Agrigento e la Valle dei Templi
  
  

Tempio di Giunone

Dal parcheggio saliamo alla Collina dei Templi raggiungendo la dorsale dove, all'estremo angolo sudorientale, sullo sperone roccioso più elevato dell'intera Collina rafforzato da poderosi bastioni difensivi e poco distante dai resti della Porta III, si erge il tempio tradizionalmente attribuito al culto di Giunone; sorella e assieme moglie di Giove, il re degli dei, considerata la garante dei matrimoni, la protettrice della famiglia e delle partorienti, mentre il mito la ricorda in modo particolare per la comprensibile gelosia che la divorava a causa dei continui tradimenti del marito. In realtà nulla prova che il tempio in questione fosse a lei dedicato e l'origine di questa tradizione si deve verosimilmente ad un passo dello scrittore romano Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia dove, in realtà, egli si riferiva al tempio di Giunone che sorgeva sul promontorio Lacinio (da cui il nome di Giunone Lacinia) a Crotone, in Magna Grecia. 

Si dice che il Tempio di Giunone servisse per i matrimoni e che avesse anche un tetto interamente in marmo che, secondo lo storico Tito Livio, fu tolto su ordine di un console romano, Quinto Fulvio Flacco, intorno al II secolo a.C., per utilizzarne la pietra per un altro tempio da lui commissionato. Una storia che sembra incredibile se non fosse peggiore il seguito: criticatissimo per aver deturpato un'architettura così imiportante, Flacco deciderà di tornare sui suoi passi e ordinerà che le "tegole", per così dire, vengano rimesse al loro posto: ma non avendo, i romani, le competenze dei greci, le maestranze non saranno in grado di ricrearne l'armonia e abbandoneranno le pietre in marmo ai piedi del Tempio.

Come gli altri templi, anche quello di Giunone si trova lungo la cinta muraria della città, una caratteristica propria di Akragas dove i santuari e gli edifici sacri sorgevano lungo le mura. Una scelta che garantiva alla città una doppia linea di difesa: la prima era la cinta muraria, ovvero la linea di difesa militare che la proteggeva dagli attacchi, e sfruttava naturalmente la conformazione del terreno. La seconda era quella sacra, e cioè questa serie di templi distibuiti su tutta ala colllina meridionale, che costituiva una sorta di protezione rituale.

Costruito con blocchi di calcare locale intorno alla metà del V secolo a.C. (fra il 460 e il 440 a.C), il tempio di ordine dorico (20,26 x 41,10 m) si staglia su un alto basamento a quattro gradini, mentre il colonnato che circonda la cella presenta sei colonne sui lati brevi e tredici su quelli lunghi. Queste hanno un fusto scanalato e rastremato verso l'alto composto da quattro rocchi. Delle trentasei colonne originarie sono ancora in piedi, complete di capitello, le tredici che formavano il lato settentrionale e che ancora sorreggono l'architrave liscio, parte residua dell'originaria trabeazione. 

Il tempio, gravemente danneggiato da un incendio in occasione della conquista cartaginese dell'anno 406 a.C, come attestato da alcune tracce rilevate sui muri della cella, venne poi restaurato in epoca romana. Un terremoto avvenuto fra il XVI e il XVII secolo ne fece parzialmente crollare le strutture, che furono restaurate nella seconda metà del XVIII secolo.

La cella, che ancora oggi possiamo osservare, è articolata in pronao, naos e opistodomo. L'ingresso al naos era fiancheggiato da due piloni al cui interno erano state ricavate due scale che consentivano l'accesso al sottotetto, come in altri analoghi edifici templari. Nel naos, caratterizzato dal pavimento più elevato, sono stati rinvenuti i resti della piattaforma che doveva fare da basamento alla grande statua della divinità a cui il tempio era dedicato.

A 15 metri di distanza dall'ingresso del tempio è stato individuato un grande altare a cui si accedeva salendo dieci gradini.

Tempio della Concordia

Dal Tempio di Giunone, percorrendo la Via dei Templi in direzione ovest, raggiungiamo le rovine del cosiddetto Tempio della Concordia. In realtà si tratta di una falsa identificazione, formulata sulla base di un'iscrizione in marmo di prima età romana imperiale (metà del I secolo d.C.), con dedica in latino CONCORDTAE AGRIGENTINORUM SACRUM [...]. L'iscrizione, oggi conservata presso il Museo Archeologico Regionale "Pietro Griffo", venne osservata ad Agrigento dallo storico e teologo domenicano Tommaso Fazello (1498-1570) e da questi messa in relazione con un "tempio poco distante da quello di Eracle" nella sua opera De Rebus Siculis decades duae.

Da allora il tempio venne indicato come dedicato alla Concordia, nonostante da tempo gli studiosi ritengano che l'iscrizione non abbia con esso alcuna relazione, ma vada riferita piuttosto ad un manufatto poi andato perduto, forse una statua o un altare. Ad oggi rimane ancora sconosciuta l'identità della divinità a cui l'edificio, innalzato nella seconda metà del V secolo a.C, venne in origine dedicato. Sull'argomento sono molteplici le ipotesi formulate dagli studiosi, nessuna delle quali ha la certezza di un riscontro; tuttavia presentano un elemento in comune, quello cioè di individuare gli originari destinatari del culto in due divinità. Con argomentazioni diverse sono stati proposti ora i Dioscuri, i gemelli Castore e Politice, figli di Leda e di Zeus (Dioscuri significa per l'appunto, in greco, "figli di Zeus" il Giove dei Romani), ora Ercole e Mercurio, ora Ercole e Trittolemo. 

Costruito fra il 440 e il 430 a.C. in calcare locale, l'edificio sacro di ordine dorico (19,75 x 42,23 m) fu realizzato con lo stesso materiale sul quale poggia: un antichissimo fondale marino risalente a circa due milioni di anni fa, come si deduce dalle conchiglie che anora vi sono incastonate.

Si tratta di un tempio con sei colonne sui lati brevi e tredici sui lati lunghi. Ciascuna colonna ha il fusto rastremato verso l'alto, caratterizzato da venti scanalature e costituito da quattro rocchi, di cui quello inferiore poggia direttamente sullo stilobate. Ogni colonna, comprensiva di capitello, raggiunge un'altezza di quasi sette metri.

Per costruirlo, i greci, in assenza ovviamente di cemento o altri materiali conosciuti oggi, hanno prima preparato i blocchi di pietra e poi li hanno "montati" uno sopra l'altro fissandoli fra loro con perni interni. Ma il motivo per cui questo tempio, a differenza degli altri della Valle che sono andati in rovina o sono stati saccheggiati nel corso dei secoli, è rimasto integro non risiede solo nella sagacia e abilità dei suoi costruttori. Dipende anche da quanto succede alla fine del VI secolo d.C. quando, dopo l'affermarsi del cristianesimo, per volere del vescovo agrigentino Gregorio, si decide di trasformarlo in una Chiesa. Una scelta che in qualche modo pemetterà di conservarlo intatto fino a oggi. Perchè diventando un edificio sacro alla religione, sarà risparmiato. Anche se, temporaneamente, modificato.

Il vescovo ordina infatti che vengano innalzati muri fra una colonna e l'altra, e tra esse costruite delle arcate: interventi tesi a dare alla struttura originaria la forma di una chiesa con più navate. E' interessante risalire alle numerose cronache di quel tempo perchè ci raccontano un'epoca intera, come quando leggiamo di un rito celebrato dal vescovo per consacrare il tempio ai santi apostoli Pietro e Paolo, e scacciare i demoni che, a suo modi di vedere, ancora si trovano all'interno.

Unico fra i templi agrigentini, conserva per intero la trabeazione, formata da architrave liscio e fregio ben riconoscibile dal caratteristico alternarsi di metope (in numero di 68) e triglifi (in numero di 72), elemento tipico dell'ordine dorico. In più si noti come le metope e i triglifi, posti alle estremità dei quattro fregi, risultino più larghi (1,67 m) degli altri e questo per risolvere il cosiddetto "conflitto angolare" (una problematica tipica dell'architettura dorica legata alla necessità di rafforzare strutturalmente e visivamente i punti di contatto tra i diversi segmenti della trabeazione). Sui lati brevi, sopra il fregio, osserviamo la cornice orizzontale sporgente (chiamata in grecogeisorì), che insieme alle due cornici oblique inquadra il timpano costituendo così il frontone. 

La totale assenza di ogni traccia di zanche di sostegno sia all'interno delle metope del fregio, sia all'interno dei due timpani dei frontoni, ha portato ad ipotizzare che fossero tutti privi di decorazione scultorea. Possiamo notare come le colonne non siano perfettamente verticali, ma si pieghino in realtà di pochi millimetri verso l'interno del monumento; inoltre possiamo individuare, a un terzo dell'altezza di ogni fusto, un leggero rigonfiamento (o entasis). Infine possiamo notare come ogni intercolumnio (lo spazio tra le singole colonne), vada progressivamente restringendosi andando dal centro verso gli angoli della peristasi, allo scopo di creare un particolare effetto ottico che compensa la visione distorta del monumento quando lo si osserva da lontano. Entrando nel tempio, una volta attraversato il deambulatorio, si raggiunge la cella collocata su una base cui si accede salendo un gradino. Questa è scandita in pronao, naos ed opistodomo, il primo e l'ultimo distili in antis (cioè ciascuno con due colonne collocate tra le antae). Nel pronao, ai due lati del varco d'accesso al naos, si elevavano due piloni al cui interno erano ricavate due scale che consentivano di raggiungere il tetto dell'edificio sacro per effettuare opere di manutenzione. 

Nulla rimane del tetto che, come di consueto, doveva presentarsi a doppio spiovente, sorretto da capriate lignee e ricoperto da tegole in terracotta. Quanto al naos e all'opisiodomo, questi due ambienti, che in antico non erano mai fra loro comunicanti, vennero invece unificati in un ambiente unico, per consentire l'accesso da ovest, quando Gregorio, vescovo di Agrigento, alla fine del Vl secolo trasformò il tempio in una chiesa. Oltre a riorientare l'entrata all'edificio, si procedette con la chiusura muraria degli intercolumni del colonnato esterno, mentre nelle murature dei lati lunghi del naos si procedette all'apertura di sei arcate a tutto sesto. In questo modo l'intero edificio assunse compiutamente un aspetto chiesastico, caratterizzato dalla suddivisione dello spazio interno in tre navate. 

Tale nuovo utilizzo è attestalo fino al 1748, quando la chiesa venne sconsacrata. Successivamente noi 1788, grazie all'intervento del principe di Torremuzza autorizzato dai Borboni, lo spazio tra le colonne della peristasi fu liberato e l'edificio riprese all'esterno il suo sviluppo originario mentre all'interno dell'antico naos non vennero toccate le arcate laterali, che ancora oggi costituiscono una traccia evidente della trasformazione in chiesa dell'antico tempio. A questo riguardo non va dimenticato che dobbiamo l'eccezionale stato di conservazione del tempio del V secolo a.C. proprio a questa sua rifunzionalizzazione. Sarà forse per questo che nel maggio del 2005 la Congregazione per il Culto Divino della Chiesa Cattolica ha proclamalo San Gregorio II Agrigentino (il vescovo Gregorio sali agli onori degli altari nel XV secolo) patrono di quanti operano nel campo della conservazione dei beni archeologici ed architettonici.

Tempio di Ercole

Dopo il Tempio della Concordia, proseguendo oltre Villa Aurea e la necropoli paleocristiana, poco prima di raggiungere la Porta Aurea raggiungiamo le rovine del tempio tradizionalmente indicato conio quello di Èrcole.

L'identificazione dell'edificio si basa su un passo di Cicerone il quale ne ricorda l'esistenza nei pressi dell'agorà, la piazza principale della città, che si trovava subito a nord. Figlio di una delle innumerevoli relazioni di Giove con donne mortali (in questo caso la bellissima Alcmena moglie di Anfitrione re di Tebe), per volere della gelosa e vendicativa sposa del re degli dei, Giunone, Ercole fu condannato a spendere l'intera sua vita superando prove impossibili e combattendo contro mostri della più diversa natura: avventure che il mito ha riassunto nelle cosiddetto "fatiche di Ercole". Morto per opera della moglie Deianira, stanca dei suoi continui tradimenti oppure, secondo la tragedia Trachinie dedicatale da Sofocle, a causa di un filtro magico (il sangue di un centauro) con cui la moglie credeva erroneamente di riconquistare l'amore del marito, Ercole fu assunto fra gli dei dell'Olimpo dove, secondo alcune tradizioni, avrebbe sposato Ebe, la dea dell'eterna giovinezza. 

La maggioranza degli studiosi sostiene che il tempio dedicatogli dagli Agrigentini fu eretto intorno alla fine del VI secolo a.C. e ciò ne fa il più antico della città. Non mancano tuttavia alcune voci contrarie, che propendono per una datazione più bassa, intorno al 490-480 a.C. e lo collegano quindi all'attività edilizia promossa dal tiranno Terone. Non si conosce il momento del crollo del monumento ma è stato ipotizzato, sulla base della disposizione dei resti sul terreno e del loro stato di conservazione, che il tempio possa essere stato distrutto da un terremoto. 

Eretto su una piattaforma a tre gradini, il tempio di ordine dorico (28 x 74 m) è di tipo periptero esastilo, realizzato in calcare locale. Il colonnato che circonda la cella è costituito da sei colonne sui lati brevi e quindici su quelli lunghi. Le colonne (alte circa 10 metri) si presentano con il fusto rastremato verso l'alto composto da quattro rocchi scanalati; in cima al fusto, dopo una profonda gola, vi è il capitello di forma schiacciata sia nell'echino che nell'abaco. Queste particolari caratteristiche delle colonne possono ancor oggi essere osservate soprattutto lungo la peristasi meridionale, dove sono otto le colonne di cui quattro complete di capitello: queste sono state ricollocate nella loro posizione originaria negli anni Venti del secolo scorso grazie al munifico intervento del capitano inglese Alexander Hardcastle.

La cella si presenta di forma allungata con pronao, naos ed opistodomo, il primo e l'ultimo con due colonne collocate tra le antae. All'interno del naos era collocata su un basamento una venerata statua di Ercole in bronzo, opera di Mirone, che il propretore Verre avrebbe tentato di rubare, scatenando la pronta reazione degli Agrigentini. 

Cicerone riferisce che nel tempio era conservato un dipinto del celebre pittore greco Zeusi che ritraeva il piccolo Ercole nell'atto di strangolare nella culla i serpenti inviati da Giunone per ucciderlo. All'interno del naos è stata, invece, rinvenuta una statua del dio Asclepio di epoca romana imperiale. 

Nulla sopravvive della copertura dell'edificio, mentre sono conservati presso il Museo Archeologico alcuni manufatti di grande interesse che facevano parte degli apparati decorativi esterni all'edificio, come le teste leonine in calcare con le fauci aperte utilizzate come gocciolatoi delle grondaie dell'edificio: alcune risalgono all'epoca della costruzione del tempio (fine VI a.C.), altre al secolo successivo. Ad una trentina di medi dall'entrata al tempio sono stati rinvenuti i resti di un altare per i sacrifici.

Tempio di Giove  

Lasciato il tempio di Ercole e osservati i resti della Porta Aurea, che collegava la città con il territorio a sud in direzione della costa e del porto, assecondando l'andamento della collina giungiamo al tempio dedicato al te degli dei che i Greci chiamavano Zeus e i Romani Giove. Già da lontano la visione delle sue rovine colpisce per la loro imponenza, nonostante il tempio, crollato a causa di terremoti, sia stato utilizzato nel XVIII secolo come cava in occasione della costruzione del molo della vicina Porto Empedocle. Siamo pur sempre di fronte al tempio dorico più grande della città e dell'Occidente (più grande anche del Partenone di Atene). E non poteva essere diversamente, visto il dio a cui era dedicato. Questi, secondo il mito, era figlio di Saturno, che nel timore di essere detronizzato dai propri figli, come aveva preannunciato un oracolo, li inghiottiva appena nati. Solo Giove sfuggi a questo orribile destino, messo in salvo dalla madre Rea. Una volta cresciuto, il giovane dio affrontò il padre, lo vinse e lo cacciò dall'Olimpo, assumendo il dominio del mondo assieme ai fratelli Nettuno (dio del mare) e Plutone (dio dell'aldilà e degli inferi).

Il tempio in onore di Giove Olimpio (cioè "signore dell'Olimpo"), noto anche come Olympieion, fu eretto ad Agrigento dopo la grande vittoria riportata, nel 480 a.C., dal tiranno Terone contro i Cartaginesi nella battaglia di Himera. Si trattava quindi di un ex voto, ma al tempo stesso di uno strumento di propaganda, almeno nei progetti di Terone, che volle offrire un simbolo tangibile della potenza di Agrigento avviando il progetto di quello che era destinato a diventare uno dei più grandi templi del mondo greco antico. Studi recenti hanno tuttavia messo in discussione la datazione tradizionale, anticipando l'a­pertura dell'immenso cantiere di alcuni anni e fissando l'inizio dei lavori ai primissimi anni della tirannide di Terone (488-472 a.C). 

La struttura del grande tempio dorico (56,30 x 113,45 m), realizzato con blocchi di calcare locale, esce dagli schemi tradizionali offrendo soluzioni architettoniche decisamente originali. Il suo basamento gradinato ha misure colossali ed è formato da cinque gradini di cui l'ultimo alto il doppio rispetto agli altri. Anche a livello planimetrico il tempio stupisce, essendo un raro esempio di edificio eptastilo pseudoperiptero. Questo vuol dire che la cella era nascosta alla vista in quanto circondata da una muratura (e non da un colonnato), alla quale aderivano semicolonne doriche scanalate: quattordici nei lati lunghi e sette nei lati brevi; ad ogni semicolonna corrispondeva all'interno un pilastro a pianta rettangolare. Le semicolonne, particolarmente alte (si ipotizza tra i 18 e i 20 metri), erano impostate su un breve zoccolo che circondava tutta la muratura e realizzate con piccoli blocchi di pietra tagliati a cuneo. Sulla sommità di ogni fusto era collocato un semicapitello costituito da un echino, realizzato in due blocchi di pietra e decorato con un quadruplice collarino e quindi da un abaco, formato da tre grossi lastroni. Oltre l'abaco era collocata la trabeazione suddivisa in architrave liscio e fregio che, come di norma nello stile dorico, presentava la caratteristica alternanza tra triglifi e metope. Alcuni di questi sono ancor oggi visibili tra le rovine dell'edificio, mentre frammenti delle gronde del tempio con teste leonine, in funzione di gocciolatoi, sono visibili presso il Musco Archeologico. 

Quanto ai due frontoni, che campeggiavano sui lati brevi del tempio a est e ovest, sappiamo da Diodoro Siculo che il loro timpano era decorato con raffigurazioni scultoree dedicate alla lotta fra gli dei olimpici e i giganti (la cosiddetta Gigantomachia) e alla guerra di Troia. Altro elemento da secoli in discussione tra gli studiosi è quello relativo all'esatta collocazione dei giganteschi telamoni rappresentati in piedi con le braccia piegate a lato della testa come a sostenere un pesante fardello. Questi dovevano trovarsi con i piedi appoggiati sopra mensole collocate a circa undici metri di altezza e il corpo ancorato alla muratura posta tra gli intercolumni sul lato esterno del tempio.

Questi straordinari Giganti, come vengono spesso ricordati nei diari e nei disegni dei viaggiatori del Grand Tour europeo, raggiungevano una considerevole altezza (7,65 m) ed erano realizzati in blocchi di pietra sagomati che rendevano bene la loro struttura anatomica. A prova di ciò si osservi la riproduzione a grandezza naturale che si trova, distesa, all'interno delle rovine del grande tempio, mentre presso il Museo Archeologico si trova l'unico esemplare originale, ricostruito nel XIX secolo. Gli ultimi Giganti avrebbero resistito nella loro originaria collocazione fino all'inizio del XV secolo. Va, infine, ricordato che non tutti gli studiosi concordano sulla presenza dei telamoni lungo l'intero perimetro del tempio secondo alcuni la loro presenza doveva essere limitata solo alla facciata.  

Nella storia dell'arte vengono chiamati telamoni o atlanti le sculture maschili a tutto tondo impiegate come sostegno, a scopo decorativo, al posto delle semplici colonne. Si tratta, insomma, del corrispettivo maschile delle note cariatidi. Telamone, nella mitologia greca, era uno degli Argonauti, un eroe che aiutò Eracle a sconfiggere le Amazzoni, Atlante era invece il titano che sosteneva il globo del mondo sulle sue spalle: entrambi figure di bruta forza maschile, impiegate per battezzare questo elemento architettonico diffusissimo dall'antichità fino al XIX secolo.

La posizione del telamone di Agrigento, con le braccia incrociate dietro la testa, ricalca la figura mitologica di Atlante e sembra suggerire il suo ruolo di sostegno. Eppure, per quanto siano noti altri esemplari di telamoni nell'antichità (alcuni sono presenti nel Foro di Traiano, altri sono stati ritrovati tra i resti della città latina di Fregellae), non possiamo essere sicuri della loro funzione e del loro significato all'interno del Tempio di Zeus. L'identità degli antichi giganti rimane per noi ancora, in buona parte, sconosciuta.

All'interno del tempio, dopo il deambulatorio (lo spazio libero tra la muratura del tempio e quella che racchiudeva la cella) e il pronao, si accedeva al naos, forse a cielo aperto, di forma rettangolare allungata, i cui lunghi muri perimetrali erano intervallati da pilastri quadrangolari tra loro distanziati di quattro metri. Davanti al muro di fondo doveva trovare posto la statua del dio, mentre dall'altro lato vi era poi l'opistodomo. 

All'esterno del tempio, ad alcuni metri di distanza dall'ingresso, sono stati individuati i resti di un gigantesco altare di forma rettangolare, destinato ai sacrifici. Sempre nell'area esterna al tempio, in prossimità dello spigolo sudorientale, gli scavi hanno individuato la presenza di un piccolo tempio datato al IV secolo a.C. e di un portico con fontana. Ad ovest, invece, sono state individuate le fondamenta di abitazioni, forse riservate ai sacerdoti, oltre a strutture identificate come thesauroi (sacelli utilizzati per la conservazione e l'esposizione delle offerte fatte al dio) e leschai (edifici pubblici aperti dove poveri e pellegrini potevano trovare ricovero per la notte o dove ci si riuniva per riposare o chiacchierare).

Area santuariale  

Dietro il Tempio di Giove, oltre la porzione dell'abitato, proseguendo verso ovest è possibile osservare un'area sacra collocata in prossimità dei resti della Porta V. Si tratta di un complesso che è andato stratificandosi nei secoli, dall'epoca arcaica alla ellenistica. Sono stati qui riconosciuti due templi, di cui uno a pianta circolare, e un portico ad L dalle molteplici funzioni. L'ampia area è delimitata dal profilo roccioso, su cui sono ancora visibili parte delle fortificazioni; dai resti della Porta V attraverso la quale, provenendo dalla costa, si accedeva alla città antica; infine sugli altri lati l'area era delimitata da un portico a L.

Portico a L - Il portico, realizzato con blocchi di calcare locale, venne edificato nella seconda metà del III secolo a.C. (epoca ellenistica), utilizzando parte di una muratura che già agli inizi del V a.C. delimitava il complesso. Esso era caratterizzato da due ali: quella più lunga presenta un andamento da sud a nord e qui si salda a novanta gradi con l'ala più breve con andamento est-ovest. Proprio quest'ultimo tratto venne nel II secolo a.C. allungato sui i resti murari di un precedente edifico arcaico a pianta rettangolare, interpretato come sala riunioni.

Il ritrovamento, all'interno dell'ala più lunga del portico, di diversi ambienti, cisterne e di una vasca con fontana ha portato ad ipotizzare che questa porzione fosse utilizzata come area di sosta per i pellegrini che po­tevano qui consumare cibi e bevande (hestiatorion) o trovare un alloggio per la notte (katagogion).

Tempio ad oikos - La più antica tra le costruzioni di quest'area è un piccolo tempio ad oikos tripartito (6 x 8 m), caratterizzato da pronao, naos e adyton. Esso è datato all'epoca arcaica (intorno alla metà del VI secolo a.C). Nella prima metà del V secolo a.C. all'edificio venne aggregato un ambiente quadrangolare che ospitava all'interno un altare. Invece nella seconda metà dello stesso secolo davanti alla facciata del tempio venne innalzata una struttura d'ingresso (propileo dal greco propylon) caratterizzata dalla presenza di colonne e pilastri. 

Questo monumentale accesso si apriva su una area aperta delimitata verso est da un boschetto sacro. Questa, documentata dalle indagini archeologiche, ebbe nel tempo tre diverse pavimentazioni di cui la prima e più antica era costituita da un semplice strato battuto di pietra arenaria. Successivamente, nella seconda metà del V secolo a.C, in occasione della costruzione del propylon sul fronte del tempio, la piazza venne rialzata e quindi dotata di pavimen­tazione a lastre di pietra. Infine, nella seconda metà del III secolo a.C. (età ellenistica), la piazza venne nuovamente rialzata di quota e quindi ripavimentata con lastre ma in uno scenario ormai mutato. 

Il tempio ad oikos giaceva infatti in rovina in quanto non era stato più ricostruito dopo il 406 a.C, anno della conquista cartaginese di Agrigento. Dopo tale data sulle macerie del propileo furono innalzati due altari monumen­tali a dado così detti perché ne ricordano la forma, ciascuno collocato all'interno di un recinto in muratura. Non abbiamo notizie certe circa la dedicazione di questo tempio. Gli studiosi ipotizzano che qui fosse vivo, già dalla fase più antica, il culto di Demetra e Persefone, divinità ctonie molto celebrate nell'antica Akràgas. L'ipotesi verrebbe suffragata da un lato dal rinvenimento, nei pressi del tempio ad oikos, di intagli nella roccia interpretati come il tentativo di edificare qui un secondo edificio sacro; dall'altro dalla presenza dei due altari con recinto realizzati in epoca ellenistica quando l'area era ormai in rovina. Questi avrebbero avuto la funzione di perpetuare la sacralità del luogo e il culto delle due divinità. In effetti che l'area fosse ritenuta sacra, quando ormai in parte obliterata, è testimoniato anche dal rinvenimento di alcune piccole edicole sacre che in epoca ellenistica (tra la metà del III e gli inizi del II a.C.) furono costruite a ridosso del lato esterno del muro settentrionale del portico, quello prospiciente l'abitato.

Tempio a tholos - Alla tarda età ellenistica (II secolo a.C.) viene fissata la costruzione del tempio a pianta circolare (detto a tholos) con altare al centro che andò ad obliterare la porzione meridionale dell'ala più lunga del portico a L. Per quanto l'edificio non sia conservato in alzato, i blocchi di pietra della sua fondazione consentono di comprenderne lo sviluppo planimetrico e l'ampiezza.

Tempio dei Dioscuri

Dopo avere osservato le rovine della Porta V, procedendo verso occidente si raggiunge l'area del Tempio dei Dioscuri. Il mito legato all'origine dei Dioscuri è indubbiamente uno dei più curiosi tramandatici dalla tradizione antica. Secondo la versione più diffusa, tutto ebbe origine dall'ennesima scappatella da parte di Giove, il re degli dei, il quale, invaghitosi di Leda, moglie di Tindaro re di Sparta, per possederla assunse l'aspetto di un candido cigno. Nel corso della medesima notte con lei si unì anche il marito, e l'esito finale fu che Leda partorì... due uova di cigno!

Quando si schiusero, da uno nacque il frutto dell'unione con il dio, una coppia di semidei formata da una femmina, Elena, la bellissima e fatale causa della guerra di Troia, e da un maschio, che siamo abituati a chiamare Politice secondo la forma latina del nome, Pollux (in greco suonava invece in modo un po' diverso: Polydeykes). Dal secondo uovo nacquero invece due "semplici" esseri umani, anche in questo caso una femmina, Clitennestra, e un maschio, Castore. Una volta cresciuti, maschi e femmine presero due strade molto diverse. Le due ragazze erano destinate a guadagnare un posto di rilievo nella mitologia come emblemi dell'infedeltà coniugale: Elena tradì il marito Menelao, re di Sparta, per fuggire a Troia con il principe Paride; Clitennestra, andata in sposa ad Agamennone, fratello di Menelao e re di Micene, lo tradì con Egisto e assieme all'amante uccise il marito quando era appena tornato a casa dalla guerra di Troia.

Di segno decisamente opposto le vite dei due maschi, tanto uniti fra loro che la tradizione li ricorda insieme con l'unico nome di Dioscuri. I due si volevano così bene che quando Castore fu in punto di morte, il fratello immortale ottenne da Giove la grazia straordinaria di poter condividere con lui la propria immortalità e così, alternativamente, passavano ciascuno un giorno sulla terra e un giorno nel regno sotterraneo dei morti. Va anche ricordato che i Dioscuri nell'iconografia antica sono spesso raffigurati a cavallo, e per questa ragione i Romani li veneravano in particolare come protettori dei cavalieri, una delle tre classi in cui erano divisi i cittadini romani, a "metà strada" fra senatori e plebe. 

Dalle ricostruzioni degli archeologi, il tempio doveva essere un periptero dorico davvero imponente, estendendosi per una superficie di 541 metri quadrati (16,43 x 33,99 m) con sei colonne sui frontoni e tredici lungo i lati. E' ancora possibile vedere i resti della decorazione figurativa che impreziosiva il tempio con ricchi motivi vegetali e grondaie a forma di testa leonina. Il leone, utilizzato anche nel Tempio di Ercole e di Demetra, aveva la funzione di spaventare le potenze del male e alllontanarle.

Come tutti i templi greci, il Tempio dei Dioscuri era, in origine, dipinto a colori vivaci e, in particolare, le teste  leonine erano probabilmente turchesi, con il muso giallo e una lingua rossa che seviva da canale di scorrimento per l'acqua che si raccoglieva sulle grondaie. Al leone si alternavano foglie di palma, simbolo di trionfo. Un'autentica meraviglia di cui rimane solo una L, ricostruita nei secoli, eppure così suggestiva da diventare il simbolo di questo luogo.  

L'alzato del tempio, che oggi osserviamo limitatamente alle quattro colonne dell'angolo nord-occidentale, è l'esito di un intervento di anastilosi (ricomposizione) operato nel 1836 a cura della Commissione delle Antichità della Sicilia, con l'intento di restituire alla vista l'articolazione, seppure parziale, dell'edificio.

Le quattro colonne presentano il fusto formato da tre rocchi in pietra e caratterizzato da venti scanalature a spigolo vivo; segue il capitello (con i geometrici echino ed abaco) a sorreggere la trabeazione, formata dall'architrave liscio e quindi dal fregio con la consueta alternanza di metope e triglifi. La ricostruzione della porzione angolare dell'edificio ha permesso sul lato ovest il riposizionamento di parte del geison (cornice orizzontale) sporgente e l'attacco di una sima obliqua, a dare almeno l'idea dello sviluppo del frontone e del timpano al suo interno. Va precisato che l'anastilosi così operata, seppure ancor oggi suggestiva, per gli studiosi non è proprio corretta, essendo stati riutilizzati elementi probabilmente non pertinenti all'edificio.

Quanto all'interno, la cella presentava come di consueto il naos al centro tra pronao e opistodomo.

Tempio L - Poco distante dal lato meridionale del Tempio dei Dioscuri si può osservare lo sviluppo perimetrale del cosiddetto Tempio L. Quello che rimane dell'antico edificio sacro è il solo taglio nella roccia realizzato in occasione della fondazione del tempio, di ordine dorico (41,80 x 20,20 m). Si ipotizza che l'edificio periptero sarebbe stato innalzato, come quello vicino dei Dioscuri, intorno alla metà del V secolo a.C. e, analogamente a questo, sarebbe stato distrutto nel 406 a.C, in occasione dell'assedio cartaginese di Agrigento. A terra si possono osservare numerosi rocchi dei fusti delle colonne che costituivano l'originaria peristasi.

Poco distante dalla sua entrata a est si possono osservare i resti di un altare, forse eretto in epoca ellenistica.  

Santuario delle Divinità ctonie

Dopo avere osservato le rovine del Tempio dei Dioscuri e del cosiddetto Tempio L, si raggiunge il Santuario delle Divinità ctonie: Demetra e Persefone.

Demetra, secondo il mito, generò con il fratello Zues la figlia Persefone. Ben presto della giovane si innamorò Plutone, fratello di Zeus e della stessa Demetra, che rapì la fanciulla e la condusse negli inferi dove regnava. La madre disperata andò alla ricerca della figlia per nove notti e nove giorni rifiutandosi di mangiare e bere finché raggiunse, sotto le sembianze di una anziana, la città di Eleusi su cui regnava il re Celeo. Durante il periodo in cui Demetra rimase ad Eleusi, la terra divenne sterile ed improduttiva e allora Zeus mandò presso il fratello Plutone il figlio Ermes quale suo messaggero perché Persefone fosse restituita alla madre. Ma poiché la fanciulla aveva assaggiato sette chicchi di una melagrana colta nel già colta nel di Plutone, legandosi così indissolubilmente allo sposo, questi non voleva lasciarla andare. In seguito, grazie all'intervento di Rea, si trovò un accordo in base al quale Persefone sarebbe vissuta per nove mesi sull'Olimpo con Demetra e per i restanti tre con Plutone negli Inferi. 

Nel Museo Archeologico Regionale sono conservati interessali manufatti fittili che rappresentano le due divinità. Demetra in alcune statuine risalenti al VI secolo a.C. è rappresentata in piedi con il tipico copricapo a forma di moggio (un contenitore che in antico costituiva un'unità di misura per granaglie); in altre è rappresentata invece seduta in trono. A queste due divinità, protettrici della terra e delle attività agricole, sarebbe dunque dedicato il complesso di edifici sacri che qui, nell'area occidentale della Collina dei Templi, sono andati stratificandosi a partire dall'età arcaica (VI secolo a.C). Siamo in una zona terrazzala che sovrasta dall'alto la Kolymbetra.  

L'area sacra, individuata agli inizi del XX secolo grazie agli scavi condotti da Pirro Marconi, presenta i resti di diverse architetture tra cui spiccano per la loro antichità (metà del VI secolo a.C.) due recinti sacri posti all'estremità nord. Il primo, il cosiddetto Recinto 1, ha pianta rettangolare (15,52 x 10,0 m) ed è diviso in più ambienti collegati tra loro da uno stretto corridoio e si caratterizza per la presenza di un altare circolare. Lo sviluppo di questa struttura, segnalano gli studiosi, trova confronti planimetrici in analoghi edifici di ambito cretese e questo è di particolare significato perché potrebbe attestare un edificio di culto realizzato dai fondatori di Aknigas, come sappiamo di origine rodio-cretese. Il secondo, Recinto 2 (5,40 x 12,95 m), realizzato poco distante dal primo ma spostato verso sud, si presenta come un piccolo tempietto a pianta rettangolare con accesso da Est; esso è suddiviso internamente in due ambienti e completato da due altari, circolare l'uno e rettangolare l'altro. 

Più oltre sono poi visibili le rovine di tre piccoli tempietti, detti anche thesauroi o donari (dove venivano collocate le offerte per le divinità), tutti realizzati con blocchi di calcare locale e datati al VI secolo a.C: i primi due noti come Tempietto 1 (4,95 x 10,65 m) e Tempietto 2 (4,20 x 9,20 m) presentano una struttura tripartita caratterizzata da pronao, naos e quindi adyton, un locale quest'ultimo inaccessibile a coloro che non erano addetti al culto. 

Affiancato al secondo è stato riconosciuto un terzo edificio, il Tempietto 3 (10,45 x 9,30 m). Si ipotizza che inizialmente l'edificio fosse del tipo ad oikos (che in greco significa casa), cioè con un solo ed unico ambiente con funzione di naos e che solo in una successiva fase sarebbe stato completato da un pronao d'ingresso.

In prossimità del lato orientale del terzo tempietto si possono osservare alcune tracce di lavorazione sulla roccia che gli studiosi hanno interpretato connesse con il progetto di costruzione di un tempio periptero di grandi dimensioni, tentativo che venne operato in due fasi successive, nella seconda metà del VI a.C. e poi ancora all'inizio del secolo successivo. 

Spostandosi nell'area terrazzata all'estremo ovest, è invece possibile osservare, all'interno di una recinzione di cui sono visibili alcuni tratti murari, i resti di alcuni basamenti di varia forma (allungata, quadrangolare, semicircolare). Su questi dovevano essere stati collocati, tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C, degli altari per celebrazioni cultuali all'aperto oppure dei donari, cioè manufatti quali, ad esempio, statue dedicate alle divinità. Tra i reperti rinvenuti in questa zona interessante è una testa fittile caratterizzata da un alto copricapo che viene datata alla fine del VII secolo a.C. e ritenuta un'opera d'ambito rodio o cretese portata dai fondatori della città.

La Kolymbetra  

Un fitto agrumeto con almeno otto specie diverse di frutti. Dalle arance ai cedri, dai limoni a una variopinta carrellata di mandarini, pompelmi, bergamotti. E poi piante di chinotto e di lime, i cui colori e profumi si mischiano a quelli della macchia mediterranea che punteggia le scarpate rocciose: piante di mirto e di lentisco mischiate a palme nane, euforbie e gialle ginestre. Sullo sfondo, lungo i pendìi assolati, filari di ulivi centenari e di mandorli. E il sorprendente scenario botanico che si ammira percorrendo i sentieri della Kolymbetra, il vallone verdeggiante che si estende per circa sei ettari, di cui cinque visitabili, all’interno del Parco Archeologico della Valle dei Templi di Agrigento.

A fare da sentinella alla vallata sono le rovine dei templi dei Dioscuri (Castore e Polluce) e di Vulcano, entrambi del V secolo a.C., che dominano dall’alto questo prodigio agricolo e archeologico risalente a 2.500 anni fa. Il senso di frescura, legato allo scorrere dell’acqua, costituisce una sorpresa in questa zona della Sicilia dal clima generalmente arido.  

Fin dall’antichità, questo fertile spicchio di terra ha rappresentato un’esperienza sensoriale unica. Diodoro Siculo, storico greco-siceliota, ne diede per primo una precisa descrizione, nell’80 a.C. In epoca moderna è stato celebrato da diversi viaggiatori europei, giunti ad Agrigento nel 700 durante il Grand Tour. L’abate di Saint-Non decantò il sito come “paesaggio di delizie, vero e proprio Eden, dove si scorgono i resti venerabili dell’antichità”.  

Da qualche anno, dopo un lungo abbandono, questo paradiso terrestre è di nuovo fruibile. Ha infatti ripreso vita nel 2001, grazie a un complesso intervento di recupero naturalistico e strutturale compiuto dal Fai, il Fondo per l’Ambiente Italiano, che nel 1999 l’ha ottenuto in concessione gratuita dalla Regione Siciliana per 25 anni.

Osservata dall’alto, la Kolymbetra appare svilupparsi in una lunga e stretta valle, delimitata da pareti di roccia a strapiombo profonde fino a 15 metri tra il pianoro dei templi e la parte più bassa della gola. Scendendovi a poco a poco, risalta il contrasto tra il verde della vegetazione e il giallo della calcarenite, la pietra di queste zone, usata anche per la costruzione dei templi. Un effetto ancor più forte al tramonto, quando i costoni rocciosi del vallone assumono tonalità fiammeggianti.

Diodoro Siculo racconta di una grande fossa scavata dagli schiavi catturati nella battaglia di Imera del 480 a.C., quando l’antica Akragas era dominata dal tiranno Terone. Il sovrano della polis pretese un’enorme vasca da riempire d’acqua (la parola greca kolymbetra significa, infatti, piscina). Le scarse fonti storiche non sciolgono però i dubbi su quale fosse la modalità d’utilizzo prevalente della Kolymbetra: l’irrigazione, l’allevamento dei pesci d’acqua dolce oppure i riti religiosi, come dimostrerebbe la sua posizione a breve distanza dal santuario delle divinità Ctonie, la zona più sacra della valle. Le vaste dimensioni del bacino fanno pensare anche a una soluzione architettonica con cui il tiranno e la sua città affermavano il dominio dell’uomo sulla natura. La Kolymbetra resterà colma d’acqua soltanto fino al III secolo a.C., quando a seguito della distruzione di Akragas da parte dei Cartaginesi verrà interrata, mantenendo però un alto livello di fertilità e un microclima fortunato. 

A garantire un costante tasso d’umidità, è un torrentello alimentato dalle piogge e soprattutto il sofisticato reticolo di cu­nicoli appositamente scavati nella roccia e tuttora funzionante. Queste gallerie, comunemente dette “ipogei” ma che gli archeologi preferiscono denominare “acquedotti Feaci” (dal nome di Feace, l’architetto che le progettò), terminano con grossi fori sulle pareti rocciose. Se ne contano dodici: un prodigio di ingegneria idraulica che permette di drenare l’acqua dalle falde sotterranee, assicurando un’irrigazione costante. Malgrado la mancanza di fonti storiche, è difficile pensare che il fascino e la fecondità della Kolymbetra siano sfuggiti ai dominatori delle epoche successive. In particolare agli arabi, che probabilmente vi coltivarono la canna da zucchero. Lo sfruttamento agricolo sistematico del luogo comincia però solo nel ‘500 quando, passato sotto il controllo del clero, vi vennero impiantate coltivazioni di ortaggi e alberi da frutto.

Oggi il Giardino della Kolymbetra rappresenta un importante esempio di recupero del paesaggio agrario. Ma è anche un laboratorio sperimentale, dove si coltivano varietà agrumicole ormai scomparse. In tutto sono circa 40. Tra le più succose, le arance vaniglia rosa e alcune tipologie di sanguinelli e di arance a polpa bionda. Il gusto agrodolce della Grecia antica.

Tempio di Vulcano  

Abbandonata la lussureggiante Kolymbetra, seguendo il sentiero in direzione ovest raggiungiamo la collina che chiude la dorsale della Valle dei Templi nell'estremo angolo sudoccidentale. Qui, su un pianoro digradante che sovrasta la valle del fiume Hypsas (odierno Sant'Anna), troviamo i resti del tempio tradizionalmente dedicato al dio Vulcano, pur in mancanza di riscontri archeologici.

Vulcano, figlio di Giove, era nato, una volta tanto, non a seguito di una relazione extraconiugale ma dal regolare matrimonio fra il re degli dei e Giunone. Secondo una tradizione molto antica, attestata già nei poemi omerici, fu scaraventato dal padre giù dall'Olimpo per avere preso le difese della madre durante un litigio della coppia divina e precipitò sull'isola di Lemno. Il giovane dio sopravvisse ma rimase zoppo. Un'altra versione del mito afferma che fu invece la madre a scagliarlo sulla terra, irritata perché nato zoppo, e a salvarlo, accoglierlo e nutrirlo sarebbero state alcune ninfe. Secondo una tradizione molto nota, Vulcano sposò Venere, dea della bellezza e dell'amore, venendo ben presto tradito dalla dea infatuatasi del più prestante Marte, dio della guerra. Vulcano allora, colti in flagrante i due amanti, li incatenò al letto su cui giacevano, con grande sollazzo delle altre divinità. Divinità legata al fuoco e alla metallurgia, ma anche ai fenomeni vulcanici, per cui la Sicilia era nota anche nell'antichità, proprio sull'isola il culto di Vulcano era molto diffuso, in modo particolare nei pressi dell'Etna, dove secondo una tradizione aveva sede il suo "laboratorio".

Il tempio di ordine dorico (20,66 x 42,82 m) venne costruito nella seconda metà del V secolo a.C. (430 a.C.) sopra un basamento a quattro gradini. Del tempio, realizzato con blocchi di calcare locale, oggi non rimane più nulla ad eccezione di due colonne scanalate senza capitello, che ci permettono comunque di ricostruirne a grandi linee la struttura originaria. Doveva trattarsi di un tempio periptero esastilo, quindi con sei colonne sui lati brevi e tredici su quelli lunghi. E, probabilmente, il più recente fra i santuari eretti lungo il margine meridionale della Collina dei Templi. La sua origine piuttosto tarda è testimoniata dalla mescolanza di elementi dorici e ionici che lo contraddistinguono: le colonne superstiti sono indubbiamente di impianto dorico, mentre l'appiattimento delle scanalature rimanda allo stile ionico, così come il caratteristico motivo ad ovoli e dentelli che concludeva la cornice nella parte superiore, subito al di sotto del frontone, e di cui sono state rinvenute tracce nel corso degli scavi archeologi.

Racchiusa dal colonnato vi era la cella, suddivisa in pronao, naos, opistodomo. Il tempio nella sua mole aveva inglobato i resti di un tempietto più antico (6,50 x 13,25 m), prostilo (cioè con una fila di colonne collocata davanti all'accesso al pronao) risalente alla metà del VI secolo a.C: di questo precedente sacello arcaico sono stati rinvenuti alcuni elementi in terracotta policroma che ne decoravano il tetto e sono oggi conservati presso il Museo Archeologico.

Tempio di Asclepio  

Uscendo dalla Porta IV (l'antica Porta Aurea) e attraversala la Strada Statale 115, un sentiero conduce ai resti del Tempio H, noto come Tempio di Asclepio, il dio della medicina, figlio di Apollo.

L'edificio si trova fuori dalle mura in prossimità di un'ansa del fiume Akragas (odierno fiume San Biagio), in un'area che i ritrovamenti archeologici segnalano già frequentata in epoca arcaica.

Quello che possiamo oggi vedere del tempio, datato alla fine del V secolo a.C. e dell'area del santuario, monumentalizzata nel secolo successivo,  consente di farci una idea del centro religioso individuato nel 1926 quando, per iniziativa di Pirro Marconi e grazie al contributo finanziario del capitano inglese Alexander Hardcastle, venne demolita una casa colonica che inglobava gli alzati residui dell'edificio templare. Del complesso monumentale, recintato da un muro, possiamo vedere le fondazioni di due portici colonnati che, secondo gli studiosi, ospitavano ambienti adibiti ad accogliere e curare i pellegrini che si recavano al santuario del dio taumaturgo per chiedere la guarigione. Essa poteva essere ottenuta attraverso bagni rituali oppure seguendo le indicazioni che Asclepio impartiva apparendo in sogno ai devoti in un particolare ambiente sacro e inaccessibile (abaton) che gli archeologi ritengono possa essere identificato in un ambiente individuato nel portico.

Nell'ampia area aperta al centro del complesso sono stati rinvenni i resti di un altare recintato e di un tempietto dotato di pronao e cella, al mi interno sono stati individuati alcuni ex voto in terracotta che solita menu riproducevano la parte anatomica malata per la guarigione della quale era richiesto l'intervento del dio. Sono stati inoltre rinvenuti i resti ili una grande cisterna che poteva contenere fino a 50.000 litri d'acqua e il bacino di una fontana.

Tra questi edifici e strutture si staglia il tempio di Asclepio: si tratta di un tempio distilo in antis a cui si accedeva grazie ad una rampa che, superando il dislivello della base a tre gradini (crepidoma), consentiva di entrare nel pronao. Attraversato il pronao, prima di varcare la porta della cella, vi era l'accesso a due scale laterali che consentivano di salire sul tetto dell'edificio. Proseguendo si entrava nel naos del dio, ambiente rettangolare di cui rimane oggi visibile solo una porzione del muro po­steriore che all'esterno presenta due semicolonne scanalate aderenti alla muratura terminante con pilastri angolari. Le semicolonne dovevano simulare la presenza dell'opistodomo, in realtà mancante (per questo l'edificio viene anche indicato con pseudopistodomo). Tra il 2000 e il 2006 il Parco Valle dei Templi, in collaborazione con la Soprintendenza, ha sottoposto l'edificio a interventi tesi al consoli­damento statico della struttura e alla ripulitura delle superfici lapidee.  

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Agosto 2018