- Tempio
di
Giunone
Dal
parcheggio
saliamo
alla
Collina
dei
Templi
raggiungendo
la
dorsale
dove,
all'estremo
angolo
sudorientale,
sullo
sperone
roccioso
più
elevato
dell'intera
Collina
rafforzato
da
poderosi
bastioni
difensivi
e poco
distante
dai
resti
della
Porta
III,
si
erge
il
tempio
tradizionalmente
attribuito
al
culto
di
Giunone;
sorella
e
assieme
moglie
di
Giove,
il re
degli
dei,
considerata
la
garante
dei
matrimoni,
la
protettrice
della
famiglia
e
delle
partorienti,
mentre
il
mito
la
ricorda
in
modo
particolare
per la
comprensibile
gelosia
che la
divorava
a
causa
dei
continui
tradimenti
del
marito.
In
realtà
nulla
prova
che il
tempio
in
questione
fosse
a lei
dedicato
e
l'origine
di
questa
tradizione
si
deve
verosimilmente
ad un
passo
dello
scrittore
romano
Plinio
il
Vecchio
nella
Naturalis
Historia
dove,
in
realtà,
egli
si
riferiva
al
tempio
di
Giunone
che
sorgeva
sul
promontorio
Lacinio
(da
cui il
nome
di
Giunone
Lacinia)
a
Crotone,
in
Magna
Grecia.
Si
dice
che il
Tempio
di
Giunone
servisse
per i
matrimoni
e che
avesse
anche
un
tetto
interamente
in
marmo
che,
secondo
lo
storico
Tito
Livio,
fu
tolto
su
ordine
di un
console
romano,
Quinto
Fulvio
Flacco,
intorno
al II
secolo
a.C.,
per
utilizzarne
la
pietra
per un
altro
tempio
da lui
commissionato.
Una
storia
che
sembra
incredibile
se non
fosse
peggiore
il
seguito:
criticatissimo
per
aver
deturpato
un'architettura
così
imiportante,
Flacco
deciderà
di
tornare
sui
suoi
passi
e
ordinerà
che le
"tegole",
per
così
dire,
vengano
rimesse
al
loro
posto:
ma non
avendo,
i
romani,
le
competenze
dei
greci,
le
maestranze
non
saranno
in
grado
di
ricrearne
l'armonia
e
abbandoneranno
le
pietre
in
marmo
ai
piedi
del
Tempio.
Come
gli
altri
templi,
anche
quello
di
Giunone
si
trova
lungo
la
cinta
muraria
della
città,
una
caratteristica
propria
di
Akragas
dove i
santuari
e gli
edifici
sacri
sorgevano
lungo
le
mura.
Una
scelta
che
garantiva
alla
città
una
doppia
linea
di
difesa:
la
prima
era la
cinta
muraria,
ovvero
la
linea
di
difesa
militare
che la
proteggeva
dagli
attacchi,
e
sfruttava
naturalmente
la
conformazione
del
terreno.
La
seconda
era
quella
sacra,
e cioè
questa
serie
di
templi
distibuiti
su
tutta
ala
colllina
meridionale,
che
costituiva
una
sorta
di
protezione
rituale.
Costruito
con
blocchi
di
calcare
locale
intorno
alla
metà
del V
secolo
a.C.
(fra
il 460
e il
440
a.C),
il
tempio
di
ordine
dorico
(20,26
x
41,10
m) si
staglia
su un
alto
basamento
a
quattro
gradini,
mentre
il
colonnato
che
circonda
la
cella
presenta
sei
colonne
sui
lati
brevi
e
tredici
su
quelli
lunghi.
Queste
hanno
un
fusto
scanalato
e
rastremato
verso
l'alto
composto
da
quattro
rocchi.
Delle
trentasei
colonne
originarie
sono
ancora
in
piedi,
complete
di
capitello,
le
tredici
che
formavano
il
lato
settentrionale
e che
ancora
sorreggono
l'architrave
liscio,
parte
residua
dell'originaria
trabeazione.
Il
tempio,
gravemente
danneggiato
da un
incendio
in
occasione
della
conquista
cartaginese
dell'anno
406
a.C,
come
attestato
da
alcune
tracce
rilevate
sui
muri
della
cella,
venne
poi
restaurato
in
epoca
romana.
Un
terremoto
avvenuto
fra il
XVI e
il
XVII
secolo
ne
fece
parzialmente
crollare
le
strutture,
che
furono
restaurate
nella
seconda
metà
del
XVIII
secolo.
La
cella,
che
ancora
oggi
possiamo
osservare,
è
articolata
in
pronao,
naos e
opistodomo.
L'ingresso
al
naos
era
fiancheggiato
da due
piloni
al cui
interno
erano
state
ricavate
due
scale
che
consentivano
l'accesso
al
sottotetto,
come
in
altri
analoghi
edifici
templari.
Nel
naos,
caratterizzato
dal
pavimento
più
elevato,
sono
stati
rinvenuti
i
resti
della
piattaforma
che
doveva
fare
da
basamento
alla
grande
statua
della
divinità
a cui
il
tempio
era
dedicato.
A
15
metri
di
distanza
dall'ingresso
del
tempio
è
stato
individuato
un
grande
altare
a cui
si
accedeva
salendo
dieci
gradini.

Tempio
della
Concordia
Dal
Tempio
di
Giunone,
percorrendo
la Via
dei
Templi
in
direzione
ovest,
raggiungiamo
le
rovine
del
cosiddetto
Tempio
della
Concordia.
In
realtà
si
tratta
di una
falsa
identificazione,
formulata
sulla
base
di
un'iscrizione
in
marmo
di
prima
età
romana
imperiale
(metà
del I
secolo
d.C.),
con
dedica
in
latino
CONCORDTAE
AGRIGENTINORUM
SACRUM
[...].
L'iscrizione,
oggi
conservata
presso
il
Museo
Archeologico
Regionale
"Pietro
Griffo",
venne
osservata
ad
Agrigento
dallo
storico
e
teologo
domenicano
Tommaso
Fazello
(1498-1570)
e da
questi
messa
in
relazione
con un
"tempio
poco
distante
da
quello
di
Eracle"
nella
sua
opera
De
Rebus
Siculis
decades
duae.
Da
allora
il
tempio
venne
indicato
come
dedicato
alla
Concordia,
nonostante
da
tempo
gli
studiosi
ritengano
che
l'iscrizione
non
abbia
con
esso
alcuna
relazione,
ma
vada
riferita
piuttosto
ad un
manufatto
poi
andato
perduto,
forse
una
statua
o un
altare.
Ad
oggi
rimane
ancora
sconosciuta
l'identità
della
divinità
a cui
l'edificio,
innalzato
nella
seconda
metà
del V
secolo
a.C,
venne
in
origine
dedicato.
Sull'argomento
sono
molteplici
le
ipotesi
formulate
dagli
studiosi,
nessuna
delle
quali
ha la
certezza
di un
riscontro;
tuttavia
presentano
un
elemento
in
comune,
quello
cioè
di
individuare
gli
originari
destinatari
del
culto
in due
divinità.
Con
argomentazioni
diverse
sono
stati
proposti
ora i
Dioscuri,
i
gemelli
Castore
e
Politice,
figli
di
Leda e
di
Zeus
(Dioscuri
significa
per
l'appunto,
in
greco,
"figli
di
Zeus"
il
Giove
dei
Romani),
ora
Ercole
e
Mercurio,
ora
Ercole
e
Trittolemo.
Costruito
fra il
440 e
il 430
a.C.
in
calcare
locale,
l'edificio
sacro
di
ordine
dorico
(19,75
x
42,23
m) fu
realizzato
con lo
stesso
materiale
sul
quale
poggia:
un
antichissimo
fondale
marino
risalente
a
circa
due
milioni
di
anni
fa,
come
si
deduce
dalle
conchiglie
che
anora
vi
sono
incastonate.
Si
tratta
di un
tempio
con
sei
colonne
sui
lati
brevi
e
tredici
sui
lati
lunghi.
Ciascuna
colonna
ha il
fusto
rastremato
verso
l'alto,
caratterizzato
da
venti
scanalature
e
costituito
da
quattro
rocchi,
di cui
quello
inferiore
poggia
direttamente
sullo
stilobate.
Ogni
colonna,
comprensiva
di
capitello,
raggiunge
un'altezza
di
quasi
sette
metri.
Per
costruirlo,
i
greci,
in
assenza
ovviamente
di
cemento
o
altri
materiali
conosciuti
oggi,
hanno
prima
preparato
i
blocchi
di
pietra
e poi
li
hanno
"montati"
uno
sopra
l'altro
fissandoli
fra
loro
con
perni
interni.
Ma il
motivo
per
cui
questo
tempio,
a
differenza
degli
altri
della
Valle
che
sono
andati
in
rovina
o sono
stati
saccheggiati
nel
corso
dei
secoli,
è
rimasto
integro
non
risiede
solo
nella
sagacia
e
abilità
dei
suoi
costruttori.
Dipende
anche
da
quanto
succede
alla
fine
del VI
secolo
d.C.
quando,
dopo
l'affermarsi
del
cristianesimo,
per
volere
del
vescovo
agrigentino
Gregorio,
si
decide
di
trasformarlo
in una
Chiesa.
Una
scelta
che in
qualche
modo
pemetterà
di
conservarlo
intatto
fino a
oggi.
Perchè
diventando
un
edificio
sacro
alla
religione,
sarà
risparmiato.
Anche
se,
temporaneamente,
modificato.
Il
vescovo ordina infatti che vengano innalzati muri fra una colonna e
l'altra, e tra esse costruite delle arcate: interventi tesi a dare alla
struttura originaria la forma di una chiesa con più navate. E'
interessante risalire alle numerose cronache di quel tempo perchè ci
raccontano un'epoca intera, come quando leggiamo di un rito celebrato dal
vescovo per consacrare il tempio ai santi apostoli Pietro e Paolo, e
scacciare i demoni che, a suo modi di vedere, ancora si trovano
all'interno.

Unico
fra i
templi
agrigentini,
conserva
per
intero
la
trabeazione,
formata
da
architrave
liscio
e
fregio
ben
riconoscibile
dal
caratteristico
alternarsi
di
metope
(in
numero
di 68)
e
triglifi
(in
numero
di
72),
elemento
tipico
dell'ordine
dorico.
In più
si
noti
come
le
metope
e i
triglifi,
posti
alle
estremità
dei
quattro
fregi,
risultino
più
larghi
(1,67
m)
degli
altri
e
questo
per
risolvere
il
cosiddetto
"conflitto
angolare"
(una
problematica
tipica
dell'architettura
dorica
legata
alla
necessità
di
rafforzare
strutturalmente
e
visivamente
i
punti
di
contatto
tra i
diversi
segmenti
della
trabeazione).
Sui
lati
brevi,
sopra
il
fregio,
osserviamo
la
cornice
orizzontale
sporgente
(chiamata
in
grecogeisorì),
che
insieme
alle
due
cornici
oblique
inquadra
il
timpano
costituendo
così
il
frontone.
La
totale
assenza
di
ogni
traccia
di
zanche
di
sostegno
sia
all'interno
delle
metope
del
fregio,
sia
all'interno
dei
due
timpani
dei
frontoni,
ha
portato
ad
ipotizzare
che
fossero
tutti
privi
di
decorazione
scultorea.
Possiamo
notare
come
le
colonne
non
siano
perfettamente
verticali,
ma si
pieghino
in
realtà
di
pochi
millimetri
verso
l'interno
del
monumento;
inoltre
possiamo
individuare,
a un
terzo
dell'altezza
di
ogni
fusto,
un
leggero
rigonfiamento
(o
entasis).
Infine
possiamo
notare
come
ogni
intercolumnio
(lo
spazio
tra le
singole
colonne),
vada
progressivamente
restringendosi
andando
dal
centro
verso
gli
angoli
della
peristasi,
allo
scopo
di
creare
un
particolare
effetto
ottico
che
compensa
la
visione
distorta
del
monumento
quando
lo si
osserva
da
lontano.
Entrando
nel
tempio,
una
volta
attraversato
il
deambulatorio,
si
raggiunge
la
cella
collocata
su una
base
cui si
accede
salendo
un
gradino.
Questa
è
scandita
in
pronao,
naos
ed
opistodomo,
il
primo
e
l'ultimo
distili
in
antis
(cioè
ciascuno
con
due
colonne
collocate
tra le
antae).
Nel
pronao,
ai due
lati
del
varco
d'accesso
al
naos,
si
elevavano
due
piloni
al cui
interno
erano
ricavate
due
scale
che
consentivano
di
raggiungere
il
tetto
dell'edificio
sacro
per
effettuare
opere
di
manutenzione.

Nulla
rimane
del
tetto
che,
come
di
consueto,
doveva
presentarsi
a
doppio
spiovente,
sorretto
da
capriate
lignee
e
ricoperto
da
tegole
in
terracotta.
Quanto
al
naos e
all'opisiodomo,
questi
due
ambienti,
che in
antico
non
erano
mai
fra
loro
comunicanti,
vennero
invece
unificati
in un
ambiente
unico,
per
consentire
l'accesso
da
ovest,
quando
Gregorio,
vescovo
di
Agrigento,
alla
fine
del Vl
secolo
trasformò
il
tempio
in una
chiesa.
Oltre
a
riorientare
l'entrata
all'edificio,
si
procedette
con la
chiusura
muraria
degli
intercolumni
del
colonnato
esterno,
mentre
nelle
murature
dei
lati
lunghi
del
naos
si
procedette
all'apertura
di sei
arcate
a
tutto
sesto.
In
questo
modo
l'intero
edificio
assunse
compiutamente
un
aspetto
chiesastico,
caratterizzato
dalla
suddivisione
dello
spazio
interno
in tre
navate.
Tale
nuovo
utilizzo
è
attestalo
fino
al
1748,
quando
la
chiesa
venne
sconsacrata.
Successivamente
noi
1788,
grazie
all'intervento
del
principe
di
Torremuzza
autorizzato
dai
Borboni,
lo
spazio
tra le
colonne
della
peristasi
fu
liberato
e
l'edificio
riprese
all'esterno
il suo
sviluppo
originario
mentre
all'interno
dell'antico
naos
non
vennero
toccate
le
arcate
laterali,
che
ancora
oggi
costituiscono
una
traccia
evidente
della
trasformazione
in
chiesa
dell'antico
tempio.
A
questo
riguardo
non va
dimenticato
che
dobbiamo
l'eccezionale
stato
di
conservazione
del
tempio
del V
secolo
a.C.
proprio
a
questa
sua
rifunzionalizzazione.
Sarà
forse
per
questo
che
nel
maggio
del
2005
la
Congregazione
per il
Culto
Divino
della
Chiesa
Cattolica
ha
proclamalo
San
Gregorio
II
Agrigentino
(il
vescovo
Gregorio
sali
agli
onori
degli
altari
nel XV
secolo)
patrono
di
quanti
operano
nel
campo
della
conservazione
dei
beni
archeologici
ed
architettonici.
Tempio
di Ercole
Dopo
il
Tempio
della
Concordia,
proseguendo
oltre
Villa
Aurea
e la
necropoli
paleocristiana,
poco
prima
di
raggiungere
la
Porta
Aurea
raggiungiamo
le
rovine
del
tempio
tradizionalmente
indicato
conio
quello
di Èrcole.
L'identificazione
dell'edificio
si
basa
su un
passo
di
Cicerone
il
quale
ne
ricorda
l'esistenza
nei
pressi
dell'agorà,
la
piazza
principale
della
città,
che si
trovava
subito
a
nord.
Figlio
di una
delle
innumerevoli
relazioni
di
Giove
con
donne
mortali
(in
questo
caso
la
bellissima
Alcmena
moglie
di
Anfitrione
re di
Tebe),
per
volere
della
gelosa
e
vendicativa
sposa
del re
degli
dei,
Giunone,
Ercole
fu
condannato
a
spendere
l'intera
sua
vita
superando
prove
impossibili
e
combattendo
contro
mostri
della
più
diversa
natura:
avventure
che il
mito
ha
riassunto
nelle
cosiddetto
"fatiche
di
Ercole".
Morto
per
opera
della
moglie
Deianira,
stanca
dei
suoi
continui
tradimenti
oppure,
secondo
la
tragedia
Trachinie
dedicatale
da
Sofocle,
a
causa
di un
filtro
magico
(il
sangue
di un
centauro)
con cui
la
moglie
credeva
erroneamente
di
riconquistare
l'amore
del
marito,
Ercole
fu
assunto
fra
gli
dei
dell'Olimpo
dove,
secondo
alcune
tradizioni,
avrebbe
sposato
Ebe,
la dea
dell'eterna
giovinezza.

La
maggioranza
degli
studiosi
sostiene
che il
tempio
dedicatogli
dagli
Agrigentini
fu
eretto
intorno
alla
fine
del VI
secolo
a.C. e
ciò
ne fa
il più
antico
della
città.
Non
mancano
tuttavia
alcune
voci
contrarie,
che
propendono
per
una
datazione
più
bassa,
intorno
al
490-480
a.C. e
lo
collegano
quindi
all'attività
edilizia
promossa
dal
tiranno
Terone.
Non si
conosce
il
momento
del
crollo
del
monumento
ma è
stato
ipotizzato,
sulla
base
della
disposizione
dei
resti
sul
terreno
e del
loro
stato
di
conservazione,
che il
tempio
possa
essere
stato
distrutto
da un
terremoto.
Eretto
su una
piattaforma
a tre
gradini,
il
tempio
di
ordine
dorico
(28 x
74 m)
è di
tipo
periptero
esastilo,
realizzato
in
calcare
locale.
Il
colonnato
che
circonda
la
cella
è
costituito
da sei
colonne
sui
lati
brevi
e
quindici
su
quelli
lunghi.
Le
colonne
(alte
circa
10
metri)
si
presentano
con il
fusto
rastremato
verso
l'alto
composto
da
quattro
rocchi
scanalati;
in
cima
al
fusto,
dopo
una
profonda
gola,
vi è
il
capitello
di
forma
schiacciata
sia
nell'echino
che
nell'abaco.
Queste
particolari
caratteristiche
delle
colonne
possono
ancor
oggi
essere
osservate
soprattutto
lungo
la
peristasi
meridionale,
dove
sono
otto
le
colonne
di cui
quattro
complete
di
capitello:
queste
sono
state
ricollocate
nella
loro
posizione
originaria
negli
anni
Venti
del
secolo
scorso
grazie
al
munifico
intervento
del
capitano
inglese
Alexander
Hardcastle.
La
cella
si
presenta
di
forma
allungata
con
pronao,
naos
ed
opistodomo,
il
primo
e
l'ultimo
con
due
colonne
collocate
tra le
antae.
All'interno
del
naos
era
collocata
su un
basamento
una
venerata
statua
di Ercole
in
bronzo,
opera
di
Mirone,
che il
propretore
Verre
avrebbe
tentato
di
rubare,
scatenando
la
pronta
reazione
degli
Agrigentini.
Cicerone
riferisce
che
nel
tempio
era
conservato
un
dipinto
del
celebre
pittore
greco
Zeusi
che
ritraeva
il
piccolo
Ercole
nell'atto
di
strangolare
nella
culla
i
serpenti
inviati
da
Giunone
per
ucciderlo.
All'interno
del
naos
è
stata,
invece,
rinvenuta
una
statua
del
dio
Asclepio
di
epoca
romana
imperiale.
Nulla
sopravvive
della
copertura
dell'edificio,
mentre
sono
conservati
presso
il
Museo
Archeologico
alcuni
manufatti
di
grande
interesse
che
facevano
parte
degli
apparati
decorativi
esterni
all'edificio,
come
le
teste
leonine
in
calcare
con le
fauci
aperte
utilizzate
come
gocciolatoi
delle
grondaie
dell'edificio:
alcune
risalgono
all'epoca
della
costruzione
del
tempio
(fine
VI
a.C.),
altre
al
secolo
successivo.
Ad una
trentina
di
medi
dall'entrata
al
tempio
sono
stati
rinvenuti
i
resti
di un
altare
per i
sacrifici.
Tempio
di
Giove
Lasciato
il
tempio
di Ercole
e
osservati
i
resti
della
Porta
Aurea,
che
collegava
la
città
con il
territorio
a sud
in
direzione
della
costa
e del
porto,
assecondando
l'andamento
della
collina
giungiamo
al
tempio
dedicato
al te
degli
dei
che i
Greci
chiamavano
Zeus e
i
Romani
Giove.
Già
da
lontano
la
visione
delle
sue
rovine
colpisce
per la
loro
imponenza,
nonostante
il
tempio,
crollato
a
causa
di
terremoti,
sia
stato
utilizzato
nel
XVIII
secolo
come
cava
in
occasione
della
costruzione
del
molo
della
vicina
Porto
Empedocle.
Siamo
pur
sempre
di
fronte
al
tempio
dorico
più
grande
della
città
e
dell'Occidente
(più
grande
anche
del
Partenone
di
Atene).
E non
poteva
essere
diversamente,
visto
il dio
a cui
era
dedicato.
Questi,
secondo
il
mito,
era
figlio
di
Saturno,
che
nel
timore
di
essere
detronizzato
dai
propri
figli,
come
aveva
preannunciato
un
oracolo,
li
inghiottiva
appena
nati.
Solo
Giove
sfuggi
a
questo
orribile
destino,
messo
in
salvo
dalla
madre
Rea.
Una
volta
cresciuto,
il
giovane
dio
affrontò
il
padre,
lo
vinse
e lo
cacciò
dall'Olimpo,
assumendo
il
dominio
del
mondo
assieme
ai
fratelli
Nettuno
(dio
del
mare)
e
Plutone
(dio
dell'aldilà
e
degli
inferi).
Il
tempio
in
onore
di
Giove
Olimpio
(cioè
"signore
dell'Olimpo"),
noto
anche
come
Olympieion,
fu
eretto
ad
Agrigento
dopo
la
grande
vittoria
riportata,
nel
480
a.C.,
dal
tiranno
Terone
contro
i
Cartaginesi
nella
battaglia
di
Himera.
Si
trattava
quindi
di un
ex
voto,
ma al
tempo
stesso
di uno
strumento
di
propaganda,
almeno
nei
progetti
di
Terone,
che
volle
offrire
un
simbolo
tangibile
della
potenza
di
Agrigento
avviando
il
progetto
di
quello
che
era
destinato
a
diventare
uno
dei più
grandi
templi
del
mondo
greco
antico.
Studi
recenti
hanno
tuttavia
messo
in
discussione
la
datazione
tradizionale,
anticipando
l'apertura
dell'immenso
cantiere
di
alcuni
anni e
fissando
l'inizio
dei
lavori
ai
primissimi
anni
della
tirannide
di
Terone
(488-472
a.C).
La
struttura
del
grande
tempio
dorico
(56,30
x
113,45
m),
realizzato
con blocchi
di
calcare
locale,
esce
dagli
schemi
tradizionali
offrendo
soluzioni
architettoniche
decisamente
originali.
Il suo
basamento
gradinato
ha
misure
colossali
ed è
formato
da
cinque
gradini
di cui
l'ultimo
alto
il
doppio
rispetto
agli
altri.
Anche
a
livello
planimetrico
il
tempio
stupisce,
essendo
un
raro
esempio
di
edificio
eptastilo
pseudoperiptero.
Questo
vuol
dire
che la
cella
era
nascosta
alla
vista
in
quanto
circondata
da una
muratura
(e non
da un
colonnato),
alla
quale
aderivano
semicolonne
doriche
scanalate:
quattordici
nei
lati
lunghi
e
sette
nei
lati
brevi;
ad
ogni
semicolonna
corrispondeva
all'interno
un
pilastro
a
pianta
rettangolare.
Le
semicolonne,
particolarmente
alte
(si
ipotizza
tra i
18 e i
20
metri),
erano
impostate
su un
breve
zoccolo
che
circondava
tutta
la
muratura
e
realizzate
con
piccoli
blocchi
di
pietra
tagliati
a
cuneo.
Sulla
sommità
di
ogni
fusto
era
collocato
un
semicapitello
costituito
da un
echino,
realizzato
in due
blocchi
di
pietra
e
decorato
con un
quadruplice
collarino
e
quindi
da un
abaco,
formato
da tre
grossi
lastroni.
Oltre
l'abaco
era
collocata
la
trabeazione
suddivisa
in
architrave
liscio
e
fregio
che,
come
di
norma
nello
stile
dorico,
presentava
la
caratteristica
alternanza
tra
triglifi
e
metope.
Alcuni
di
questi
sono
ancor
oggi
visibili
tra le
rovine
dell'edificio,
mentre
frammenti
delle
gronde
del
tempio
con
teste
leonine,
in
funzione
di
gocciolatoi,
sono
visibili
presso
il
Musco Archeologico.

Quanto
ai due
frontoni,
che
campeggiavano
sui
lati
brevi
del
tempio
a est
e
ovest,
sappiamo
da
Diodoro
Siculo
che il
loro
timpano
era
decorato
con
raffigurazioni
scultoree
dedicate
alla
lotta
fra
gli
dei
olimpici
e i
giganti
(la
cosiddetta
Gigantomachia)
e alla
guerra
di
Troia.
Altro
elemento
da
secoli
in
discussione
tra
gli
studiosi
è
quello
relativo
all'esatta
collocazione
dei
giganteschi
telamoni
rappresentati
in
piedi
con le
braccia
piegate
a lato
della
testa
come a
sostenere
un
pesante
fardello.
Questi
dovevano
trovarsi
con i
piedi
appoggiati
sopra
mensole
collocate
a
circa
undici
metri
di
altezza
e il
corpo
ancorato
alla
muratura
posta
tra
gli
intercolumni
sul
lato
esterno
del
tempio.
Questi
straordinari
Giganti,
come
vengono
spesso
ricordati
nei
diari
e nei
disegni
dei
viaggiatori
del
Grand
Tour
europeo,
raggiungevano
una
considerevole
altezza
(7,65
m) ed
erano
realizzati
in
blocchi
di
pietra
sagomati
che
rendevano
bene
la
loro
struttura
anatomica.
A
prova
di ciò
si
osservi
la
riproduzione
a
grandezza
naturale
che si
trova,
distesa,
all'interno
delle
rovine
del
grande
tempio,
mentre
presso
il
Museo
Archeologico
si
trova
l'unico
esemplare
originale,
ricostruito
nel
XIX
secolo.
Gli
ultimi
Giganti
avrebbero
resistito
nella
loro
originaria
collocazione
fino
all'inizio
del XV
secolo.
Va,
infine,
ricordato
che
non
tutti
gli
studiosi
concordano
sulla
presenza
dei
telamoni
lungo
l'intero
perimetro
del
tempio
secondo
alcuni
la
loro
presenza
doveva
essere
limitata
solo
alla
facciata.
Nella
storia
dell'arte
vengono
chiamati
telamoni
o
atlanti
le
sculture
maschili
a
tutto
tondo
impiegate
come
sostegno,
a
scopo
decorativo,
al
posto
delle
semplici
colonne.
Si
tratta,
insomma,
del
corrispettivo
maschile
delle
note
cariatidi.
Telamone,
nella
mitologia
greca,
era
uno
degli
Argonauti,
un
eroe
che
aiutò
Eracle
a
sconfiggere
le
Amazzoni,
Atlante
era
invece
il
titano
che
sosteneva
il
globo
del
mondo
sulle
sue
spalle:
entrambi
figure
di
bruta
forza
maschile,
impiegate
per
battezzare
questo
elemento
architettonico
diffusissimo
dall'antichità
fino
al XIX
secolo.
La
posizione
del
telamone
di
Agrigento,
con le
braccia
incrociate
dietro
la
testa,
ricalca
la
figura
mitologica
di
Atlante
e
sembra
suggerire
il suo
ruolo
di
sostegno.
Eppure,
per
quanto
siano
noti
altri
esemplari
di
telamoni
nell'antichità
(alcuni
sono
presenti
nel
Foro
di
Traiano,
altri
sono
stati
ritrovati
tra i
resti
della
città
latina
di
Fregellae),
non
possiamo
essere
sicuri
della
loro
funzione
e del
loro
significato
all'interno
del
Tempio
di
Zeus.
L'identità
degli
antichi
giganti
rimane
per
noi
ancora,
in
buona
parte,
sconosciuta.
All'interno
del
tempio,
dopo
il
deambulatorio
(lo
spazio
libero
tra la
muratura
del
tempio
e
quella
che
racchiudeva
la
cella)
e il
pronao,
si
accedeva
al
naos,
forse
a
cielo
aperto,
di
forma
rettangolare
allungata,
i cui
lunghi
muri
perimetrali
erano
intervallati
da
pilastri
quadrangolari
tra
loro
distanziati
di
quattro
metri.
Davanti
al
muro
di
fondo
doveva
trovare
posto
la
statua
del
dio,
mentre
dall'altro
lato
vi era
poi
l'opistodomo.
All'esterno
del
tempio,
ad
alcuni
metri
di
distanza
dall'ingresso,
sono
stati
individuati
i
resti
di un
gigantesco
altare
di
forma
rettangolare,
destinato
ai
sacrifici.
Sempre
nell'area
esterna
al
tempio,
in
prossimità
dello
spigolo
sudorientale,
gli
scavi
hanno
individuato
la
presenza
di un
piccolo
tempio
datato
al IV
secolo
a.C. e
di un
portico
con
fontana.
Ad
ovest,
invece,
sono
state
individuate
le
fondamenta
di
abitazioni,
forse
riservate
ai
sacerdoti,
oltre
a
strutture
identificate
come thesauroi
(sacelli
utilizzati
per la
conservazione
e
l'esposizione
delle
offerte
fatte
al
dio) e
leschai
(edifici
pubblici
aperti
dove
poveri
e
pellegrini
potevano
trovare
ricovero
per la
notte
o dove
ci si
riuniva
per
riposare
o
chiacchierare).
Area
santuariale

Dietro
il
Tempio
di
Giove,
oltre
la
porzione
dell'abitato,
proseguendo
verso
ovest è
possibile
osservare
un'area
sacra
collocata
in
prossimità
dei
resti
della
Porta
V. Si
tratta
di un
complesso
che è
andato
stratificandosi
nei
secoli,
dall'epoca
arcaica
alla
ellenistica.
Sono
stati
qui
riconosciuti
due
templi,
di cui
uno a
pianta
circolare,
e un
portico
ad L
dalle
molteplici
funzioni.
L'ampia
area
è
delimitata
dal
profilo
roccioso,
su cui
sono
ancora
visibili
parte
delle
fortificazioni;
dai
resti
della
Porta
V
attraverso
la
quale,
provenendo
dalla
costa,
si
accedeva
alla
città
antica;
infine
sugli
altri
lati
l'area
era
delimitata
da un
portico
a L.
Portico
a L
- Il
portico,
realizzato
con
blocchi
di
calcare
locale,
venne
edificato
nella
seconda
metà
del
III
secolo
a.C.
(epoca
ellenistica),
utilizzando
parte
di una
muratura
che già
agli
inizi
del V
a.C.
delimitava
il
complesso.
Esso
era
caratterizzato
da due
ali:
quella
più
lunga
presenta
un
andamento
da sud
a nord
e qui
si
salda
a
novanta
gradi
con
l'ala
più
breve
con
andamento
est-ovest.
Proprio
quest'ultimo
tratto
venne
nel II
secolo
a.C.
allungato
sui i
resti
murari
di un
precedente
edifico
arcaico
a
pianta
rettangolare,
interpretato
come
sala
riunioni.
Il
ritrovamento,
all'interno
dell'ala
più
lunga
del
portico,
di
diversi
ambienti,
cisterne
e di
una
vasca
con
fontana
ha
portato
ad
ipotizzare
che
questa
porzione
fosse
utilizzata
come
area
di
sosta
per i
pellegrini
che potevano
qui
consumare
cibi e
bevande
(hestiatorion)
o
trovare
un
alloggio
per la
notte
(katagogion).
Tempio
ad
oikos
- La
più
antica
tra le
costruzioni
di
quest'area
è un
piccolo
tempio
ad
oikos
tripartito
(6 x 8
m),
caratterizzato
da
pronao,
naos e
adyton.
Esso
è
datato
all'epoca
arcaica
(intorno
alla
metà
del VI
secolo
a.C).
Nella
prima
metà
del V
secolo
a.C.
all'edificio
venne
aggregato
un
ambiente
quadrangolare
che
ospitava
all'interno
un
altare.
Invece
nella
seconda
metà
dello
stesso
secolo
davanti
alla
facciata
del
tempio
venne
innalzata
una
struttura
d'ingresso
(propileo
dal
greco
propylon)
caratterizzata
dalla
presenza
di
colonne
e
pilastri.
Questo
monumentale
accesso
si
apriva
su una
area
aperta
delimitata
verso
est da
un
boschetto
sacro.
Questa,
documentata
dalle
indagini
archeologiche,
ebbe
nel
tempo
tre
diverse
pavimentazioni
di cui
la
prima
e più
antica
era
costituita
da un
semplice
strato
battuto
di
pietra
arenaria.
Successivamente,
nella
seconda
metà
del V
secolo
a.C,
in
occasione
della
costruzione
del
propylon
sul
fronte
del
tempio,
la
piazza
venne
rialzata
e
quindi
dotata
di
pavimentazione
a
lastre
di
pietra.
Infine,
nella
seconda
metà
del
III
secolo
a.C.
(età
ellenistica),
la
piazza
venne
nuovamente
rialzata
di
quota
e
quindi
ripavimentata
con
lastre
ma in
uno
scenario
ormai
mutato.
Il
tempio
ad
oikos
giaceva
infatti
in
rovina
in
quanto
non
era
stato
più
ricostruito
dopo
il 406
a.C,
anno
della
conquista
cartaginese
di
Agrigento.
Dopo
tale
data
sulle
macerie
del
propileo
furono
innalzati
due
altari
monumentali
a dado
così
detti
perché
ne
ricordano
la
forma,
ciascuno
collocato
all'interno
di un
recinto
in
muratura.
Non
abbiamo
notizie
certe
circa
la
dedicazione
di
questo
tempio.
Gli
studiosi
ipotizzano
che
qui
fosse
vivo,
già
dalla
fase
più
antica,
il
culto
di
Demetra
e
Persefone,
divinità
ctonie
molto
celebrate
nell'antica
Akràgas.
L'ipotesi
verrebbe
suffragata
da un
lato
dal
rinvenimento,
nei
pressi
del
tempio
ad
oikos,
di
intagli
nella
roccia
interpretati
come
il
tentativo
di
edificare
qui un
secondo
edificio
sacro;
dall'altro
dalla
presenza
dei
due
altari
con
recinto
realizzati
in
epoca
ellenistica
quando
l'area
era
ormai
in
rovina.
Questi
avrebbero
avuto
la
funzione
di
perpetuare
la
sacralità
del
luogo
e il
culto
delle
due
divinità.
In
effetti
che
l'area
fosse
ritenuta
sacra,
quando
ormai
in
parte
obliterata,
è
testimoniato
anche
dal
rinvenimento
di
alcune
piccole
edicole
sacre
che in
epoca
ellenistica
(tra
la metà
del
III e
gli
inizi
del
II
a.C.)
furono
costruite
a
ridosso
del
lato
esterno
del
muro
settentrionale
del
portico,
quello
prospiciente
l'abitato.
Tempio
a
tholos
- Alla
tarda
età
ellenistica
(II
secolo
a.C.)
viene
fissata
la
costruzione
del
tempio
a
pianta
circolare
(detto
a
tholos)
con
altare
al
centro
che
andò
ad
obliterare
la
porzione
meridionale
dell'ala
più
lunga
del
portico
a L.
Per
quanto
l'edificio
non
sia
conservato
in
alzato,
i
blocchi
di
pietra
della
sua
fondazione
consentono
di
comprenderne
lo
sviluppo
planimetrico
e
l'ampiezza.
Tempio
dei
Dioscuri
Dopo
avere
osservato
le
rovine
della
Porta V,
procedendo
verso
occidente
si
raggiunge
l'area
del
Tempio
dei
Dioscuri.
Il mito
legato
all'origine
dei
Dioscuri
è
indubbiamente
uno dei
più
curiosi
tramandatici
dalla
tradizione
antica.
Secondo
la
versione
più
diffusa,
tutto
ebbe
origine
dall'ennesima
scappatella
da parte
di
Giove,
il re
degli
dei, il
quale,
invaghitosi
di Leda,
moglie
di
Tindaro
re di
Sparta,
per
possederla
assunse
l'aspetto
di un
candido
cigno.
Nel
corso
della
medesima
notte
con lei
si unì
anche il
marito,
e
l'esito
finale
fu che
Leda
partorì...
due uova
di
cigno! 
Quando
si
schiusero,
da uno
nacque
il
frutto
dell'unione
con il
dio, una
coppia
di
semidei
formata
da una
femmina,
Elena,
la
bellissima
e fatale
causa
della
guerra
di
Troia, e
da un
maschio,
che
siamo
abituati
a
chiamare
Politice
secondo
la forma
latina
del
nome,
Pollux
(in
greco
suonava
invece
in modo
un po'
diverso:
Polydeykes).
Dal
secondo
uovo
nacquero
invece
due
"semplici"
esseri
umani,
anche in
questo
caso una
femmina,
Clitennestra,
e un
maschio,
Castore.
Una
volta
cresciuti,
maschi e
femmine
presero
due
strade
molto
diverse.
Le due
ragazze
erano
destinate
a
guadagnare
un posto
di
rilievo
nella
mitologia
come
emblemi
dell'infedeltà
coniugale:
Elena
tradì
il
marito
Menelao,
re di
Sparta,
per
fuggire
a Troia
con il
principe
Paride;
Clitennestra,
andata
in sposa
ad
Agamennone,
fratello
di
Menelao
e re di
Micene,
lo tradì
con
Egisto e
assieme
all'amante
uccise
il
marito
quando
era
appena
tornato
a casa
dalla
guerra
di
Troia.
Di
segno
decisamente
opposto
le vite
dei due
maschi,
tanto
uniti
fra loro
che la
tradizione
li
ricorda
insieme
con
l'unico
nome di
Dioscuri.
I
due
si
volevano
così
bene che
quando
Castore
fu in
punto di
morte,
il
fratello
immortale
ottenne
da Giove
la
grazia
straordinaria
di poter
condividere
con lui
la
propria
immortalità
e così,
alternativamente,
passavano
ciascuno
un
giorno
sulla
terra e
un
giorno
nel
regno
sotterraneo
dei
morti.
Va anche
ricordato
che i
Dioscuri
nell'iconografia
antica
sono
spesso
raffigurati
a
cavallo,
e per
questa
ragione
i Romani
li
veneravano
in
particolare
come
protettori
dei
cavalieri,
una
delle
tre
classi
in cui
erano
divisi i
cittadini
romani,
a
"metà
strada"
fra
senatori
e plebe.
Dalle
ricostruzioni degli archeologi, il tempio doveva essere un periptero
dorico davvero imponente, estendendosi per una superficie di 541 metri
quadrati
(16,43 x
33,99 m)
con sei colonne sui frontoni e tredici lungo i lati. E' ancora possibile
vedere i resti della decorazione figurativa che impreziosiva il tempio con
ricchi motivi vegetali e grondaie a forma di testa leonina. Il leone,
utilizzato anche nel Tempio di Ercole e di Demetra, aveva la funzione di
spaventare le potenze del male e alllontanarle.
Come
tutti i templi greci, il Tempio dei Dioscuri era, in origine, dipinto a
colori vivaci e, in particolare, le teste leonine erano
probabilmente turchesi, con il muso giallo e una lingua rossa che seviva
da canale di scorrimento per l'acqua che si raccoglieva sulle grondaie. Al
leone si alternavano foglie di palma, simbolo di trionfo. Un'autentica
meraviglia di cui rimane solo una L, ricostruita nei secoli, eppure così
suggestiva da diventare il simbolo di questo luogo.
L'alzato
del
tempio,
che oggi
osserviamo
limitatamente
alle
quattro
colonne
dell'angolo
nord-occidentale,
è
l'esito
di un
intervento
di
anastilosi
(ricomposizione)
operato
nel 1836
a cura
della
Commissione
delle
Antichità
della
Sicilia,
con
l'intento
di
restituire
alla
vista
l'articolazione,
seppure
parziale,
dell'edificio.
Le
quattro
colonne
presentano
il fusto
formato
da tre
rocchi
in
pietra e
caratterizzato
da venti
scanalature
a
spigolo
vivo;
segue il
capitello
(con i
geometrici
echino
ed
abaco) a
sorreggere
la
trabeazione,
formata
dall'architrave
liscio e
quindi
dal
fregio
con la
consueta
alternanza
di
metope e
triglifi.
La
ricostruzione
della
porzione
angolare
dell'edificio
ha
permesso
sul lato
ovest il
riposizionamento
di parte
del
geison
(cornice
orizzontale)
sporgente
e
l'attacco
di una
sima
obliqua,
a dare
almeno
l'idea
dello
sviluppo
del
frontone
e del
timpano
al suo
interno.
Va
precisato
che
l'anastilosi
così
operata,
seppure
ancor
oggi
suggestiva,
per gli
studiosi
non è
proprio
corretta,
essendo
stati
riutilizzati
elementi
probabilmente
non
pertinenti
all'edificio.
Quanto
all'interno,
la cella
presentava
come di
consueto
il naos
al
centro
tra
pronao e
opistodomo.
Tempio
L
-
Poco
distante
dal lato
meridionale
del
Tempio
dei
Dioscuri
si può
osservare
lo
sviluppo
perimetrale
del
cosiddetto
Tempio
L.
Quello
che
rimane
dell'antico
edificio
sacro è
il solo
taglio
nella
roccia
realizzato
in
occasione
della
fondazione
del
tempio,
di
ordine
dorico
(41,80 x
20,20
m). Si
ipotizza
che
l'edificio
periptero
sarebbe
stato
innalzato,
come
quello
vicino
dei
Dioscuri,
intorno
alla metà
del V
secolo
a.C. e,
analogamente
a
questo,
sarebbe
stato
distrutto
nel 406
a.C, in
occasione
dell'assedio
cartaginese
di
Agrigento.
A terra
si
possono
osservare
numerosi
rocchi
dei
fusti
delle
colonne
che
costituivano
l'originaria
peristasi.
Poco
distante
dalla
sua
entrata
a est si
possono
osservare
i resti
di un
altare,
forse
eretto
in epoca
ellenistica.
Santuario
delle
Divinità
ctonie
Dopo
avere
osservato
le
rovine
del
Tempio
dei
Dioscuri
e del
cosiddetto
Tempio
L, si
raggiunge
il
Santuario
delle
Divinità
ctonie:
Demetra
e
Persefone.
Demetra,
secondo
il mito,
generò
con il
fratello
Zues la
figlia
Persefone.
Ben
presto
della
giovane
si
innamorò
Plutone,
fratello
di Zeus
e della
stessa
Demetra,
che rapì
la
fanciulla
e la
condusse
negli
inferi
dove
regnava.
La madre
disperata
andò
alla
ricerca
della
figlia
per nove
notti e
nove
giorni
rifiutandosi
di
mangiare
e bere
finché
raggiunse,
sotto le
sembianze
di una
anziana,
la città
di
Eleusi
su cui
regnava
il re
Celeo.
Durante
il
periodo
in cui
Demetra
rimase
ad
Eleusi,
la terra
divenne
sterile
ed
improduttiva
e allora
Zeus
mandò
presso
il
fratello
Plutone
il
figlio
Ermes
quale
suo
messaggero
perché
Persefone
fosse
restituita
alla
madre.
Ma poiché
la
fanciulla
aveva
assaggiato
sette
chicchi
di una
melagrana
colta
nel già
colta
nel di
Plutone,
legandosi
così
indissolubilmente
allo
sposo,
questi
non
voleva
lasciarla
andare.
In
seguito,
grazie
all'intervento
di Rea,
si trovò
un
accordo
in base
al quale
Persefone
sarebbe
vissuta
per nove
mesi
sull'Olimpo
con
Demetra
e per i
restanti
tre con
Plutone
negli
Inferi.
Nel
Museo
Archeologico
Regionale
sono
conservati
interessali
manufatti
fittili
che
rappresentano
le due
divinità.
Demetra
in
alcune
statuine
risalenti
al VI
secolo
a.C. è
rappresentata
in piedi
con il
tipico
copricapo
a forma
di
moggio
(un
contenitore
che in
antico
costituiva
un'unità
di
misura
per
granaglie);
in altre
è
rappresentata
invece
seduta
in
trono. A
queste
due
divinità,
protettrici
della
terra e
delle
attività
agricole,
sarebbe
dunque
dedicato
il
complesso
di
edifici
sacri
che qui,
nell'area
occidentale
della
Collina
dei
Templi,
sono
andati
stratificandosi
a
partire
dall'età
arcaica
(VI
secolo
a.C).
Siamo in
una zona
terrazzala
che
sovrasta
dall'alto
la
Kolymbetra.
L'area
sacra,
individuata
agli
inizi
del XX
secolo
grazie
agli
scavi
condotti
da Pirro
Marconi,
presenta
i resti
di
diverse
architetture
tra cui
spiccano
per la
loro
antichità
(metà
del VI
secolo
a.C.)
due
recinti
sacri
posti
all'estremità
nord. Il
primo,
il
cosiddetto
Recinto
1, ha
pianta
rettangolare
(15,52 x
10,0 m)
ed è
diviso
in più
ambienti
collegati
tra
loro da
uno
stretto
corridoio
e si
caratterizza
per la
presenza
di un
altare
circolare.
Lo
sviluppo
di
questa
struttura,
segnalano
gli
studiosi,
trova
confronti
planimetrici
in
analoghi
edifici
di
ambito
cretese
e questo
è
di
particolare
significato
perché
potrebbe
attestare
un
edificio
di culto
realizzato
dai
fondatori
di
Aknigas,
come
sappiamo
di
origine
rodio-cretese.
Il
secondo,
Recinto
2 (5,40
x 12,95
m),
realizzato
poco
distante
dal
primo ma
spostato
verso
sud, si
presenta
come un
piccolo
tempietto
a pianta
rettangolare
con
accesso
da Est;
esso è
suddiviso
internamente
in due
ambienti
e
completato
da due
altari,
circolare
l'uno e
rettangolare
l'altro.
Più
oltre
sono poi
visibili
le
rovine
di tre
piccoli
tempietti,
detti
anche
thesauroi
o donari
(dove
venivano
collocate
le
offerte
per le
divinità),
tutti
realizzati
con
blocchi
di
calcare
locale e
datati
al VI
secolo
a.C: i
primi
due noti
come
Tempietto
1 (4,95
x 10,65
m) e
Tempietto
2 (4,20
x 9,20
m)
presentano
una
struttura
tripartita
caratterizzata
da
pronao,
naos e
quindi
adyton,
un
locale
quest'ultimo
inaccessibile
a coloro
che non
erano
addetti
al
culto.
Affiancato
al
secondo
è stato
riconosciuto
un terzo
edificio,
il
Tempietto
3 (10,45
x 9,30
m). Si
ipotizza
che
inizialmente
l'edificio
fosse
del tipo
ad oikos
(che in
greco
significa
casa),
cioè
con un
solo ed
unico
ambiente
con
funzione
di naos
e che
solo in
una
successiva
fase
sarebbe
stato
completato
da un
pronao
d'ingresso.
In
prossimità
del lato
orientale
del
terzo
tempietto
si
possono
osservare
alcune
tracce
di
lavorazione
sulla
roccia
che gli
studiosi
hanno
interpretato
connesse
con il
progetto
di
costruzione
di un
tempio
periptero
di
grandi
dimensioni,
tentativo
che
venne
operato
in due
fasi
successive,
nella
seconda
metà
del VI
a.C. e
poi
ancora
all'inizio
del
secolo
successivo.
Spostandosi
nell'area
terrazzata
all'estremo
ovest,
è
invece
possibile
osservare,
all'interno
di una
recinzione
di cui
sono
visibili
alcuni
tratti
murari,
i resti
di
alcuni
basamenti
di varia
forma
(allungata,
quadrangolare,
semicircolare).
Su
questi
dovevano
essere
stati
collocati,
tra la
fine del
VI e gli
inizi
del V
secolo
a.C,
degli
altari
per
celebrazioni
cultuali
all'aperto
oppure
dei
donari,
cioè
manufatti
quali,
ad
esempio,
statue
dedicate
alle
divinità.
Tra i
reperti
rinvenuti
in
questa
zona
interessante
è una
testa
fittile
caratterizzata
da un
alto
copricapo
che
viene
datata
alla
fine del
VII
secolo
a.C. e
ritenuta
un'opera
d'ambito
rodio o
cretese
portata
dai
fondatori
della
città.
La
Kolymbetra
Un
fitto agrumeto con almeno otto specie diverse di frutti. Dalle arance ai
cedri, dai limoni a una variopinta carrellata di mandarini, pompelmi,
bergamotti. E poi piante di chinotto e di lime, i cui colori e profumi si
mischiano a quelli della macchia mediterranea che punteggia le scarpate
rocciose: piante di mirto e di lentisco mischiate a palme nane, euforbie e
gialle ginestre. Sullo sfondo, lungo i pendìi assolati, filari di ulivi
centenari e di mandorli. E il sorprendente scenario botanico che si ammira
percorrendo i sentieri della Kolymbetra, il vallone verdeggiante che si
estende per circa sei ettari, di cui cinque visitabili, all’interno del
Parco Archeologico della Valle dei Templi di Agrigento.
A
fare da sentinella alla vallata sono le rovine dei templi dei Dioscuri
(Castore e Polluce) e di Vulcano, entrambi del V secolo a.C., che dominano
dall’alto questo prodigio agricolo e archeologico risalente a 2.500 anni
fa. Il senso di frescura, legato allo scorrere dell’acqua, costituisce
una sorpresa in questa zona della Sicilia dal clima generalmente arido.
Fin
dall’antichità, questo fertile spicchio di terra ha rappresentato
un’esperienza sensoriale unica. Diodoro Siculo, storico greco-siceliota,
ne diede per primo una precisa descrizione, nell’80 a.C. In epoca
moderna è stato celebrato da diversi viaggiatori europei, giunti ad
Agrigento nel 700 durante il Grand Tour. L’abate di Saint-Non decantò
il sito come “paesaggio di delizie, vero e proprio Eden, dove si
scorgono i resti venerabili dell’antichità”.
Da
qualche anno, dopo un lungo abbandono, questo paradiso terrestre è di
nuovo fruibile. Ha infatti ripreso vita nel 2001, grazie a un complesso
intervento di recupero naturalistico e strutturale compiuto dal Fai, il
Fondo per l’Ambiente Italiano, che nel 1999 l’ha ottenuto in
concessione gratuita dalla Regione Siciliana per 25 anni.
Osservata
dall’alto, la Kolymbetra appare svilupparsi in una lunga e stretta
valle, delimitata da pareti di roccia a strapiombo profonde fino a 15
metri tra il pianoro dei templi e la parte più bassa della gola.
Scendendovi a poco a poco, risalta il contrasto tra il verde della
vegetazione e il giallo della calcarenite, la pietra di queste zone, usata
anche per la costruzione dei templi. Un effetto ancor più forte al
tramonto, quando i costoni rocciosi del vallone assumono tonalità
fiammeggianti.
Diodoro
Siculo racconta di una grande fossa scavata dagli schiavi catturati nella
battaglia di Imera del 480 a.C., quando l’antica Akragas era dominata
dal tiranno Terone. Il sovrano della polis pretese un’enorme vasca da
riempire d’acqua (la parola greca kolymbetra significa, infatti,
piscina). Le scarse fonti storiche non sciolgono però i dubbi su quale
fosse la modalità d’utilizzo prevalente della Kolymbetra:
l’irrigazione, l’allevamento dei pesci d’acqua dolce oppure i riti
religiosi, come dimostrerebbe la sua posizione a breve distanza dal
santuario delle divinità Ctonie, la zona più sacra della valle. Le vaste
dimensioni del bacino fanno pensare anche a una soluzione architettonica
con cui il tiranno e la sua città affermavano il dominio dell’uomo
sulla natura. La Kolymbetra resterà colma d’acqua soltanto fino al III
secolo a.C., quando a seguito della distruzione di Akragas da parte dei
Cartaginesi verrà interrata, mantenendo però un alto livello di fertilità
e un microclima fortunato.
A
garantire un costante tasso d’umidità, è un torrentello alimentato
dalle piogge e soprattutto il sofisticato reticolo di cunicoli
appositamente scavati nella roccia e tuttora funzionante. Queste gallerie,
comunemente dette “ipogei” ma che gli archeologi preferiscono
denominare “acquedotti Feaci” (dal nome di Feace, l’architetto che
le progettò), terminano con grossi fori sulle pareti rocciose. Se ne
contano dodici: un prodigio di ingegneria idraulica che permette di
drenare l’acqua dalle falde sotterranee, assicurando un’irrigazione
costante. Malgrado la mancanza di fonti storiche, è difficile pensare che
il fascino e la fecondità della Kolymbetra siano sfuggiti ai dominatori
delle epoche successive. In particolare agli arabi, che probabilmente vi
coltivarono la canna da zucchero. Lo sfruttamento agricolo sistematico del
luogo comincia però solo nel ‘500 quando, passato sotto il controllo
del clero, vi vennero impiantate coltivazioni di ortaggi e alberi da
frutto.
Oggi
il Giardino della Kolymbetra rappresenta un importante esempio di recupero
del paesaggio agrario. Ma è anche un laboratorio sperimentale, dove si
coltivano varietà agrumicole ormai scomparse. In tutto sono circa 40. Tra
le più succose, le arance vaniglia rosa e alcune tipologie di sanguinelli
e di arance a polpa bionda. Il gusto agrodolce della Grecia antica.
Tempio
di
Vulcano
Abbandonata
la
lussureggiante
Kolymbetra,
seguendo
il
sentiero
in
direzione
ovest
raggiungiamo
la
collina
che
chiude
la
dorsale
della
Valle
dei
Templi
nell'estremo
angolo
sudoccidentale.
Qui, su
un
pianoro
digradante
che
sovrasta
la valle
del
fiume
Hypsas
(odierno
Sant'Anna),
troviamo
i resti
del
tempio
tradizionalmente
dedicato
al dio
Vulcano,
pur in
mancanza
di
riscontri
archeologici.
Vulcano,
figlio
di
Giove,
era
nato,
una
volta
tanto,
non a
seguito
di una
relazione
extraconiugale
ma dal
regolare
matrimonio
fra il
re degli
dei e
Giunone.
Secondo
una
tradizione
molto
antica,
attestata
già
nei
poemi
omerici,
fu
scaraventato
dal
padre giù
dall'Olimpo
per
avere
preso le
difese
della
madre
durante
un
litigio
della
coppia
divina e
precipitò
sull'isola
di
Lemno.
Il
giovane
dio
sopravvisse
ma
rimase
zoppo.
Un'altra
versione
del mito
afferma
che fu
invece
la madre
a
scagliarlo
sulla
terra,
irritata
perché
nato
zoppo, e
a
salvarlo,
accoglierlo
e
nutrirlo
sarebbero
state
alcune
ninfe.
Secondo
una
tradizione
molto
nota,
Vulcano
sposò
Venere,
dea
della
bellezza
e
dell'amore,
venendo
ben
presto
tradito
dalla
dea
infatuatasi
del più
prestante
Marte,
dio
della
guerra.
Vulcano
allora,
colti in
flagrante
i due
amanti,
li
incatenò
al letto
su cui
giacevano,
con
grande
sollazzo
delle
altre
divinità.
Divinità
legata
al fuoco
e alla
metallurgia,
ma anche
ai
fenomeni
vulcanici,
per cui
la
Sicilia
era nota
anche
nell'antichità,
proprio
sull'isola
il culto
di
Vulcano
era
molto
diffuso,
in modo
particolare
nei
pressi
dell'Etna,
dove
secondo
una
tradizione
aveva
sede il
suo
"laboratorio".
Il
tempio
di
ordine
dorico
(20,66 x
42,82 m)
venne
costruito
nella
seconda
metà
del V
secolo
a.C.
(430
a.C.)
sopra un
basamento
a
quattro
gradini.
Del
tempio,
realizzato
con
blocchi
di
calcare
locale,
oggi non
rimane
più
nulla ad
eccezione
di due
colonne
scanalate
senza
capitello,
che ci
permettono
comunque
di
ricostruirne
a grandi
linee la
struttura
originaria.
Doveva
trattarsi
di un
tempio
periptero
esastilo,
quindi
con sei
colonne
sui lati
brevi e
tredici
su
quelli
lunghi.
E,
probabilmente,
il più
recente
fra i
santuari
eretti
lungo il
margine
meridionale
della
Collina
dei
Templi.
La sua
origine
piuttosto
tarda è
testimoniata
dalla
mescolanza
di
elementi
dorici e
ionici
che lo
contraddistinguono:
le
colonne
superstiti
sono
indubbiamente
di
impianto
dorico,
mentre
l'appiattimento
delle
scanalature
rimanda
allo
stile
ionico,
così
come il
caratteristico
motivo
ad ovoli
e
dentelli
che
concludeva
la
cornice
nella
parte
superiore,
subito
al di
sotto
del
frontone,
e di cui
sono
state
rinvenute
tracce
nel
corso
degli
scavi
archeologi.
Racchiusa
dal
colonnato
vi era
la
cella,
suddivisa
in
pronao,
naos,
opistodomo.
Il
tempio
nella
sua mole
aveva
inglobato
i resti
di un
tempietto
più
antico
(6,50 x
13,25
m),
prostilo
(cioè
con una
fila di
colonne
collocata
davanti
all'accesso
al
pronao)
risalente
alla metà
del VI
secolo
a.C: di
questo
precedente
sacello
arcaico
sono
stati
rinvenuti
alcuni
elementi
in
terracotta
policroma
che ne
decoravano
il tetto
e sono
oggi
conservati
presso
il Museo
Archeologico.
Tempio
di
Asclepio
Uscendo
dalla
Porta IV
(l'antica
Porta
Aurea) e
attraversala
la
Strada
Statale
115, un
sentiero
conduce
ai resti
del
Tempio
H, noto
come
Tempio
di
Asclepio,
il dio
della
medicina,
figlio
di
Apollo.
L'edificio
si trova
fuori
dalle
mura in
prossimità
di
un'ansa
del
fiume
Akragas
(odierno
fiume
San
Biagio),
in
un'area
che i
ritrovamenti
archeologici
segnalano
già
frequentata
in epoca
arcaica.
Quello
che
possiamo
oggi
vedere
del
tempio,
datato
alla
fine del
V secolo
a.C. e
dell'area
del
santuario,
monumentalizzata
nel
secolo
successivo,
consente
di farci
una idea
del
centro
religioso
individuato
nel 1926
quando,
per
iniziativa
di Pirro
Marconi
e grazie
al
contributo
finanziario
del
capitano
inglese
Alexander
Hardcastle,
venne
demolita
una casa
colonica
che
inglobava
gli
alzati
residui
dell'edificio
templare.
Del
complesso
monumentale,
recintato
da un
muro,
possiamo
vedere
le
fondazioni
di due
portici
colonnati
che,
secondo
gli
studiosi,
ospitavano
ambienti
adibiti
ad
accogliere
e curare
i
pellegrini
che si
recavano
al
santuario
del dio
taumaturgo
per
chiedere
la
guarigione.
Essa
poteva
essere
ottenuta
attraverso
bagni
rituali
oppure
seguendo
le
indicazioni
che
Asclepio
impartiva
apparendo
in sogno
ai
devoti
in un
particolare
ambiente
sacro e
inaccessibile
(abaton)
che gli
archeologi
ritengono
possa
essere
identificato
in un
ambiente
individuato
nel
portico.
Nell'ampia
area
aperta
al
centro
del
complesso
sono
stati
rinvenni
i resti
di un
altare
recintato
e di un
tempietto
dotato
di
pronao e
cella,
al mi
interno
sono
stati
individuati
alcuni
ex voto
in
terracotta
che
solita
menu
riproducevano
la parte
anatomica
malata
per la
guarigione
della
quale
era
richiesto
l'intervento
del dio.
Sono
stati
inoltre
rinvenuti
i resti
ili una
grande
cisterna
che
poteva
contenere
fino a
50.000
litri
d'acqua
e il
bacino
di una
fontana.
Tra
questi
edifici
e
strutture
si
staglia
il
tempio
di
Asclepio:
si
tratta
di un
tempio
distilo
in antis
a cui si
accedeva
grazie
ad una
rampa
che,
superando
il
dislivello
della
base a
tre
gradini
(crepidoma),
consentiva
di
entrare
nel
pronao.
Attraversato
il
pronao,
prima di
varcare
la porta
della
cella,
vi era
l'accesso
a due
scale
laterali
che
consentivano
di
salire
sul
tetto
dell'edificio.
Proseguendo
si
entrava
nel naos
del dio,
ambiente
rettangolare
di cui
rimane
oggi
visibile
solo una
porzione
del muro
posteriore
che
all'esterno
presenta
due
semicolonne
scanalate
aderenti
alla
muratura
terminante
con
pilastri
angolari.
Le
semicolonne
dovevano
simulare
la
presenza
dell'opistodomo,
in realtà
mancante
(per
questo
l'edificio
viene
anche
indicato
con
pseudopistodomo).
Tra il
2000 e
il 2006
il Parco
Valle
dei
Templi,
in
collaborazione
con la
Soprintendenza,
ha
sottoposto
l'edificio
a
interventi
tesi al
consolidamento
statico
della
struttura
e alla
ripulitura
delle
superfici
lapidee.
Pag.
4
Pag.
6
Agosto
2018
|