata ed operante ed il fabbricato era stato costruito o era in via di
ultimazione, poiché due atti notarili stipulano la donazione ad esso di
due case e la permuta di alcune fosse e di una pagliera con terreno
vacante. Si tratta di un atto del gennaio 1295 del notaio Pietro de
Vanusio che attesta che un certo Salvo e Giovanna di Turano donarono al
Monastero agrigentino due case del borgo di San Francesco e l’anno
seguente perfezionarono la donazione con la “permutatio della medietà
di terra vuota coi limiti di una botteca e di un palazzo” che si
trovavano nel borgo di san Michele.
In
quel tempo esisteva una tradizione benedettina e cistercense in Girgenti
e nel suo territorio, un Nicolò Chiaramonte, Vescovo di Tuscolo e
cardinale al tempo di Onorio III, apparteneva all’ordine dei
Cistercensi; ciò spiega il fatto che la nobildonna, nel fondare il
grande Monastero di vergini di Santo Spirito (come lo chiamano il
Mongitore e l’Amico), chiedesse che questo andasse soggetto alle
dipendenze dell’Abate del Cenobio di Casamari.
Come
Casamari, questo Monastero divenne centro e focolare di cultura
intellettuale. Sappiamo che nel 1321, quando esso contava già 15
monache, era sede di attività di insegnamento, di “lettura e di abaco
per le figliole di gentili homini e persone di abeni”, come recita un
documento del 1400, esistente nell’Archivio di Stato a Palermo.
Occorre
inoltre ricordare che il Monastero era stato ubicato sul luogo
dell’antico Steri (palazzo) della famiglia Chiaramonte. Probabilmente
esso è stato demolito e dalle sue ceneri è sorta la nuova costruzione.
Ma può è probabile anche che sia stato adattato o integrato. Gli studi
sugli elementi architettonici non ci sono di alcun conforto intorno a
queste ipotesi. Nel 1310 Manfredi Chiaramonte, uno dei figli della
Prefoglio, ottenne dal Vescovo Bertoldo de Labro l’autorizzazione a
costruire per la sua famiglia un nuovo Steri presso la Cattedrale (oggi
ospita il Seminario vescovile).
Dalla
tradizione è risaputo poi che fino al tardo secolo XVIII, il Monastero
ha avuto vita gloriosa e le venerabili Abbattesse appartenevano alle
famiglie che per nobiltà primeggiavano in Sicilia.
I
maggiori monumenti edificati dai Chiaramonte ad Agrigento furono: lo
Steri, il Monastero e la Chiesa di Santo Spirito ed i conventi di san
Domenico e di san Francesco; a Palermo invece furono: il Chiostro di san
Domenico e le Chiese di Sant’Agostino e San Francesco.
In
tutte queste opere si possono riscontrare i segni dell’arte
chiaramontana che ebbe grande sviluppo durante il 1300. “Portali e
finestre sono gli elementi con cui preferisce esprimersi questa maniera
artistica – scrive Andrea Carisi -. Infatti, principalmente in queste
costruzioni, come, anche se in parte minore, nelle opere
architettoniche, si può notare in che modo lo stile chiaramontano fosse
costituito da residui latini e bizantini, soluzioni tecniche e
manodopere arabe, stili mormanno-svevi, influenze aragonesi e catalane,
debitamente mescolate, individuabili in un particolare o in un altro,
fanno del complesso monumentale, qualcosa di eclettico che ritrova
proprio in questo eclettismo l’elemento caratterizzante e unificante
delle costruzioni chiaramontane in particolare, e di tutta
l’architettura siciliana del 1300 in genere, sino a costituire un
modello suggestivo per i secoli successivi.

La
pianta basilicale latina, le nicchie arabe, le finestre goticizzanti,
l’uso dell’arco e della volta arabo- normanna a struttura
incrociata, l’esterno dove i vuoti delle finestre, benché frequenti
ed ampi, non contraddicono l’uniformità e la maestosità dei muri
esterni, ma evidenziano la natura composita della comunità cittadina di
allora”.
E’
assai difficile comprendere oggi quale articolazione avesse la pianta
dell’edificio in origine, poiché specialmente negli ultimi tre secoli
sono state apportate numerose modifiche sulla primigenia struttura.
L’intero
complesso sorge su una piazzetta quasi quadrata ed è costituito da una
Chiesa ad unica navata e dal Monastero composto da ambienti in doppia
elevazione.
La
facciata dell’edificio, prospiciente sulla piazzetta, è stata
profondamente alterata per l’aggiunta del piano più alto rifatto in
stile barocco; così come la torretta campanaria della chiesa annessa al
Monastero.
La
parte monumentale del fabbricato antico che è pervenuta ai nostri
giorni presenta un piano terreno ed un primo piano. Il piano terreno è
costituito soprattutto dalla cappella ed accanto dall’aula capitolare
(di metri nove per otto).
Nella
facciata barocca della Chiesa spicca il bellissimo portale a sesto
acuto, largamente modulato con triplice archivolto, di stile
chiaramontano e sormontato da un ricco rosone. Nel Seicento è stata
aggiunta la cella campanaria.
L’interno
si sviluppa a pianta rettangolare ad una navata, con soffitto
cassettonato e con la cantoria nella parte anteriore, sostenuta da
quattro colonne. Sulle pareti, dentro quattro quadroni dietro l’altare
maggiore si stende il candido manto delle sculture in stucco di Giacomo
Serpotta. Le scene raffigurano episodi del Nuovo Testamento : la Natività,
l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto.
Nella superficie di fondo della parete centrale è rappresentata la
Gloria con il Padre Eterno, la colomba dello Spirito Santo e le figure
dei Santi Bernardo e Benedetto.
“In
questi stucchi, tutti eseguiti con la tecnica dell’altorilievo, figure
di putti, simbolo della vita al suo nascere, sgusciano per ogni dove,
nel tripudio naturalistico delle loro carni grassocce, in una sarabanda
di addobbi, panneggi e cartocci di un festoso spettacolo di gioia e
ottimismo sfrenatamente infantile, ma maestosamente sacro nella sua
liturgia” (Andrea Carisi).
Completano
l’interno dell’edificio sacro la cappelletta a volta costolonata
destinata a sepoltura di Giovanni Chiaramonte (che è però visibile
dalla chiesa solo attraverso una grata e non è possibile visitarla); il
coro (assai diverso oggi dal primitivo a causa di numerosi e deformanti
interventi); una statua di Madonna con bambino di stile gaginesco, un
crocifisso e un gruppo marmoreo con la Madonna che consegna il rosario
ad un santo.
L’insieme
della fabbrica del Monastero prospiciente il Chiostro comprende un piano
terreno e da un primo piano. Al pianterreno troviamo la cappella,
l’aula capitolare e il salone refettorio. Il primo piano è composto
dal dormitorio e dagli ambienti destinati all’abadessa e alla Priora.
La cappella è costituita da un unico ambiente, con l’abside ricavata
nello spessore del muro e bellissima volta a crociera con costoloni a
sesto acuto e vele di volta in mattoni pieni, posti di piatto, legati
con malta a rapida presa. Essa oggi ospita un artistico presepio
realizzato dall’agrigentino Roberto Vanadia, che riproduce la sacra
scena come se avvenisse in un quartiere della vecchia Girgenti. Il
portale di ingresso alla Cappella è ornato con doppio archivolto.
Sempre
al piano terreno si trova l’aula capitolare (di metri 9 per metri 8),
fiancheggiata da due bifore davvero sontuose e attraversata da ampi
archi ogivali. Essa presenta tra l’altro sulla parete di fondo un
bellissimo arco finemente sagomato.
Anche l’ex refettorio (di metri 36 di lunghezza per metri nove di
larghezza), si trova su piano terreno ed è anch’esso quest’ultimo
caratterizzato da poderosi archi a sesto acuto mensolati che reggevano
le travi dell’antico solaio del soprastante salone e che reca sulla
parete di fondo un bell’arco finemente sagomato. Tali archi non sono
originari perché vennero rifatti da certo mastro Calì che li data e
firma 1621, come si legge nella tavoletta di pietra murata sulla parete
frontale del vano rispetto il portone d’ingresso (fecit 1621 magistro
Jacobo Cali).
Da
un grande portale, e sempre dallo stesso prospetto, si accede, per mezzo
di due rampe di scale, al piano dell’ex dormitorio. Questo vastissimo
vano si presenta con lo stesso ordine di archi a sesto acuto ma anche
queste strutture non sono originarie perché egualmente ricostruite. Il
soffitto è cassettonato ed alle pareti vediamo numerose nicchie, che
venivano probabilmente usate come ripostigli.
Sono
comunque i portali, le bifore, le monofore, gli elementi decorativi che
offrono la maggiore suggestione. L’elemento gotico invade qui i
capitelli, gli archi tanto ricchi di decorazioni e di linee spezzate. Si
rimane incantati dinanzi agli archi delle due finestre bifore aperte nel
largo spessore del muro e costituite da snelle colonnine con i capitelli
uniti da un solo abaco.
“Uno
spirito potente pervade e impiega le strutture, eroga o trattiene le
tensioni, modella le sfaccettature, imposta i costolini e gli
archivolti, intaglia gli ornati, eleva le colonnine radenti, determina i
piani di luce e i colori. Antiche e tradizionali maniere come gli zigzag
o denti di sega, vengono riconquistate in termini di memoria
illuminante, di sunto potente presupposto al fasto di una nuova fondata
coscienza delle cose, all’impiego della ricchezza” (S. Biondi).
Il
monastero agrigentino è stato innalzato alla condizione di monumento
nazionale per la notevole importanza storica ed artistica.
Durante la seconda guerra mondiale alcune bombe danneggiarono il
monastero e da allora per diversi decenni ha conosciuto solo una triste
storia di abbandono che non faceva onore alla città. Finalmente negli
ultimi anni intensi lavori di restauro hanno recuperato in gran parte la
struttura che attualmente ospita alcune sezioni del Museo Civico di
Agrigento ed è destinata a diventare un importante centro
polifunzionale e sede di altre sezioni del museo. Anche le abitazioni
delle suore sono state ristrutturate.
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Agosto
2018
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