Cattedrale
Santa Maria La Nova
La
prima Chiesa Madre di cui si ha notizia storica è la Chiesa di Santa
Maria, poi detta degli Angeli (dalla presenza di un quadro della Madonna
attorniata da angeli) o la Vetere, per distinguerla dalla nuova
Chiesa Madre, costruita intorno all'anno 1000 come Cappella palatina del Castello
di Pietrarossa e divenuta sede parrocchiale con un decreto di
Federico II nel 1239. Prima di essa la cura delle anime era affidata
all'Abbazia di Santo Spirito (sin dal 1095).
Nel
1400 la parrocchia fu trasferita nella chiesa di Santa Domenica,
all'interno dell'abitato cittadino, e, nel 1518, nella più ampia chiesa
di San Domenico.
Nel
XVI secolo la città si espanse a Nord del Castello e della Chiesa
Madre, che rimasero periferici, e il popolo manifestò la volontà di
avere una Chiesa Madre più grande e più centrale. L'Arciprete
Francesco Diforti nel 1545 costituì una deputazione per la costruenda
nuova Chiesa Madre, che ottenne la cessione della chiesetta
dell'Immacolata e di un ampio appezzamento di terra nel cosiddetto Chianu
di l'olivi, prospiciente la chiesa e il convento del Carmine.
Nel
1570, con la solenne posa della prima pietra, si iniziò la costruzione
del Tempio, che venne portato a termine nel 1622, originariamente era a
tre navate, terminanti in tre cappelloni, quello centrale dedicato
all'Immacolata, quello di sinistra al Santissimo Sacramento e quello di
destra a San Michele Arcangelo. Le navate terminavano prima dell'attuale
transetto.
Dal
1718 al 1720, a spese dell'Arciprete Raffaele Riccobene, fu chiamato il
pittore fiammingo Guglielmo Borremans (1670-1744), che,
insieme al figlio Luigi, affrescò la volta e la navata centrale, e
dipinse la pala dell'altar maggior, raffigurante l'Immacolata
Concezione.
Il
26 luglio 1733 la Chiesa Madre fu consacrata dal vescovo di Agrigento
Lorenzo Gioeni, sotto il titolo di Santa Maria la Nova e San Michele
Arcangelo.
Don
Raffaele Riccobene, per testamento, lasciò anche un'ingente somma per
completare le decorazioni interne e, se fossero rimasti soldi, per il
prospetto esterno. I lavori per il prospetto e l'innalzamento del
campanile sinistro iniziarono nel 1782 e si conclusero con la
costruzione del campanile destro nel 1856. Nel 1848, con 400 onze donate
dalla baronessa Agata Barile Giordano, fu costruita una cancellata in
ferro per chiudere il sacrato, poi ridotta nel 1892 e tolta negli anni
'50, fu ripristinata, sebbene assai più piccola, nel 2010, con il
lavoro gratuito della categoria fabbri, della Real Maestranza.
Nel
frattempo, essendo stata istituita la diocesi di Caltanissetta nel 1844,
la Chiesa Madre fu eretta a Cattedrale, come ricorda la lapide posta sul
portone centrale.
Nel
1922 iniziarono i lavori di ampliamento (costruzione del transetto e del
presbiterio), che, bloccati durante la Seconda Guerra Mondiale,
ripresero subito dopo, a causa del violento bombardamento del 9
luglio 1943, che distrusse parte della volta affrescata. I lavori,
compreso il rifacimento della volta, furono completati nel 1946.
Interessante
il grande portone in legno, su cui compaiono quattro stemmi: sulla
destra lo stemma di Caltanissetta raffigurante il castello
a tre torri, e lo stemma di San Michele, patrono della città.
Sulla parte sinistra del portone, invece, sono presenti altri due
stemmi, uno con una corona e un altro con una spada infilzata, di cui
però non si conoscono le origini.
Presenta
un'ampia facciata spartita da lesene affiancate da due
campanili e domina l'intera piazza Garibaldi. L'interno, a croce
latina, è diviso in tre navate e sostenute da quattordici
arcate, ciascuna dedicata ad un personaggio dell'Antico Testamento, e
prima del bombardamento del 1943, sostenenti le figure dei dodici
apostoli. Nel punto di intersezione fra i due bracci della croce, al di
sopra dell'altare, si trova la cupola.
L'apprezzabile
serie di affreschi che orna la navata centrale è opera del pittore
fiammingo Guglielmo Borremans (1670-1744) che lavorò nel
capoluogo nisseno nel 1720. Le tre scene centrali
costituite dalle scene dell'Immacolata Concezione, dell'Incoronazione
della Vergine e del trionfo di san Michele, si presentano
al visitatore insieme a raffigurazioni di angioletti, nuvolette e
stucchi dorati a tema floreale. Il sontuoso apparato decorativo in
stucco costituito da fregi, volute, medaglioni, conchiglie, finti
pilastri e colonne, secondo lo stile rocaille, fu realizzato da Francesco
Ferrigno. Opera autografa con l'iscrizione "Franciscus Ferrigno,
Architectus Panormitanus" documentata sulla finta edicola
dell'altare maggiore.
Nella
seconda cappella di destra è notevole, invece, la presenza della
splendida Immacolata, una statua lignea del 1760 con preziosi
panneggi in lamina d'argento. Nella cappella situata a fianco di
quella maggiore trovano posto le rappresentazioni dell'arcangelo Michele (patrono
dal Seicento della città), simulacro in legno nato dall'abilità
dell'autore Stefano Li Volsi, e degli arcangeli Gabriele e Raffaele,
sculture marmoree realizzate dall'artista Vincenzo Vitaliano.
Sull'altare maggiore si può ammirare l'Immacolata e Santi, una grande
pala del Borremans. Meritevoli di attenzione, infine, un prezioso
organo intagliato e decorato, una tela raffigurante la Madonna del
Carmelo di Filippo Paladini (1544-1614) e un Crocifisso un
tempo attribuito a fra' Umile da Petralia (1580-1639).
Nella
navata destra, presso la cappella del SS. Sacramento, un tempo cappella
del coro, si ammira una grande vetrata compiuta in due tempi, nel 1958 e
nel 1965, da Amalia Panigati, con le Storie della vita di
sant'Orsola e di san Francesco Saverio.
L'esterno
del duomo è valorizzato dal vasto ed animato piazzale, dedicato a Giuseppe
Garibaldi: di fronte si erge la cinquecentesca chiesa di san Sebastiano,
al centro la scenografica fontana del Tritone, di Gaetano
Averna (sistemata in loco il 15 dicembre 1956), con
il gruppo in bronzo del 1890 dello scultore Michele
Tripisciano (1860-1913).
La
statua di san Michele Arcangelo è opera di Stefano Li Volsi, di Nicosia,
raffigura l'arcangelo Michele intento a tenere nella mano sinistra una
catena, e nella destra una lancia; ai piedi è rappresentato il demonio
sottomesso. La statua fu commissionata al Li Volsi mentre stava
lavorando alla scultura di un angelo, e per far fronte alla richiesta
della città, ne modificò il volto per adattarlo a quello di san
Michele. Per questo motivo la testa risulta essere di legno d'olivo,
mentre il resto del simulacro è di legno di salice. La differenza nel
materiale della testa diede adito alla leggenda secondo la quale lo
scultore, non soddisfatto del volto della sua scultura, si mise a
pregare e lo trovò già terminato «a opera degli angeli».
Abbazia
di Santo Spirito

Secondo
lo storico locale Santagati, il luogo in cui oggi sorge l'abbazia
normanna di Santo Spirito era un luogo di culto già in epoca bizantina,
come fa supporre la dedicazione allo Spirito Santo. Le chiese siciliane
di origine bizantina, infatti, sono spesso dedicate allo Spirito
Santo, a san Basilio o san Nicola, mentre quelle di
origine normanna alla Madonna, a san Pietro o agli altri apostoli.
In ogni caso, sembra ormai certo che l'attuale biblioteca fosse un tempo
un casolare arabo, inglobato nella struttura normanna.
Commissionata
dal conte Ruggero e da sua moglie Adelasia, la chiesa fu
consacrata nel 1153 ed affidata nel 1178 ai canonici
regolari agostiniani, anche se fu soltanto nel 1361 che iniziò
la serie degli abati. La chiesa fu restaurata una prima volta già nel
1568, ad opera di Fabrizio Moncada, figlio di Francesco I conte
di Caltanissetta; in seguito furono effettuati altri restauri
nell'ultimo trentennio del XIX secolo, fino a quelli recentissimi,
conclusisi negli anni passati. Nel 1759 la contessa Ruffo
Moncada affidò l'abbazia ai padri cappuccini, l'ultimo dei
quali morì nel 1904.
Non
conosciamo con esattezza le date di fondazione né della chiesa, né
dell'abbazia, ma è certo che quella di Santo Spirito fu la
prima parrocchia della città. La data di consacrazione 1153,
invece, ci è pervenuta grazie ad una lapide commemorativa, posta sul
pilastro sinistro dell'abside maggiore.
  È
costituita da un'unica navata triabsidata, di lunghezza pari a tre volte
la dimensione trasversale. Vi si trova simbolicamente rappresentato il
mistero dell'unità trinitaria: le tre finestrelle absidali hanno gli
assi convergenti verso un unico fuoco centrale. Lo stesso simbolismo,
accentuato dai raggi solari è rappresentato dalle tre finestrelle che
sovrastano l'area presbiteriale. Il portale laterale e le absidi con
paraste (contrafforti) riportano a modelli della prima architettura
della Normandia. L'immagine mostra le absidi con le paraste di sostegno
per le coperture coniche. Prospiciente all'Abbazia è ubicato il museo
archeologico regionale di Caltanissetta.
Notevoli
sono il fonte battesimale, opera di fattura normanna; la cantoria,
costruita nel 1877, decorata con gli stemmi dell'allora vescovo
Monsignor Giovanni Guttadauro e dell'abate; l'affresco di Sant'Agostino,
del XV secolo, di cui ci sono giunti solo alcuni frammenti;
l'affresco della Messa di San Gregorio, anch'esso del XV secolo,
raffigurante la visione di un incredulo durante una Messa celebrata dal
Papa San Gregorio Magno: il Cristo che emerge dal sarcofago e
gli strumenti della Passione, che durante il Sacrificio Eucaristico si
ripresenta per la salvezza delle anime; l'affresco del Cristo
benedicente, ancora del XV secolo; l'affresco del Panthocrator,
ridipinto nel 1964 dal pittore catanese Archimede Cirinnà;
la statua della Madonna delle Grazie, del XVI secolo, in
terracotta policroma, che è la più antica raffigurazione mariana di
Caltanissetta; il Crocifisso dello Staglio, realizzato con
tempera grassa su tavola e ritenuta l'opera più preziosa presente
nell'abbazia; l'altare maggiore, la Protesis ed il Diaconicon,
tutti ricavati da grossi blocchi di pietra di Sabucina; un'urna
cineraria romana, risalente al I secolo, appartenente ad un certo Diadumeno, liberto dell'imperatore Tito
Flavio Cesare e probabilmente proprietario del fondo dove in
seguito sorse l'abbazia.
Chiesa
di Sant'Agata
e collegio
dei Gesuiti
Sul
finire del Cinquecento,
Luisa Moncada e
suo figlio, il principe Francesco,
insieme ad altre iniziative, invitarono in città l'ordine dei gesuiti,
per il quale fecero edificare la chiesa, dedicata a sant'Agata,
ed il relativo collegio. I lavori di costruzione del collegio iniziarono
il 1º gennaio 1589 e si protrassero fino alla seconda metà del XIX
secolo a causa di alterne vicende, mentre l'edificazione
della chiesa iniziò nel 1600,
e terminò nel 1610,
proseguendo successivamente per i lavori di abbellimento. La
facciata fu realizzata su disegno di Natale
Masuccio.
L'ampio
edificio del collegio è
oggi sede della biblioteca
comunale "Luciano Scarabelli" e dell'istituto
superiore di studi musicali "Vincenzo
Bellini".
La
facciata della chiesa risale al Seicento,
tranne il portale del Marabitti, del Settecento,
che è stato realizzato in pietra bianca, a contrasto con il materiale
del resto della facciata, in pietra di Sabucina o pietra arenaria rossa.
Il portale è coronato da un timpano spezzato,
con al centro uno stemma sostenuto da due puttini.
La
chiesa ha pianta a croce
greca, con quattro bracci di uguale lunghezza e quattro cappelle laterali.
L'interno è rivestito da lastre di marmo o
di stucco a
imitazione del marmo, dove ricorre la sigla "IHS",
identificativa dell'ordine
gesuitico.
Nel 1950 il Genio
Civile in occasione dell'anno Giubilare incaricò l'artista
nisseno Luigi
Garbato di sostituire e ridipingere ex novo gli affreschi,
ormai lacerati, dipinti dagli artisti catanesi Sozzi. Furono ridipinte:
la volta centrale, il transetto, il presbiterio, la navata e le cappelle
laterali, (ad esclusione della volta della cappella di Sant'Anna che
venne affrescata da Luigi
Borremans, figlio di Guglielmo
Borremans). Gli affreschi del 1950 trattano soggetti eucaristici
e sono accompagnati da una decorazione illusionistica in finto marmo; la
volta centrale sfondata si apre verso il cielo con il trionfo
dell'ordine gesuita e, nelle cappelle laterali, le cupolette sono
decorate con effetto velarium. L'artista ha apposto la sua firma e la
data d'esecuzione all'innesto di uno degli archi della volta.
Dietro
l'altare
maggiore, dedicato a sant'Agata, si trova un quadro del pittore Agostino
Scilla che ritrae la santa durante il martirio. Nelle
pareti laterali, infine, troviamo due tele del pittore nisseno Vincenzo
Roggeri, che ritraggono Santa
Rosalia e le sante vergini da una parte, e Santa
Rosalia e le sante monache dall'altra.
La
cappella dedicata a Sant'Ignazio
di Loyola, fondatore dell'ordine,
è situata nel transetto di
sinistra. Conserva un bassorilievo su lastra di marmo, attribuito allo
scultore siciliano Ignazio
Marabitti, con la figura del santo, rappresentato sul mondo
insieme ad una serie di raggi dorati; accanto, un puttino tiene un libro
recante la scritta anno domini 1600 e al di sopra un
triangolo (simbolo della Trinità),
recante la scritta in ebraico Yahwe.
Sotto il triangolo quattro figure femminili rappresentano i quattro
continenti allora conosciuti: una donna con il cammello rappresenta l'Asia,
una donna con una testa di leone rappresenta l'Africa,
a sinistra una donna seduta con la tiara papale sembra rappresentare l'Europa e,
infine, una donna con la faretra rappresenta l'America.
Nella
parte inferiore dell'altare, il paliotto è
rivestito da un intarsio di marmi e pietre dure che rappresentano fiori
ed uccellini i cui nomi sono indicati nei nastri bianchi posti intorno a
loro.
Presso
l'altare sono presenti le statue di San
Stanislao e di San
Luigi Gonzaga.
Chiesa
di Santa Maria degli Angeli
La chiesa
di Santa Maria degli Angeli, dichiarata monumento nazionale nel
1902, sorge a ridosso del castello di Pietrarossa, sul lato
settentrionale di quest'ultimo, e fu la seconda parrocchia della
città, divenuta sede parrocchiale cittadina nel 1239 ed, in
seguito, regia cappella di Casa Sveva.
Il
nome originale sembra essere quello di Maria Santissima Assunta,
poi cambiato in quello attuale, in seguito alla donazione di un dipinto
della Madonna degli Angeli, oggi conservato nella chiesa del
Collegio di Maria. Viene indicata anche con il nome di Santa Maria
la Vetere per distinguerla dalla Cattedrale, intitolata a
Santa Maria la Nova.
La
fondazione della chiesa è stata a lungo attribuita all'imperatore Federico
II di Svevia, che l'avrebbe fatta costruire nel 1239 come cappella
palatina del castello di Pietrarossa. In realtà, come rileva la
studiosa Daniela Vullo, è più probabile che la chiesa a cui il
documento fa riferimento sia in realtà una cappella interna al castello
e crollata con esso nel XVI secolo mentre la chiesa in questione sarebbe
stata fondata dai nuovi feudatari di Caltanissetta, i Lancia, nella
prima metà del XIV secolo, come testimonierebbe un leone rampante posto
sul prospetto settentrionale della chiesa, simbolo della casata dei
Lancia.
Intorno
al 1400 la parrocchia fu trasferita ad altre chiese,
a causa delle sue ridotte dimensioni e, nel 1622 venne
definitivamente assunta dalla chiesa di Santa Maria la Nova. Nel 1601,
la chiesa di Santa Maria degli Angeli venne concessa ai Frati
Minori Osservanti che, grazie alle generose offerte della Contessa
Luisa de Luna y Vega, costruirono il proprio cenobio nel 1604. Con
l'occasione, venne eseguito un riammodernamento ed ingrandimento
dell'antica chiesa. Nel 1636 il convento dei minori subì un
crollo parziale in seguito al quale fu approntata un'altra opera di
restauro facendo uso, per ripristinare la parte crollata, delle pietre
del vicino castello. Storia travagliata fu anche quella della
costruzione del noviziato, iniziata nel 1688 e terminata
soltanto nel 1709 a causa della mancanza di fondi. Un
ulteriore restauro ed ampliamento della chiesa fu condotto dal 1740 al 1771,
come testimoniato da un'iscrizione che si trovava nell'arcata tra
l'abside e la navata e riportata dallo storico nisseno Camillo
Genovese.
Nel 1867,
durante un'epidemia, il convento venne adibito ad ospedale per colerosi
e successivamente, nel 1873, la chiesa venne definitivamente chiusa
al culto, per passare alla proprietà del Ministero della Guerra,
che la adibì a caserma e magazzino militare. Questo passaggio segna
l'inizio di un periodo di completo abbandono della chiesa che culminò
con il crollo parziale del tetto, nel 1964 e la successiva
realizzazione, nel 1972, di un solaio in cemento armato.
All'interno
dell'edificio non rimane più nulla, ma possiamo ancora ammirarne
l'impianto planimetrico, tipicamente normanno, che consta di una singola
navata. Inoltre, si trovano nella parte esterna, alcuni preziosi
elementi decorativi, spesso rovinati dalle sopra-edificazioni e dagli
inappropriati restauri condotti.
L'edificio
e l'attiguo convento sono stati restaurati di recente. Degna di
particolare rilievo è la porta maggiore occidentale, a causa dei
particolari fregi che la adornano: costruita in pietra arenaria,
possiede un archivolto a sesto acuto in tre livelli, sostenuto
da quattro colonnine cilindriche dotate di capitelli.
Chiesa
di San Giovanni
La
fondazione della chiesa risale al XI secolo, poiché essa è
menzionata in un documento del 1101 che la annovera come priorato di
regio patronato dell'abbazia della Santissima Trinità di Mileto fondata
dal Gran Conte Ruggero; tale condizione fu ribadita anche in una
successiva bolla di papa Eugenio III del 1150.
Nel
1454 il vescovo di Girgenti concesse il suolo per la costruzione della
sacrestia alla Congregazione del Purgatorio; nel 1606 fu assegnata alla
Confraternita del Purgatorio e in quell'occasione fu restaurata e
ingrandita.
Nel
1711, grazie al generoso lascito del sacerdote Riccobene, la chiesa subì
un radicale restauro che, secondo le testimonianze, non lasciò nulla
della preesistente chiesa. Nel 1747 fu elevata a parrocchia dal vescovo
di Girgenti Lorenzo Gioeni, in visita a Caltanissetta, e le fu
assegnato l'intero quartiere di San Francesco, insieme con le
chiese di Santa Croce, del Crocifisso e di San Biagio.
Nel
1806 l'interno fu decorato con stucchi; nel 1910, grazie ai fondi
raccolti dal canonico Natale, rettore della chiesa, furono rifatti la
facciata, l'altare in marmo e il simulacro di Sant'Antonio.
Fino
alla seconda guerra mondiale custodì alcune opere d'arte tra
cui un bozzetto in terracotta raffigurante San Giovanni, oggi esposto al museo
diocesano di Caltanissetta, e il Crocifisso dello Staglio, dipinto oggi
custodito presso l'abbazia di Santo Spirito.
L'edificio
subì danni in occasione del bombardamento di Caltanissetta del 1943,
e fu ricostruito nel 1945.

Chiesa
di San Sebastiano
Sorta
intorno al Cinquecento
come omaggio al Santo da parte della popolazione per la liberazione
dalla peste
e in passato sede della congregazione dei macellai,
la chiesa di San
Sebastiano è situata in piazza
Garibaldi, proprio di fronte
alla Cattedrale e alla fontana del Tritone.
La
facciata in stile eclettico fu progettata da Pasquale Saetta alla fine
del 1800 che l'arricchì con colonne appartenenti a tutte e
tre gli ordini classici: dorico, ionico e corinzio.
Dispose le colonne doriche nello spazio inferiore, quelle corinzie in
cima e le ioniche nella zona mediana.
La facciata è
inoltre valorizzata da bifore e nicchie all’interno delle quali si
trovano le statue dello scultore Biancardi che rappresentano i santi
Pietro e Paolo e nella parte più alta san Sebastiano trafitto
da frecce (in memoria del suo martirio). I colori originari della
facciata erano celeste chiaro e rosso chiaro di evidente influenza spagnola.
Il portale d'ingresso è sorretto da colonne gemelle, sormontate da un timpano triangolare,
che si replicano al secondo ordine, arginato da una finestra bifora che
illumina la navata; un timpano curvo chiude degnamente la facciata,
la torre campanaria infine termina con una loggia a sezione
poligonale. Passando all’interno è possibile ammirare una statua
lignea del Santo e una tela del pittore palermitano Tommaso
Pollace, grande pittore palermitano. L'edificio è ad aula unica
con volta a botte lunettata; sulle pareti fanno bella mostra
semplici stucchi neoclassici e lesene di ordine ionico.
Chiesa
di San Domenico
L'edificio
venne costruito nel XV secolo, dopo l'arrivo dei Moncada a
Caltanissetta, al centro del quartiere Angeli, dove allora non
esistevano altre chiese. La fondazione, avvenuta nel 1458, è stata
attribuita dalla tradizione al beato Reginaldo Lombardo, discepolo di
San Domenico; tuttavia è probabile che sia stata fondata da Antonio
Moncada, terzo conte di Caltanissetta, il quale nel 1458, per ereditare
il suo titolo, dovette rinunciare all'abito talare e, pertanto, come
"risarcimento" all'ordine domenicano, cui apparteneva, avrebbe
fatto costruire una chiesa con annesso convento.
I
Moncada per primi scelsero la chiesa come luogo personale di sepoltura;
vennero seguiti nei secoli successivi anche da altre famiglie della
nobiltà cittadina.
La
chiesa continuò ad essere arricchita e migliorata nel tempo. Nel 1573
venne finanziato l'ampliamento del convento e nei primi anni del Seicento venne
commissionato il chiostro, completato nel primo decennio del secolo. La
facciata è stata realizzata intorno al 1700, in occasione dei lavori di
ampliamento, mentre gli stucchi che decorano gli interni risalgono
all'Ottocento.
Nel
1650, in occasione di alcuni lavori, vennero scoperti dietro l'altare i
resti tre persone, tra cui una donna identificata nella contessa
Adelasia, nipote del Gran Conte Ruggero, che la tradizione voleva
sepolta nel castello di Pietrarossa e che sarebbe stata
traslata a seguito del crollo del castello.
A
seguito dell'unità d'Italia, con la soppressione degli ordini
religiosi, il convento venne adibito a caserma, e la chiesa venne
sconsacrata e usata come magazzino; fu riconsacrata nel 1923.
La
chiesa presenta tre navate, e una facciata barocca convessa al centro e
concava lateralmente, che tuttavia risulta incompleta a causa della mai
terminata torre campanaria. All'interno vi si trovano una tela del
Borremans e due del Paladini.
Chiesa
e monastero di Santa Flavia
La
nascita del monastero è legata alla figura di donna Maria d'Aragona, duchessa
di Montalto, vedova del conte di Caltanissetta Francesco II
Moncada, la quale, dopo la morte prematura del giovane marito avvenuta
nel 1592, versò un contributo di 500 onze annue per la
realizzazione e il mantenimento di un monastero benedettino che
sarebbe dovuto sorgere accanto all'esistente chiesa di Santa Venera, in
un luogo panoramico che dominava visivamente l'intera città. Il terreno
per il monastero fu concesso dai giurati di Caltanissetta già nel 1593;
l'atto di fondazione si trova presso l'archivio di stato di
Caltanissetta. Papa Clemente VIII diede la sua approvazione
tramite la bolla pontificia del 27 agosto 1594. Nel 1596
il vescovo di Girgenti (da cui all'epoca dipendeva la chiesa
nissena), concesse il terreno su cui sorgeva Santa Venera per la
costruzione della chiesa annessa al monastero, che per esplicita
richiesta della duchessa sarebbe stata dedicata a santa Flavia, sorella
del martire benedettino san Placido.
I
lavori iniziarono tra la fine del XVI e l'inizio del XVII
secolo; dopo la morte della duchessa, furono portati avanti da suo
figlio, il principe Antonio d'Aragona Moncada. L'importanza e
l'imponenza dell'opera furono tali al punto che, secondo i resoconti
dell'epoca, la costruzione del monastero aumentò il valore dell'intera
città di Caltanissetta. Nella nuova chiesa, per volontà di donna
Maria, venne dedicata una cappella a Santa Venera; nella cappella
dedicata a Santa Flavia furono sepolti Antonio Moncada, cugino
dell'omonimo principe, e di sua moglie Maria.
I
tempi per la costruzione della chiesa furono lunghi. Sebbene una
testimonianza riporti che questa fosse in funzione già nel 1607, i
lavori che porteranno la chiesa ad assumere l'aspetto odierno iniziarono
intorno al 1650. Inoltre, da alcuni documenti si evince che la chiesa di
Santa Venera, definita chiesa vecchia, dovesse ancora esistere nel
1667, e che i lavori per l'altare maggiore della nuova chiesa avvennero
verosimilmente intorno al 1669. A causa di problemi economici, la
costruzione della chiesa viene interrotta per diversi decenni; fu
ripresa solo nel 1763 e fu completata nel 1793.
Nel XIX
secolo vi dimorò Giuseppe Benedetto Dusmet. Egli vi giunse
nel 1847 come segretario di Carlo Antonio Buglio, eletto abate del
monastero. Vi rimase fino al 1850, ma vi ritornò due anni dopo con il
titolo di priore amministratore con funzione di abate su insistenza di Antonino
Maria Stromillo, primo vescovo di Caltanissetta, che lo voleva come
aiutante nella gestione della sua neonata diocesi. Nel 1854,
durante una violenta epidemia di colera, Dusmet fu in prima linea
nel soccorso e nel conforto degli ammalati. Rimase a Caltanissetta fino
alla morte del vescovo Stromillo, che egli assistette fino all'ultimo,
nel 1858. Al cardinale Dusmet è intitolata la via che affianca la
chiesa di Santa Flavia.
Con
l'unità d'Italia il monastero e la chiesa furono confiscati;
furono dapprima destinati a lazzaretto, durante l’epidemia di
colera del 1885, poi furono convertiti in caserma
"Belleno" e in deposito militare. Successivamente il monastero
fu destinato a rifugio per gli indigenti, mentre la chiesa fu restituita
al culto nel XX secolo. Negli anni sessanta l'edificio era
fatiscente, e all'ipotesi di demolizione si opposero i parroci
dell'epoca che iniziarono il restauro senza contributi da parte
dell'erario. Nel 1978 si arrivò a un accordo secondo cui il monastero
sarebbe stato ristrutturato con fondi del Ministero delle finanze purché
i locali della struttura fossero utilizzati per attività sociali.
I
lavori di restauro eseguiti nei primi anni duemila hanno riportato alla
luce la facciata dell'antica chiesa di Santa Venera, oggi inglobata
nella parete laterale della chiesa di Santa Flavia.
La
facciata della chiesa presenta due ordini, separati da una cornice
marcapiano. Il monastero, originariamente a due elevazioni, ma con una
terza realizzata in epoca successiva, racchiude un cortile dentro il
quale vi insisteva un porticato, probabilmente demolito durante la
trasformazione in caserma.
Chiesa
e monastero di Santa Croce
Il
luogo in cui sorge l'attuale complesso era occupato dalla chiesa
dedicata a santa Maria della Neve, accanto alla quale nel 1531 fu
costruito un monastero per volontà del conte Antonio III Moncada.
Nel 1590 il complesso fu dedicato alla Santa Croce in onore di una
reliquia donata dalla contessa Moncada. Subì alcuni rimaneggiamenti tra
la fine del XVI secolo e il XVII secolo, che riguardarono
l'ingrandimento della chiesa e del monastero, la realizzazione di un
nuovo giardino e l'ampliamento del terrazzo.
Nel
1660 vi fu donato un masso spaccato a metà, rinvenuto nei pressi di Santo
Spirito da un contadino, all'interno del quale è visibile
l'immagine del Cristo in croce; dopo l'improvvisa guarigione di una
monaca paralizzata, una commissione istituita dal vescovo di Girgenti ne
accertò il carattere miracoloso e ne autorizzò la venerazione,
proclamando giorno di festa il 25 settembre, data del ritrovamento.
Il
monastero continuò ad essere abitato dalle benedettine anche
a seguito della soppressione degli ordini religiosi sancita dopo l'Unità
d'Italia, ma nel 1908 le suore lasciarono la città. Nel 1912 l'ala
nord del monastero fu adibita a scuola elementare femminile, e durante
la Grande Guerra fu requisito per quattro anni.
Nel
1924 la chiesa venne elevata a parrocchia dal vescovo Monsignor Giovanni
Iacono. Nel 1967, con la costruzione della via Medaglie d'Oro, fu
demolito parte del monastero insieme ai resti della porta della Badia,
già gravemente danneggiata dai bombardamenti del 1943.
La
chiesa risulta in prospettiva da corso Vittorio Emanuele. È a
navata unica e possiede una caratteristica facciata rossa a due ordini,
spezzato dalle finestre contornate da cornici di arenaria e protette da gelosie di
ferro, che permettevano alle monache di guardare la strada senza essere
viste.
Al
monastero e alle benedettine che vi abitavano sono legati due pasticcini tipici
di Caltanissetta, le crocette e le spine sante, dolci in
origine preparati annualmente in occasione della festa dell'esaltazione
della Santa Croce, il 14 settembre, per ricambiare ai favori che le
suore ricevevano dalle persone esterne al monastero. Cadute nel
dimenticatoio dopo la partenza delle suore dalla città, sono state
riscoperte negli anni 2010. Sono realizzate con prodotti tipici del
comprensorio, tra cui mandorle, cotogne, scorze d'arancia,
miele e alcune varietà locali di grano.
Chiesa
e convento di San Michele
Sorgono
in via Sallemi (già contrada Sallimi), sul luogo in cui, secondo le
visioni del frate cappuccino Francesco Giarratana, nel 1625
l'arcangelo Michele impedì l'ingresso a Caltanissetta di un
appestato, proteggendo la città dalla peste. La chiesa, di modeste
dimensioni, fu realizzata subito dopo il miracolo e intitolata "San
Michele alle Calcare" (dal nome delle formazioni geologiche
presenti nella località), ma nel tempo cadde in rovina. Venne
riedificata, assumendo l'attuale forma, a seguito del colera del 1837
come forma di ringraziamento a san Michele, a cui venne ricondotta la
protezione della città dall'epidemia.
Il
convento risale al 1888 e fu il terzo convento dei cappuccini; la sua
realizzazione, tenacemente voluta da padre Angelico Lipani, fu resa
necessaria a causa dello sfratto dei cappuccini nel 1866 dal loro secondo
convento, nell'odierno viale Regina Margherita, in seguito alla
confisca dei beni ecclesiastici post unità d'Italia.
Cronologicamente, si tratta del terzo convento Cappuccino in città,
dopo il convento di contrada Xiboli, inglobato nella distilleria
Averna, e il convento di contrada Pigni, trasformato in ospedale
nel 1866.
L'8
maggio di ogni anno, in occasione dell'anniversario dell'apparizione a
fra Giarratana, vi viene condotta in processione la statua di san
Michele, scortata dalla Real Maestranza. La statua, opera dello scultore Stefano
Li Volsi, è abitualmente custodita in Cattedrale, ma per pochi giorni
permane all'interno della chiesa di san Michele; per tale motivo la
processione prende il nome di "San Michele in villeggiatura".
Santuario
del Signore della Città
Il santuario
del Signore della Città custodisce il Cristo Nero, detto anche Signore
della Città, co-patrono di Caltanissetta.
Alcuni
storici nisseni, tra cui Giovanni
Mulè Bertòlo, ritengono che la chiesa fosse stata fondata nel
XIV secolo, ma le prime notizie certe riguardo la sua esistenza
risalgono al 1730, quando don Giovanni Agostino Riva, nel suo Notiziario
di Stato della Città, la riporta intitolata a San Nicola di Bari e assegnata
a un'omonima confraternita.
La sua
importanza accrebbe nel XVIII
secolo, quando, a seguito della distruzione della chiesa di San
Leonardo, vi venne traslato il Cristo Nero, un crocifisso ligneo in
stile bizantino che, secondo la tradizione orale, fu fortuitamente
ritrovato, nei primi anni del XIV secolo, da alcuni fogliamari (raccoglitori
di erbe selvatiche) in una grotta ai margini della città, nell'attuale
Largo Scribani.
Il
crocifisso, annerito dal fumo sprigionato da due candele che ardevano
all'interno della grotta, divenne presto il patrono di Caltanissetta, e
fu custodito nella chiesa di San Leonardo, che si trovava nei pressi del
luogo di ritrovamento.
La
chiesa di San Nicola di Bari fu scelta per la vicinanza alla scomparsa
chiesa di San Leonardo e al sito del ritrovamento, e da quel momento
venne intitolata al Crocifisso per devozione popolare.
Nel
1859 la confraternita di San Nicola di Bari venne sciolta, e al suo
posto Monsignor Guttadauro fondò
la confraternita del Santissimo Crocifisso, formata da zolfatai.
Fino
al XIX secolo la chiesa mantenne dimensioni modeste, come testimonia il
portale situato in una parete laterale che un tempo rappresentava
l'ingresso principale dell'edificio. Dopo il 1867, anno in cui furono
soppressi gli ordini religiosi, fu eletta a cappella del vicino ospedale
Vittorio Emanuele II, a sua volta ex convento
dei padri cappuccini; il vescovo di Caltanissetta, Monsignor
Guttadauro nominò quindi rettore della chiesa il frate cappuccino Angelico
Lipani.
Egli
si prodigò a restaurare la chiesa grazie ai generosi finanziamenti dei conti Testasecca, e in particolare della contessa Maria
Adelaide: tra il 1872 e il 1880 la chiesetta venne ingrandita e dotata
di un nuovo altare e un nuovo portale in arenaria; fu inoltre acquistato
il fercolo dorato, opera dell'artista ennese Gaetano Chiaramonte, che da
quel momento servirà per portare in processione il crocifisso il Venerdì
Santo.
A
partire dal 1881, a seguito delle tragedie in alcune miniere nissene, la
chiesa divenne il centro operativo da cui partivano cibo e soccorsi.
Sull'onda di questa esperienza, grazie alle elargizioni dei Testasecca,
padre Lipani nel 1884 fondò l'istituto Signore della Città, costruito
nei locali attigui alla chiesa per ospitare le orfane. Nel 1885 fondò
la congregazione delle suore
francescane del Signore della Città.
Padre
Lipani morì nel 1920, e nel 1947 la sua salma fu traslata sul fianco
sinistro della chiesa, custodita all'interno di un monumento opera di
Piraino e Averna.
Tra
il 1955 e il 1968 l'altare fu adornato con un mosaico dorato opera
dell'artista Bevilacqua. Nel 1957, sotto il terzo rettore Sorce, la
chiesa fu elevata a santuario.
Si
trova all'estremità di un'appendice del quartiere San Francesco,
affacciata sul vallone del torrente della Difesa. L'edificio è in stile
neoclassico; la facciata è in pietra di Sabucina (arenaria) a un
ordine, è sormontata da un timpano triangolare ed è affiancata a
sinistra dal campanile.
All'interno
vi sono custodite due statue, quella di san Francesco, realizzata dai
Biancardi nel 1882, e quella di sant'Antonio, proveniente dall'omonima
chiesa distrutta per far posto all'ex
palazzo delle Poste. Sul fianco sinistro della chiesa si trova un
monumento, opera di Piraino e Averna, che dal 1947 custodisce la salma
di padre Angelico Lipani.
Chiesa
di Santa Maria della Grazia

La
costruzione della chiesa ebbe inizio nel 1620 nello stesso luogo in cui
sorgeva una cappella votiva dedicata alla Madonna della Grazia, e dieci
anni dopo risultava già completa e aperta al culto. Nel 1623 i giurati
della città concessero il terreno adiacente ai padri agostiniani per
costruirvi un convento, il cui atto di fondazione risale al 1624; la
costruzione iniziò nel 1626, secondo la tradizione con la posa della
prima pietra da parte del principe Luigi Guglielmo I Moncada, la
cui famiglia aveva promosso l'arrivo degli agostiniani a Caltanissetta.
Nonostante
fosse una chiesa extraurbana, divenne molto frequentata dal ceto
borghese della città; ne sono testimonianza le numerose sepolture
illustri.
Nel
1866, con la soppressione degli ordini religiosi, il convento fu
confiscato, ampliato, e destinato in parte a sede dell'istituto tecnico,
e in parte a caserma della guardia doganale; nel 1882 vi fu inaugurato
l'orfanotrofio Maddalena Calafato. Gli ampliamenti continuarono anche
nel Novecento, e riguardarono il cimitero che sorgeva alle spalle della
chiesa.
Tra
il 2013 e il 2014 la chiesa è stata oggetto di un restauro che ha
previsto tra gli altri il ripristino dello scalone esterno, sostituito
nel dopoguerra da un ballatoio in cemento armato, e il recupero degli
stucchi interni.
Ormai
inglobata nel tessuto urbano, si trova al margine occidentale del centro
storico, nella zona detta Canalicchio, sulla vecchia strada per Palermo,
oggi via Maddalena Calafato. Il prospetto della chiesa si trova
sopraelevato rispetto al piano stradale, al quale è collegato tramite
uno scalone esterno. La chiesa ha unica navata con altari laterali e con
una volta a botte riccamente decorata da stucchi risalenti al 1840. L’altare
maggiore conserva il quadro della Madonna della Grazia di Pietro
Antonio Novelli, padre del più famoso Pietro.
Villa
Cappellano
Fu
costruito alla fine del XVI secolo come residenza estiva dei gesuiti
di Caltanissetta, e oggi versa in stato di abbandono.
Il
territorio su cui sorge villa Cappellano è noto sin dall'antichità per
le caratteristiche favorevoli all'agricoltura e alla pastorizia; in
epoca romana era attraversato dal Cursus Publicus, una strada
dell'Itinerario antonino che collegava Agrigento con Catania, e che
passava per la Statio Petiliana, identificata nel luogo su cui
sorge Delia.
La
villa fu costruita dai gesuiti sul finire del XVI secolo, su impulso di Francesco
II Moncada, conte di Caltanissetta, e sua madre donna Luisa, che
nel 1588 donarono terre e finanziamenti. I gesuiti la gestirono
come un'efficiente azienda agricola, concedendo appezzamenti di terra in
usufrutto ai contadini locali. Anche quando furono espulsi per la prima
volta dalla Sicilia, nel 1767, le attività agricole continuarono; al
loro ritorno, nel 1808, furono restituiti loro la villa e l'intero
fondo.
Dal
1843, non ritenendola più idonea alle loro esigenze, i gesuiti si
trasferirono nella nuova casina alle Balate, nei pressi di
Caltanissetta, e il fondo di villa Cappellano fu suddiviso e assegnato,
forse in enfiteusi, a cinque diverse persone. Con l'eversione
dell'asse ecclesiastico del 1866, la villa e i terreni furono messi
all'asta e comprati dalla famiglia nissena dei baroni Calafato. Nel 1939
fu acquistata dalla diocesi di Caltanissetta che ne fece la
residenza estiva per i seminaristi fino al 1958. Dopo essere passata
temporaneamente ai privati nel 1972, è tornata di proprietà della
diocesi.
Si
tratta di uno dei pochi esempi di monastero-fattoria esistenti in
Sicilia: è composto da diversi corpi di fabbrica che si affacciano su
un vasto cortile quadrangolare a cui si accede tramite una galleria. La
facciata principale si sviluppa su due elevazioni contrassegnate da tre
file di aperture; il portale d'ingresso, a tutto sesto, è realizzato in
pietra bugnata, tipica del primo barocco palermitano, mentre il balcone
sovrastante è sorretto da mensole con motivi floreali. Al pian terreno
sono riconoscibili quattro ambienti, due laterali probabilmente
utilizzati per il refettorio e il laboratorio, e due centrali occupati
dall'androne e dal frantoio. Uno scalone conduce al piano nobile, dove
si trovano le sedici celle dei padri, collegate da due corridoi che si
intersecano formando una volta a crociera.
Del
complesso fa parte anche una cappella dedicata al Sacro Cuore di Gesù.
All'esterno, la facciata è caratterizzata da un portale a tutto sesto
in pietra bugnata; due paraste sorreggono un architrave decorato con
motivi a metope, triglifi e gocciole, a cui è direttamente collegata la
finestra che illumina l'interno. All'interno sono presenti decorazioni a
riquadri di stucco bianco, nelle sovrapporte, nella volta a botte e
nell'altare maggiore, quest'ultimo ormai seriamente lesionato. La
cappella è stata spogliata degli arredi sacri; non si hanno più
notizie di un quadro di San Francesco Saverio copia di quello conservato
presso la Chiesa del Collegio di Caltanissetta, mentre si trova
nella Madrice di Delia la complessa cornice barocca scolpita in legno di
noce, che la tradizione vuole sia stata scolpita per volere di donna
Luisa da un padre gesuita che vi impiegò ben dieci anni. Di particolare
rilievo è la pavimentazione in maiolica del Settecento calatino che si
trova nella sacrestia.
Cimitero
monumentale degli Angeli
Fu
aperto nel 1878 nelle vicinanze della chiesa di Santa Maria degli
Angeli e del castello di Pietrarossa. La costruzione del
cimitero monumentale di Caltanissetta fu deliberata dal consiglio
comunale con una delibera 23 marzo 1878 e con uno stanziamento di
126.000 lire dell'epoca. I lavori iniziarono lo stesso anno seguendo,
così, una tradizione iniziata in altre parti d'Italia con Napoleone.
La
delibera faceva seguito ad un'accesa discussione svoltasi nei cinque
anni precedenti; tra i siti valutati vi erano un terreno nella zona
dell'abbazia di Santo Spirito, un terreno in contrada Balate, uno in
contrada Firrio e quello, poi scelto, vicino al convento di Santa
Maria degli Angeli. Questo sito fu preferito per la sua esposizione, per
la natura drenante del terreno calcareo, per relativa vicinanza
all'abitato cittadino e per la «romantica mestizia che vi spira attorno».
Una certa rilevanza può aver avuto nella scelta del sito anche il fatto
che il convento dei frati minori osservanti fosse stato adibito dal 1867 come lazzaretto per
i malati delle frequenti epidemie di colera dell'epoca.
L'attuale
ingresso è stato ricavato abbassando l'antistante livello dello
spiazzo, che a destra è delimitato dalla chiesa di Santa Maria degli
Angeli. Il progetto fu dell'ingegnere Alfonso Barbera, lo stesso che
aveva progettato la facciata del Comune e del Teatro Margherita.
Il
cimitero degli Angeli è posto sopra una collina argillosa che domina la valle
dell'Imera meridionale, nelle vicinanze del castello di Pietrarossa, ivi
edificato in epoca bizantina, per un controllo strategico della
valle.
Il
complesso monumentale della Chiesa del convento annesso al cimitero e
del castello si estendono lungo un asse sud-est. Il cimitero permette
una visione panoramica per la sua posizione sopraelevata di paesaggi del
centro Sicilia meridionale ricchi di colline argillose e calanchi.
Lungo l'asse est-ovest si osservano la Serra della Difesa con il suo
Vallone della Difesa e Iuculia ad est si osserva il monte di
Sabucina con il suo sito archeologico. In direzione nord si
osservano il monte San Giuliano con il suo monumento al
Redentore e la collina di Sant'Anna con l'antenna RAI, colline
queste che dominano l'intero abitato nisseno.
Il
cimitero si sviluppa, lungo una forte pendenza lungo l'asse sud, con
viali interni sinuosi cui si affacciano cappelle gentilizie tra
le quali per il loro valore architettonico e artistico si distinguono
quelle delle famiglie nobiliari costruite dagli architetti
Pasquale Saetta e Alfonso Barbera: tra di esse, le più note sono quelle
degli Amato-Salvati, Calafati, Difìglia, Falduzza, Giarrizzo,
Lanzirotti, Mazzone, Messina-Sapienza, Trigona della Floresta e
Testasecca. Quest'ultima tra tutte si distingue per la sua monumentalità
ma soprattutto per la presenza della Madonna dello scultore nisseno
Tripisciano.
Tra
gli artisti che hanno contribuito all'edificazione di monumenti
sepolcrali si ricordano quelli di Francesco Biangardi e Michele
Tripisciano; tra tutte le opere marmoree spicca per il suo valore
artistico la Madonna sul trono con il bambino del Tripisciano di cui si
può ammirare una copia in gesso nell'omonimo museo cittadino, con
le due copie in marmo della stessa Madonna presenti nella chiesa di Notre
Dame di Parigi e nella chiesa del Corpus Domini di Milano.
Interessante
è anche la cappella del Senatore Morillo, barone di Trabonella, la cui
facciata fu progettata dall'ingegnere Nuara nel 1912. Questa
cappella è ricavata da un anfratto della rocca di Pietrarossa su cui si
ergono sovrastando il cimitero i ruderi del castello. Si ritiene che
essa sia stata ricavata da un ambiente già abitato in epoca
bizantina del castello. Anche questa cappella custodisce pregevoli
sculture del Tripiscano.
Il
cimitero è stato oggetto di una proposta di vincolo paesaggistico,
istituito con D.A. nº 7732 del 9/10/1995, perché inserito
paesaggisticamente nella Riserva naturale orientata Monte Capodarso
e Valle dell'Imera Meridionale.
Il
cimitero degli Angeli è uno dei due cimiteri di Caltanissetta, l'altro
è il piccolo "cimitero dei Carusi" presso la miniera
Gessolungo creato a ricordo di una disgrazia mineraria del 12 novembre 1881 dove
persero la vita 19 carusi di cui nove rimasti senza nome.
Il
cimitero degli Angeli è stato uno dei primi cimiteri monumentali
d'Italia alla data della sua creazione; oggi esso ha perso questo status
anche per la mancata e adeguata tutela dei beni architettonici e
artistici presenti.
Cimitero
dei carusi
12
novembre 1881. Ore: 6.00 AM. Solfara di Gessolungo. Caltanissetta. 250
minatori stanno scendendo in miniera come ogni mattina. Uno scoppio di
grisou provoca un violento incendio innescato dalla fiamma di una
lampada ad acetilene. 55 uomini, anche se feriti, riescono a mettersi in
salvo. 65 uomini muoiono sul colpo. 16 uomini muoiono in ospedale per le
enormi ferite riportate.
Quegli
uomini erano zolfatari nisseni. 19 di loro erano “carusi”, bambini
di età compresa tra i 6 e i 14 anni, il cui nome in dialetto siciliano
deriva dall’espressione latina “carens uso”, cioè “mancante di
esperienza”.
Ai
carusi spettava il lavoro più duro, ma fondamentale, della miniera:
trasportare all'esterno il materiale estratto dalle viscere della terra.
Le loro condizioni di lavoro, a prescindere dal fatto che si trattasse
di lavoro minorile, erano talmente disagiate, brutali, disumane da
essere vicine allo schiavismo.
Nella
tragedia di Gessolungo del 12 novembre 1881, una delle più gravi
consumatesi nelle solfare siciliane, quando venti giorni dopo
l’esplosione furono recuperati 55 corpi delle vittime, a 9 carusi non
si riuscì nemmeno a dare un nome: privati della loro infanzia, privati
della luce del sole per vivere nelle viscere della terra, i carusi erano
privati anche della loro identità e spesso se ne dimenticava persino il
nome.
Fu
tale la commozione per la morte di tanti zolfatari e di tanti bambini a
Gessolungo, che la popolazione richiese e ottenne la sepoltura delle
vittime in un cimitero appositamente costruito nei pressi della miniera.
Il cimitero, oggi recuperato, è noto come “Cimitero dei Carusi” e
ricorda la memoria delle vittime delle miniere dei secoli scorsi,
vittime dello zolfo, che ha illuso e poi deluso generazioni di
siciliani.
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