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PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1980-1990
 

  

 

Età repubblicana

La Repubblica romana (Res publica Romana) fu il sistema di governo della città di Roma nel periodo compreso tra il 509 a.C. e il 27 a.C., quando l'Urbe fu governata da un'oligarchia repubblicana. Essa nacque a seguito di contrasti interni che portarono alla fine della supremazia della componente etrusca sulla città e al parallelo decadere delle istituzioni monarchiche. La sua fine viene invece convenzionalmente fatta coincidere, circa mezzo millennio dopo, con la fine di un lungo periodo di guerre civili che segnò de facto (benché formalmente non avvenne in forma istituzionale) la fine della forma di governo repubblicana, a favore di quella del Principato.

Quella della Repubblica rappresentò una fase lunga, complessa e decisiva della storia romana: costituì un periodo di enormi trasformazioni per Roma, che da piccola città stato quale era alla fine del VI secolo a.C. divenne, alla vigilia della fondazione dell'Impero, la capitale di un vasto e complesso Stato, formato da una miriade di popoli e civiltà differenti, avviato a segnare in modo decisivo la storia dell'Occidente e del Mediterraneo.

In questo periodo si inquadrano la maggior parte delle grandi conquiste romane nel Mediterraneo e in Europa, soprattutto tra il III e il II secolo a.C.; il I secolo a.C. fu invece, come detto, devastato dai conflitti intestini dovuti ai mutamenti sociali, ma fu anche il secolo di maggiore fioritura letteraria e culturale, frutto dell'incontro con la cultura ellenistica e riferimento "classico" per i secoli successivi.

Riguardo la forma di governo, lo storici greco Polibio affermerà che quello della repubblica romana è il migliore esempio di Costituzione mista, poiché rappresenta la perfetta unione tra la monarchia, incarnata dai Consoli, l'oligarchia, incarnata dal Senato, e la democrazia, incarnata dalle Assemblee romane, i famosi comizi.

Civiltà romana repubblicana - Nella società repubblicana i più alti comandi, come quello dell'esercito e il potere giudiziario, che in età regia erano prerogativa del re, in epoca repubblicana, tranne che in poche occasioni, furono assegnati a due consoli, mentre per quanto riguarda l'ambito religioso, prerogative regie furono attribuite al pontifex maximus. Con la progressiva crescita di complessità dello Stato romano si rese necessaria l'istituzione di altre cariche (edili, censori, questori, tribuni della plebe) che andarono a costituire le magistrature.

Per ognuna di queste cariche venivano osservati tre principi: l'annualità, ovvero l'osservanza di un mandato di un anno (faceva eccezione la carica di censore, che poteva durare fino a 18 mesi), la collegialità, ovvero l'assegnazione dello stesso incarico ad almeno due uomini alla volta, ognuno dei quali esercitava un potere di mutuo veto sulle azioni dell'altro, e la gratuità.

Il secondo pilastro della repubblica romana erano le assemblee popolari, che avevano diverse funzioni, tra cui quella di eleggere i magistrati e di votare le leggi. La loro composizione sociale differiva da assemblea ad assemblea; tra queste l'organo più importante erano comunque i comizi centuriati, in cui il peso nelle votazioni era proporzionale al censo, secondo un meccanismo (quello della divisione delle fasce censitarie in centurie) che rendeva preponderante il peso delle famiglie patrizie.

Il terzo fondamento politico della repubblica era il Senato, già presente nell'età della monarchia. Costituito da 300 membri, capi delle famiglie patrizie (Patres) ed ex consoli (Consulares), aveva la funzione di fornire pareri e indicazioni ai magistrati, indicazioni che poi divennero de facto vincolanti. Approvava inoltre le decisioni prese dalle assemblee popolari.

Nascita e consolidamento (509-343 a.C)

Si racconta che mentre Tarquinio il Superbo stava assediando la città dei Rutuli di Ardea, il figlio Sesto Tarquinio abusò della nobile ed onestissima Lucrezia (moglie di Lucio Tarquinio Collatino), che per la vergogna si suicidò. Il marito Lucio Tarquinio Collatino, il padre Spurio Lucrezio Tricipitino e l'amico Lucio Giunio Bruto (anch'egli imparentato con i Tarquini), convinsero i Romani a ribellarsi e a rovesciare la monarchia nel 509 a.C., abbandonando il re e chiudendogli in faccia le porte della città. La famiglia di Lucrezia guidò, quindi, la rivolta che costrinse alla fuga i Tarquini, che dovettero così abbandonare Roma per rifugiarsi in Etruria. Lucio Tarquinio Collatino, marito di Lucrezia, e Lucio Giunio Bruto vinsero le elezioni come primi due Consoli, supremi magistrati della neo Repubblica romana.

Leggenda - La leggenda narra che il sovrano esule si rivolse prima agli Etruschi di Veio e Tarquinia, poi a quelli di Chiusi, governati dal lucumone Porsenna, in entrambi i casi per chiedere un sostegno militare esterno e poter così rientrare a Roma. Entrambe le sue richieste furono accolte, ed in entrambi i casi il conflitto che ne risultò, alla fine, si risolse a favore di Roma, sostenuta da aiuti soprannaturali, come la voce che proclamò la vittoria dei Romani guidati da Lucio Giunio Bruto e Publio Valerio Publicola sugli etruschi di Veio e Tarquinia, o da singoli atti di valore dei Romani, come quelli di Orazio CocliteMuzio Scevola e Clelia, che convinsero Porsenna a levare l'assedio da Roma.

Contesto storico - Quando i Romani riuscirono a cacciare i Tarquini nel 509 a.C., furono favoriti dal fatto che la potenza etrusca era ormai in pieno declino nell'Italia meridionale. Basti ricordare che pochi anni prima (nel 524 a.C.), gli Etruschi erano stati battuti presso Cuma dalle forze greche poste sotto il comando dello stratega Aristodemo, segnando la fine del loro espansionismo e l'inizio del crollo della signoria etrusca a sud del Tevere. Ciò condusse le genti latine a ribellarsi, come dimostra la successiva battaglia di Aricia, nella quale i Latini, soccorsi da Aristodemo, ottennero una decisiva vittoria per la loro indipendenza, sconfiggendo le forze etrusche poste sotto il comando del figlio di Porsenna, Arunte. Roma approfittò della nuova situazione venutasi a creare.

Il significato storico che sta sotto l'elaborazione leggendaria della fondazione della repubblica riguarda due aspetti fondamentali per la storia militare e sociale romana: l'emancipazione politica dagli Etruschi e, soprattutto, l'esito del contrasto tra l'istituzione monarchica ed il ceto dei Patrizi; questi ultimi, preoccupati dalle iniziative politiche popolari sostenute dai re etruschi (come la riforma centuriata e l'imposizione fiscale "progressiva"), che sembravano condurre ad un sempre crescente peso della plebe, si assicurarono con la cacciata di Tarquinio il Superbo il controllo politico e sociale attraverso un istituto oligarchico.

Vi è da aggiungere che vi fu un'altra componente che favorì la cacciata da Roma degli Etruschi: l'alleanza con i Sabini. Questi ultimi, scendendo dai monti verso il Latium vetus, andarono ad insidiare il fianco etrusco. Questa collaborazione latino-sabina è confermata - secondo il De Francisci - non solo in base a quanto riferito da Livio (secondo il quale Attius Clausus con la gens Claudia ed i suoi clientes vennero ammessi nel territorio romano) ma anche dal fatto che Appio Erdonio (di chiara origine sabina) si impadronì del Campidoglio (nel 460 a.C.). In aggiunta a ciò, va tenuto presente che molte delle cariche più elevate di questi anni vennero occupate da gentes ssabine come i Valerii, i Claudii, i Postumii e gli Lucretii.

Il periodo immediatamente successivo alla cacciata dei Tarquini fu segnato da una crisi militare ed economica per l'Urbe: l'espansione territoriale guidata dai re fu seguita da una controffensiva dei popoli circostanti (Equi e Volsci), che ridimensionarono i confini di Roma, mentre l'emarginazione dei ceti plebei artigiani e mercantili, che sotto la monarchia avevano guidato la crescita economica della città, portarono ad una recessione economico-agricola dominata dai grandi proprietari terrieri.

I primi Consoli assunsero il ruolo del re con l'eccezione dell'alto sacerdozio nell'adorazione di Iuppiter Optimus Maximus nel grande tempio sul colle Capitolino. Per quel compito i Romani elessero un Rex sacrorum o "Re delle cose sacre". Fino alla fine della Repubblica, l'accusa di volersi dichiarare re, rimase una delle più gravi accuse a cui poteva incorrere un personaggio potente (ancora nel 44 a.C. gli assassini di Giulio Cesare sostennero di aver agito per prevenire la restaurazione di una monarchia esplicita).

I primi anni della Repubblica (509-496 a.C) - I primi anni della Repubblica furono caratterizzati dalla necessità di stabilizzare il nuovo ordine, difendendolo sia da nemici interni (coloro che venivano accusati di voler restaurare il regime monarchico), sia dai nemici esterni, che, contando sulla debolezza del nuovo regime, provarono a recuperare la propria indipendenza dallo Stato romano. Nel 507 a.C. il Tempio di Giove Ottimo Massimo, per secoli simbolo della potenza romana, fu dedicato al dio da uno dei primi consoli repubblicani, Marco Orazio Pulvillo, quasi ad avocare al nuovo stato un tempio voluto e realizzato dagli ultimi tre re di Roma.

In qualche modo, la difesa del nuovo ordine della Repubblica, da quello appena rovesciato della monarchia, fu un movimento storico che a Roma assunse caratteri di psicosi collettiva, considerando che lo stesso Publio Valerio (il futuro Publicola ovvero amico del popolo), dovette difendersi dall'accusa di voler farsi re, costretto poi ad abbattere la dimora che stava costruendo in cima al Velia e promulgando una legge che permetteva a tutti i cittadini romani di uccidere chiunque avesse tentato di farsi re.

Il corpo sociale era in fermento: all'ordine più tradizionalista, come quello legato alle famiglie patrizie, si contrapponeva il popolo romano (la plebe), in un movimento dialettico che sfociò anche nella violenza e che sarebbe emerso più chiaramente nel decennio successivo, con la prima secessione della plebe del 494 a.C. È di questo periodo l'introduzione nell'ordinamento romano della provocatio ad populum, che garantiva ad ogni cittadino che fosse stato condannato da un magistrato alla pena capitale, di appellarsi al popolo per trasformare la pena inflittagli, e la nomina di due questori da parte del popolo.

Dal punto di vista militare, dopo essersi garantita l'indipendenza dal potente vicino etrusco, Roma si trovò a dover ristabilire la propria autorità lungo i confini settentrionali con i Sabini, che sempre più spesso compivano scorrerie in territorio romano (nel 505 a.C. sull'Aniene e 504 a.C. nei pressi di Fidene), e verso i meridionali, dove la colonia di Pometia fu duramente punita per essere passata dalla parte degli Aurunci.

Che i Romani si sentissero accerchiati, lo si desume dai trionfi che furono accordati per vittorie forse anche di modeste dimensioni, ma ancor più dall'istituzione della figura del dittatore, carica che per la prima volta fu attribuita nel 501 a.C. a Tito Larcio, in previsione di una futura guerra contro una lega di città latine. È in queste condizioni che si sviluppò quella che potremmo definire una prima forma di "politica estera" dello stato romano: il divide et impera, teso a dividere gli avversari, grazie ad azioni diplomatiche, per poi arrivare allo scontro campale con un nemico indebolito nella propria consistenza numerica.  

Roma e i Latini (496-494 a.C) - Roma era rimasta esclusa dalla lega delle città latine limitrofe, forse anche in virtù dell'influenza della componente etrusca della città: la ricerca di nuove terre coltivabili e di vie di comunicazione contrappose presto l'Urbe agli altri centri latini.

Un nuovo equilibrio fu stabilito con il Foedus Cassianum (la data è incerta, ma non successiva al 493 a.C.), un trattato di pace stipulato tra Romani e Latini, che rimase in vigore fino al 338 a.C., conseguenza dello scontro tra le due parti, conclusosi con la Battaglia del lago Regillo, di fatto l'ultimo tentativo di Tarquinio il Superbo (e quindi della componente etrusca che a lui faceva riferimento) di rientrare nell'Urbe. Sebbene i Romani prevalsero sul campo, con il trattato Roma riconosceva alle città latine la loro autonomia ma si riservava il Supremo Comando in caso di guerra. L'alleanza aveva, perciò, uno scopo prettamente difensivo, in vista delle incombenti minacce degli Equi, dei Volsci e degli Aurunci.

Vicende politiche interne (494-487 a.C) - Intanto la città era teatro di violenti conflitti tra patrizi e plebei, conflitti che trovavano origine nella richiesta dei secondi di essere rappresentati nelle istituzioni della città (istituzioni che, dopo la caduta della monarchia, erano appannaggio esclusivo dei patrizi) e di non essere ridotti in schiavitù, in applicazione del Nexum, perché debitori a seguito di eventi bellici. In quel frangente l'Urbe riuscì a resistere alle forze esterne solo ritrovando l'accordo tra i due ordini (il dittatore Manio Valerio Massimo promise le riforme a guerra conclusa) i quali, compatti, con rapide ed efficaci azioni militari riuscirono nel 494 a.C. a respingere gli attacchi dei SabiniEqui e Volsci.

A guerra conclusa, poiché i patrizi non volevano concedere ai plebei quanto promesso, soprattutto a causa della forte opposizione a questa riforma dell'ala più oltranzista dei patrizi guidata da Gneo Marcio, conosciuto come Coriolano, questi per la prima volta nella storia romana adottarono come forma di lotta politica la secessio plebis, ovverosia abbandonarono la città, ritirandosi sul monte Sacro appena fuori le mura cittadine, rifiutandosi di rispondere alla chiamata alle armi dei Consoli.

La prima secessione dei plebei si concluse quando questi videro accolte alcune delle loro richieste, tra le quali la più importante era senza dubbio quella dell'istituzione nel 494 a.C. della figura del tribuno della plebe; peraltro il ricomporsi della frattura tra i due ordini non comportò il ristabilirsi della concordia interna.  

Primi scontri con Equi, Volsci ed Ernici (493-480 a.C) - Le vicende di Coriolano, esiliato da Roma a seguito delle accuse mossegli dai tribuni, condottiero dei Volsci contro la sua città natale fin sotto le mura cittadine, ritiratosi solo grazie all'intervento delle donne romane (488 a.C.), sia che siano state reali, o il frutto di una successiva rielaborazione storica, riportano di quale intensità fossero le tensioni sociali interne alla città, che si aggiungevano a quelle esterne connesse alla dura guerra contro i Volsci, che caratterizzò quel periodo.

Nel periodo successivo, dal 487 a.C. al 480 a.C., Roma tornò ad essere impegnata in una serie di scontri con le popolazioni vicine di VolsciErniciEqui, oltre agli Etruschi della città di Veio, quasi tutti dall'esito favorevole, anche se nel 484 a.C. i Romani subirono una pesante sconfitta in battaglia da parte dei Volsci davanti alle porte di Anzio, e la vittoria dei romani sui vejenti nel 480 a.C. costò loro pesantissime perdite, tra le quali quella del console Gneo Manlio Cincinnato.

Oltre ai tradizionali motivi di rivalità, le città limitrofe trovarono motivazioni per le loro incursioni nell'evidente debolezza di Roma, attraversata in quegli anni da feroci lotte intestine, legate alla questione della legge agraria, voluta dal console Spurio Cassio Vecellino nel 486 a.C., che per questo fu condannato a morte l'anno successivo per accuse mossegli dai patrizi. Nonostante vari episodi di insubordinazione e renitenza alla leva, in tutto questo periodo, patrizi e plebei si ricompattarono nei momenti di maggiore pericolo, riuscendo sempre a far fronte al pericolo esterno.

A questo periodo, risalgono la consacrazione del tempio dedicato ai Dioscuri (484 a.C.) e l'episodio della condanna a morte della vestale Oppia, sepolta viva per esser venuta meno al voto di castità.

Nuovi conflitti con l'etrusca Veio - Tra il 483 a.C. e il 474 a.C. Roma dovette combattere duramente contro la città di Veio, che dopo aver annientato l'esercito privato della gens Fabia nella battaglia del Cremera del 477 a.C., era arrivata addirittura a costruire opere fortificate sul Gianicolo, appena fuori dalle mura della città. 

La probabilità che un conflitto bellico di tale portata sia stato affidato ad una sola gens, metterebbe in serio dubbio la cronologia dell'ordinamento censitario serviano: slitterebbe quindi di oltre un secolo l'origine cronologica di un ordinamento in classi di censo quale quello di Roma sotto Servio Tullio. Questa prima fase del conflitto tra le due città, si risolse con una tregua quarantennale concessa dai romani ai veienti nel 474 a.C. in cambio di frumento e denaro.

Sia durante lo scontro con gli Etruschi, che nel periodo immediatamente successivo, non mancarono occasioni di scontro con le popolazioni vicine dei Volsci, degli Equi e dei Sabini, che quando non si risolsero con un nulla di fatto, furono tutti favorevoli ai romani, tranne in una occasione, nel 471 a.C., quando i Volsci sconfissero duramente i romani, anche grazie alle divisioni esistenti tra Patrizi e Plebei.

Divisioni, le cui motivazioni in parte erano state ereditate dai periodi precedenti (come la legge agraria), ed in parte erano frutto di nuove rivendicazioni da parte dei plebei, come quelle legate alla Lex Publilia Voleronis, per la quale i Tribuni dovevano essere eletti nei comizi tributi, cui solo i plebei avevano diritto a partecipare.

Dopo aver respinto l'offensiva delle popolazioni vicine, i Romani si videro ostacolata l'espansione a nord dalla ricca e fiorente città etrusca di Veio, che le contendeva il dominio sul Tevere. Iniziata nel 477 a.C. (battaglia del Cremera), la guerra si conclude nel 396 a.C. con la distruzione della città etrusca ad opera di Furio Camillo, dopo un assedio di dieci anni. A questo punto, l'espansione romana nel Centro Italia era, però, ancora ostacolata dalla migrazione di Celti e Sanniti.

Tra i bellicosi popoli vicini e le tensioni interne - Il periodo che corre tra il 470 a.C. e il 451 a.C., è caratterizzato dalle campagne contro le popolazioni vicine, colpevoli di sconfinare e razziare i territori romani o quelli degli alleati, e le crescenti tensioni interne, tra Plebe e Senato, che ruotavano intorno alla Lex Terentilia, con cui i tribuni provarono a limitare i poteri dei consoli, e quindi quello dei Patrizi, ma che non arrivò mai ad essere votata.  

Durante il ventennio i più strenui oppositori esterni furono i Volsci e gli Equi, più abili come razziatori e guastatori (almeno così vengono descritti da Tito Livio), che come combattenti, e per questo regolarmente sconfitti negli scontri campali dai romani, anche quando questi si trovano in inferiorità numerica. La città di Anzio viene presa nel 469 a.C., e nel 462 a.C. i Volsci subiscono ingenti perdite ad opera dei romani.  

Sabini si limitarono a qualche scorribanda, mentre gli Ernici sono riportati tra gli alleati, cui Roma presta aiuto, quando questi subiscono le razzie da parte degli Equi e dei Volsci. La città di Tusculum si distingue per essere la più fedele tra gli alleati dei romani, intervenendo nella riconquista del Campidoglio, occupato da Appio Erdonio.

Nel 466 a.C. viene consacrato il tempio di Giove Fidus sul Quirinale, voluto da Tarquinio il Superbo, mentre il censimento del 465 a.C. conta 104.714 cittadini, esclusi orfani e vedove, numero che dovette essere sicuramente ridimensionato dalla pestilenza che colpì Roma nel 463 a.C. Il decimo censimento Ab Urbe condita del 459 a.C. comunque conta 117.319 abitanti.

Intanto in città le tensioni tra Patrizi e Plebei, impegnati nella controversia per l'approvazione della Lex Terentilia, che tra le altre cose provoca l'esilio di Cesone Quinzio, figlio di Cincinnato, raggiungono l'apice nel 460 a.C., quando i dissidi interni, rendono possibile che Appio Erdonio, e i suoi seguaci, prendano il Campidoglio, riconquistato a fatica dalle truppe consolari di Publio Valerio Publicola, ucciso nei combattimenti per riprendere la rocca.

Tra le due fazioni cresce la consapevolezza che la situazione di stallo tra i due ordini sia pericolosa per la stabilità di Roma, per cui, dopo aver inviato una commissione, formata da Spurio Postumio AlboAulo Manlio e Sulpicio Camerino, ad Atene, per trascrivere le leggi di Solone, e quindi poterle studiare e riformare le istituzioni romane, dopo molte insistenze da parte dei tribuni della plebe, patrizi e plebei concordarono per la costituzione del primo decemvirato.  

Tra gli episodi leggendari spicca la prima dittatura di Cincinnato nel 456 a.C., che sconfitti gli Equi nell'ennesima battaglia del monte Algido, torna ai campi dopo appena 16 giorni di dittatura.

Il decemvirato, istituito come comitato di saggi per il rinnovamento della Repubblica, compito che portò a termine con l'emanazione delle Leggi delle XII tavole, si sviluppò come tentativo di istituire un governo autoritario, che escludesse i plebei da qualsiasi magistratura e decisione nel governo della città. A questo tentativo i plebei risposero con la minaccia della secessione (in questi eventi si inserisce la vicenda di Verginia) e alla fine ottennero il ripristino di tutte le magistrature ordinarie, nonché l'esilio per i decemviri e la messa in stato di accusa di Appio Claudio e Spurio Oppio Cornicino, i più odiati tra i decemviri.

Ristabilite le prerogative della plebe, e dei suoi campioni i tribuni della plebe, la città vive con relativa tranquillità la dialettica tra le due classi sociali, tanto che il breve tentativo dei tribuni consolari, rimasti in carica per soli tre mesi nel 444 a.C., non porta gravi conseguenze per la stabilità interna della città.

Nel 443 a.C. viene istituita la carica del censore, preposto ai censimenti, per liberare i consoli di un'attività che non riuscivano a portare a termine, se non saltuariamente.

Il periodo tra il 440 a.C. e il 406 a.C. internamente fu caratterizzato dalle tensioni tra plebei e patrizi, reso dall'alternanza di consoli e tribuni consolari alla guida della città (anche se di fatto furono sempre eletti patrizi alle supreme magistrature), ed esternamente dal rinvigorirsi delle spinte anti-romane nelle popolazioni vicine, che furono affrontate dall'urbe con la nomina di un dittatore (ben cinque nel periodo), a significare di come fossero considerate serie queste minacce dai romani. Comunque nel 420 a.C. i plebei ottennero di poter accedere alla carica di questore, anche se si deve aspettare il 409 a.C., perché tre plebei fossero eletti alla carica, fino a quel momento ad appannaggio dei patrizi.

A nord Roma dovette fronteggiare la pressione di Veio, sconfitta due volte davanti alle mura della città alleata di Fidene, nel 437 a.C. e nel 426 a.C. (terza dittatura di Mamerco Emilio Mamercino), risolvendo la crisi con la distruzione di Fidene e una tregua ventennale con gli etruschi, mentre a sud continua a farsi sentire la pressione dei mai domati Volsci, capaci di impegnare a fondo i romani nel 423 a.C., malamente condotti dal console Gaio Sempronio Atratino, che per questo fu condannato a pagare una multa di 15.000 assi.

La supremazia dei romani sui Volsci non fu comunque mai in dubbio, come dimostrano le vittorie romane ad Anzio nel 408 a.C. e ad Anxur nel 406 a.C., conquistata e saccheggiata dai romani. In questo stesso anno, scaduta la tregua, fu nuovamente dichiarata guerra (la terza) alla città etrusca di Veio.  

La conquista di Veio - Nel 405 a.C., iniziò il decennale assedio di Veio, dopo che l'anno precedente era stata dichiarata guerra alla potente città etrusca. Da parte loro i Veienti non riuscirono a trovare alleati nelle altre città etrusche.

Il conflitto ebbe una svolta quando nel 403 a.C. i romani iniziarono a costruire fortini per controllare il territorio veiente, e terrapieni e macchine d'assedio (vinea, torri e testuggini) per stringere l'assedio alla città. La messa in opera di queste opere, comportò la necessità di mantenere i soldati in armi, anche durante l'autunno e l'inverno, quando tradizionalmente i cittadini-soldati tornavano in città per attendere alle proprie cose, per evitare che le stesse, lasciate incustodite, fossero disfatte o distrutte dai nemici.

Nonostante la decisa opposizione dei Tribuni della plebe, si giunse alla straordinaria decisione di mantenere l'esercito in armi ad assediare Veio finché questa non sarebbe caduta; ai soldati in armi la città avrebbe garantito il soldo grazie ad una nuova imposizione straordinaria.

Veio dal canto suo trovò l'appoggio dei Capenati e dei Falisci, nel 402 a.C. e nel 399 a.C., appoggio che inizialmente non riuscì ad allentare la pressione dell'assedio romano.

Nel 396 a.C. però i Capenati e i Falisci riuscirono a sorprendere i romani in un'imboscata, dove insieme a molti soldati, trovò la morte anche Gneo Genucio Augurino, uno dei 6 tribuni consolari eletti per quell'anno; come per altre situazioni di crisi Roma reagì nominando un dittatore, che questa volta fu trovato nella persona di Marco Furio Camillo.

Furio Camillo, dopo essersi coperto le spalle sbaragliando Capenati e Falisci, intensificò l'assedio di Veio, iniziando anche la costruzione di una galleria sotterranea, che arrivava fin sotto la cittadella di Veio. Completata l'opera, il dittatore attaccò in forze e in più punti le mura della città, per dissimulare la presenza di soldati nella galleria sotterranea.

Veio fu conquistata, con grande bottino per i romani, che con questa vittoria posero le basi della propria supremazia sull'altra sponda del Tevere, fino ad allora controllata da popolazioni etrusche. Ma proprio la questione della suddivisione del bottino, così ingente come mai si era visto a Roma, da dividere tra soldati, cittadini, erario e templi, avrebbe portato ulteriori divisioni all'interno della città.

Durante i 10 anni di assedio, a Roma non mancarono i consueti attacchi dei Volsci, che tentavano di riconquistare Anxur e degli Equi, che però furono facilmente contrastati dalle più organizzate legioni romane.

L'invasione celtica - La caduta di Veio aveva comportato un riequilibrio degli assetti politici delle altre capitali etrusche e delle loro tradizionali tensioni interne: l'ostilità verso Veio era malamente adombrata dalla neutralità manifestata dalle altre città della dodecapoli etrusca gravitante intorno al Fanum Voltumnae: in almeno un caso, questa ostilità era apertamente sfociata nell'aperta alleanza offerta a Roma da Caere (Cerveteri). Un altro effetto fu l'accresciuta consapevolezza delle potenzialità, anche militari, della res publica.

Contemporaneamente, verso la fine del V secolo a.C., numerose popolazioni celtiche cominciarono a migrare dall'Europa Settentrionale (a est del Reno ed a nord del Danubio) per insediarsi nei territori dell'attuale FranciaSpagna e Gran Bretagna. Attorno al 400 a.C., infatti, alcune di queste popolazioni raggiunsero l'Italia Settentrionale. E così a minare il clima di fiducia e a mettere in allarme Roma furono proprio i Celti, della tribù dei Senoni, i quali attaccarono la città etrusca di Clusium, non molto distante dalla sfera d'influenza di Roma. Gli abitanti di Chiusi, sopraffatti dalla forza dei nemici, superiori in numero e per ferocia, chiesero aiuto a Roma, che rispose all'appello. Così, quasi senza volerlo, i Romani si ritrovarono ad essere il principale obiettivo di questo popolo calato dal Nord.

I Romani li fronteggiarono in una battaglia campale presso il fiume Allia variamente collocata tra il 390 e il 386 a.C. I Galli, guidati dal condottiero Brenno, sconfissero un'armata romana di circa 15.000 soldati e incalzarono i fuggitivi fin dentro la stessa città, che fu costretta a subire una parziale occupazione e un umiliante sacco, prima che gli occupanti fossero scacciati o, secondo altre fonti, convinti ad andarsene dietro pagamento di un riscatto.

Roma resiste - L'episodio del Sacco di Roma ebbe l'effetto di indebolire Roma e rivitalizzare la speranza dei popoli confinanti di riuscire ad intaccare la potenza romana.

Nel decennio successivo all'invasione dei Senoni Roma dovette combattere per ribadire la propria superiorità sulle popolazioni confinanti, non solo quelle tradizionalmente nemiche come Volsci, Equi ed Etruschi, ma anche su quelle ritenute alleate, come i Tuscolani, che evitarono la punizione di Roma solo aprendo completamente la città alle truppe condotte da Furio Camillo e ottenendo il perdono dal Senato di Roma. Anche i Prenestini, nel 380 a.C., provarono ad uscire dall'orbita romana, ma furono duramente sconfitti dai romani. L'effetto principale della sconfitta subita dai Galli fu quello di affidare la conduzione delle guerre a dei dittatori, o al tribuno consolare più esperto, come sempre accadde quando tra questi era eletto Furio Camillo.

Le guerre con le popolazioni confinanti non impedirono però che a Roma si sviluppasse una forte dialettica interna, tra Plebei e Patrizi; in questo periodo si ripresentò con forza la questione dei romani tratti in schiavitù per debiti, visto che a soffrirne maggiormente erano i piccoli proprietari terrieri plebei che, a causa delle vicende belliche, cui pure partecipavano, finivano in schiavitù perché non riuscivano ad onorare i debiti contratti.

Il conflitto tra patrizi e plebei portò ad una situazione di stallo tra il 375 a.C. e il 371 a.C., quando a Roma non furono eletti i tribuni consolari, a causa dei veti posti dai tribuni della plebe Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, come reazione alle politiche ostruzionistiche dei patrizi, contrari alle loro proposte di legge, volte ad equilibrare i rapporti di forza tra i due ordini.

Il durissimo conflitto tra plebei e patrizi, trovò un momento di sintesi, con la promulgazione, nel 367 a.C., delle Leges Liciniae Sextiae, che, tra le altre cose, permettevano l'accesso al consolato dei plebei.

Nel periodo successivo, e fino al 350 a.C., Roma condusse con successo una serie di campagne militari contro gli Ernici, contro la città etrusca di Tarquinia, cui in diverse occasioni si allearono i Falisci, e successivamente contro i Galli, cui si allearono, in funzione anti-romana, i tiburtini (mentre Ernici e Latini si allearono a Roma).

Durante questo periodo, nonostante la Leges Liciniae Sextiae, i patrizi tentarono, con alterne fortune, di ottenere l'elezioni di candidati patrizi per entrambe le cariche consolari, non esitando a ricorrere all'elezione di un dittatore, unicamente allo scopo di controllare l'elezione consolare, e non, come normalmente accadeva, per far fronte ad un grave pericolo militare.

Dopo gli accordi stipulati con Etruschi e Latini, Roma poté avviare, nella seconda metà del IV secolo a.C., un intenso processo di espansione verso il Meridione della penisola italica. Nel 348 a.C. rinnovò il trattato con Cartagine, già stipulato al tempo del passaggio dalla monarchia alla repubblica, attorno al 509 a.C.

DALLE GUERRE SANNITICHE ALLA CONQUISTA DELLA MAGNA GRECIA (343-272 A.C.)

Dal Latium Vetus alle guerre sannitiche (343-290 a.C.) - Le Guerre sannitiche sono una serie di 3 conflitti combattuti nell'arco di 67 anni dalla giovane Repubblica romana contro la popolazione italica dei sanniti e numerosi loro alleati tra il IV ed il III secolo a.C.. Le guerre, terminate tutte con la vittoria dei romani, scaturirono dalla politica espansionistica dei due popoli che a quell'epoca si equivalevano militarmente e combattevano per conquistare l'egemonia nell'Italia meridionale oltre che per la conquista del porto magno-greco di Napoli. 

All'epoca dei fatti i romani dominavano già su Lazio, Campania settentrionale, sulla città etrusca di Veio ed avevano stretto alleanze con diverse altre città e popolazioni minori. I sanniti dal canto loro erano padroni di quasi tutto il resto della Campania e cercavano di espandersi ulteriormente lungo la costa a discapito delle colonie della Magna Grecia e verso la Lucania nell'entroterra.

Romani e sanniti quando erano venuti in contatto per la prima volta avevano comunque preferito stipulare un patto di non belligeranza così da potersi espandere tranquillamente in altre direzioni, ma il confronto era solo rimandato.

La grande importanza che i romani e i loro storiografi sempre diedero a questa lotta per la supremazia nell'Italia meridionale è sottolineata dal gran numero di episodi leggendari o colorati dalla storiografia, come La subjugatio delle Forche Caudine, la Devotio del Console Decio Mure nella terza guerra, e forse di suo padre nella prima, la Legio Linteata.

Prima guerra sannitica (343-341 a.C.) - Il casus belli che fece scoppiare la prima guerra tra sanniti e romani fu offerto dalla città di Capua, fiorente centro della Magna Grecia sulla costa campana e, quindi, nelle mire dei sanniti. Quando questi la posero sotto assedio, la città di Capua mandò un'ambasceria a Roma chiedendone la protezione. Il Senato romano però si tirò indietro a causa di un trattato di non belligeranza stipulato in precedenza proprio con i sanniti, al che gli ambasciatori tentarono l'ultima carta che avevano per ottenere soccorso: consegnarono la loro città nelle mani di Roma. Il Senato accettò, ovviamente, e mandò ambasciatori ai sanniti per informarli della mutata situazione e per chiedere che l'assedio fosse levato. I sanniti, però, non accettarono il nuovo stato di cose e così a Roma non restò che dichiarare loro guerra. Era il 343 a.C..

Contravvenendo alle Leggi Licinie Sestie da poco approvate, a dirigere la guerra il Senato romano nominò due consoli patrizi: in Campania fu inviato Marco Valerio Corvo, nel Sannio Aulo Cornelio Cosso.

Non sono ben note i luoghi ed il numero delle battaglie combattute, comunque, per quanto è dato sapere, le cose si misero subito bene per l'esercito di Valerio, che sconfisse i sanniti abbastanza facilmente, mentre Cornelio Cosso, impantanato tra le strette gole del Sannio e vittima della guerriglia e delle imboscate, necessitò di rinforzi che gli furono portati dal tribuno militare plebeo Publio Decio Mure.

La guerra si concluse nel 341 a.C. con la battaglia di Suessola, presso Acerra e Capua, a seguito della quale fu firmato un nuovo trattato di pace niente affatto gravoso per i Sanniti perché il Senato era molto preoccupato dalla recrudescenza degli scontri sociali nella stessa Roma.  

Seconda guerra sannitica (327-304 a.C.) - Casus belli della seconda guerra sannitica furono una serie di reciproci atti ostili. Cominciarono i romani fondando nel 328 una colonia a Fregellae presso l'odierna Ceprano, sulla riva orientale del fiume Liri, cioè in un territorio che i sanniti consideravano propria esclusiva sfera di influenza. L'anno successivo scoppiò un conflitto nella città di Napoli: la parte osca della città si era infatti alleata con i Sanniti mentre quella greca con i Romani. La città venne assediata dai Sanniti e i Romani accorsi in aiuto degli alleati greco-napoletani sconfissero i Sanniti e stipularono con la città un foedus aequuum (trattato di alleanza paritaria) immettendo il territorio napoletano nella loro area di influenza. In questa occasione i sanniti ottennero un concreto aiuto da altri popoli che si sentivano minacciati dall'espansionismo romano, soprattutto etruschi, umbri, sabini e lucani.

La prima fase della guerra fu favorevole al fronte sannitico e si consluse con una sonora sconfitta del grosso dell'esercito romano alle Forche Caudine (dal latino Furculae Caudinae) nel 321 a.C.: mentre l'esercito romano si stava spostando da Capua a Benevento, spie sannite travestite da pastori li indirizzarono verso una stretta gola montuosa dove furono presi facilmente in trappola dai nemici capeggiati da Gaio Ponzio Telesino. Alla fine i sanniti lasciarono andare l'esercito romano ma imposero gravose condizioni di resa; tra queste la subjugatio, il passaggio sotto il giogo: due lance confitte in terra, una sospesa orizzontalmente a queste ultime: lo sconfitto, nudo, doveva passarvi sotto, inchinandosi, in presenza dell'esercito nemico.

Lo storico Tito Livio riferisce che ritornati a Roma, Tito Veturio e Spurio Postumio riferirono in Senato, che avrebbe deciso di rifiutare le condizione di resa, destituto i due consoli e nominato al loro posto il patrizio Lucio Papirio Cursore ed il plebeo Quinto Publilo Filone. Gli storici moderni sono d'accordo nel ritenere che il Senato, al contrario, si attenne ai termini della resa - fra l'altro, la consegna delle colonie di Fregellae e Cales - fino al 316 a.C..

Alla ripresa delle ostilità seguirono anni di dura guerra con i sanniti che riuscirono ad espandersi non solo in Campania ma anche nel Lazio. Qui infatti potevano contare sull'alleanza della Lega Ernica, o almeno sulla parte di essa che si era ribellata a Roma. Nel 306 a.C. la lega capitolò ed Anagni(vera guida della rivolta) venne assoggettata; diversa sorte toccò invece ad Alatri e veroli, rimaste fedeli a Roma. L'esercito romano, forte di queste vittorie, si riebbe e riuscì ad avere la meglio nel 304 a.C.. con la vittoria a Boviano che consentì loro di fondare diverse colonie anche nel sud della Campania ed addirittura una a Luceria oggi Lucera nell'attuale Puglia quasi a voler accerchiare i loro indomiti nemici.  

Roma tra la seconda e la terza guerra sannitica - Le guerre sannitiche determinarono un forte incremento del fenomeno dell'inurbazione; i cittadini romani infatti restarono mobilitati per lunghi anni, ritrovando spesso al loro ritorno i loro campi impoveriti dal lungo abbandono o addirittura devastati dalla guerra. A molti non rimaneva altra scelta che vendere il campo, fortemente deprezzato, a qualche latifondista e partire per Roma in cerca di opportunità, o di un Patrono che accettasse di riceverlo come Cliens (Cliente). Cominciò così la formazione di una massa di cittadini che non aveva alcun mezzo di sussistenza ma che poteva servire per ottenere risultati politici; inoltre la popolazione residente aumentò di molto rendendo necessarie importanti opere pubbliche la cui portata esemplifica la potenza raggiunta dallo stato romano. Nel 312 a.C. il censore Appius Claudius Caecus ordinò la costruzione di:

- un acquedotto, aqua Appia, per dissetare la città di Roma raccogliendo acqua da molto lontano. Da questo si deduce che l'aumento della popolazione cittadina aveva reso insufficienti le sorgenti locali. (la successiva costruzione nel 272 a.C. dell'Anio Vetus, un ulteriore acquedotto ordinato dal censore Manius Curius Dentatus, conferma la crescita della popolazione urbana durante tutto il periodo di espansionismo romano in Italia).

- una lunga strada che da Roma portava Capua in Campania che poi sarebbe stata battezzata via Appia. Il suo scopo originale era di velocizzare lo spostamento delle truppe verso quei turbolenti territori e lascia intendere che i romani si attendevano una lunga guerra per sottometterli.

Sempre a partire dal 312, inoltre, i romani si impegnarono contro altre città e confederazioni, il che dimostra la capacità di mobilitazione raggiunta:

- nel 311 avanzarono su per la Valle tiberina contro le città etrusche di Perusia, Cortona ed Arretium, tre anni dopo avrebbero affrontato anche Volsinii. Questi conflitti si conclusero con la firma di armistizi della durata da uno a cinquanta anni.

- nel 299 fondarono una colonia a Narnia, sull'alto corso del Tevere ad 80 km da Roma.

- tra il 306 ed il 304 a.C sconfissero gli Ernici e gli Equi che abitavano le colline a sudest di Roma. Si racconta che queste campagne di conquista furono molto aspre e terminarono con la distruzione di parecchie città collinari degli Aequi ed il massacro delle popolazioni.

- tra il 304 ed il 302 a.C. altre popolazioni vicine come i Marsi, i Paeligni, i Marrucini, i Frentani ed i Vestini preferirono sottomettersi a Roma

Oltre a ciò furono fondate numerose colonie.  

Terza guerra sannitica (298-290 a.C.) - Questa volta sembra che le ostilità siano cominciate a seguito delle attività romane in Lucania che indusse sanniti, etruschi ed umbri a coalizzarsi per contrastarla verso la fine del 297 a.C.. A loro si unirono anche i galli Senoni autori del sacco di Roma nel 390 a.C. e che poi si erano stanziati nel territorio poi denominato dai romani ager Gallicus compreso tra i fiumi Uso (Rimini) e l’Esino.

La resa dei conti ci fu con la Battaglia di Sentino nella pianura umbra nel 295 a.C. dove i romani vennero inizialmente sorpresi dai Galli che si gettarono nella mischia con carri trainati da cavalli carichi di arcieri che scagliavano frecce. Il fracasso dei carri spaventò i cavalli romani, i quali batterono in ritirata. il Console plebeo Publio Decio Mure, figlio del tribuno militare Decio Mure che aveva combattuto nella Prima guerra Sannitica compì il rito della devotio consacrandosi a Marte ed agli Dei Inferi, scagliandosi contro i carri e perdendo la vita nella mischia. Il gesto eroico e ancor più la morte del console, che indicava l'accettazione del sacrificio da parte degli Dei, rianimò le schiere romane che riportarono alla fine una completa vittoria. Il vero eroe di Sentinum fu però probabilmente l'altro Console, Quinto Fabio Massimo Rulliano. È degno di nota che il gesto di Decio Mure, per un fenomeno di duplicazione, venne più tardi attribuito anche al padre e al figlio del Console morto a Sentinum.

Dopo questa battaglia il sistema di alleanze tra i sanniti e gli altri italici andava in frantumi, costringendo gli sconfitti alla difensiva; I sanniti rinforzarono le loro piazzeforti, rinserrarono i ranghi, forse crearono una speciale task force specializzata in attacchi a largo raggio, veloce e micidiale, la legio linteata che divenne l'unità d'elite sannita. I romani si dedicarono all'annientamento delle popolazioni minori cercando, non sempre riuscendovi, anzi rischiando talvolta gravi sconfitte, di evitare che i Sanniti spezzassero il cerchio delle guarnigioni romane.

Nel 293 i consoli Papirio Cursore e Spurio Carvilio Massimo condussero i loro eserciti, su rotte parallele, partendo dalla media valle del Liri mantenendosi a circa 30 km di distanza e tenendosi in contatto tramite messaggeri: Papirio Cursore dalla Campania settentrionale puntò su Aquilonia mentre Spurio Carvilio Massimo si dirigeva su Cominium. Il piano era di attaccare contemporaneamente e con la massima durezza; questa doveva essere una guerra di sterminio, la "soluzione finale" del problema dei Sanniti. I combattimenti furono durissimi e costarono oltre 50.000 morti, ma a sera i comandanti romani entravano vittoriosi nelle rovine delle due fortezze; da Aquilonia, dove aveva combattuto la Legio Linteata alcuni superstiti si rifugiarono a Bovianum da dove riorganizzatisi condussero una resistenza disperata che durò fino al 290, con l'ultima, durissima campagna condotta dai consoli Manio Curio Dentato e P. Cornelio Rufino. L'anno precedente i consoli Fabio Gurgite e Postumio Megello avevano conquistato la roccaforte di Venusia, ora Venosa, in cui subito fu dedotta una grande colonia.

I patti della Resa non sono noti: Livi dice solo che "il trattato fu rinnovato" ma sicuramente non possiamo aspettarci che ai Sanniti fossero lasciate le favorevoli condizioni dell'ultimo trattato; essi però, sia pure ridotti di numero, in un territorio rimpicciolito e stretto da ogni parte da colonie romane, probabilmente conservavano una certa indipendenza e la libertà di erigersi in lega di Popolazioni.

Con la vittoria sui sanniti i Romani conquistarono una posizione egemonica in tutto il centro sud, imponevano alle altre, ancora forti popolazioni italiche, le loro decisioni in politica estera, le riducevano a fornire contingenti di truppe e a finanziare campagne militari; Roma forgiava lo strumento che avrebbe vibrato contro Cartagine.  

Roma e la Magna Grecia fino a Pirro (280-272 a.C.) - Le Guerre pirriche furono un conflitto che vide tra il 280 a.C. ed il 275 a.C. la Repubblica romana affrontare l'esercito del re epirota, Pirro, a capo di una coalizione greco-italica. Ebbero luogo nell'Italia meridionale e coinvolsero anche le popolazioni italiche del posto. Generata dalla reazione di Taranto, città della Magna Grecia, all'espansionismo romano, la guerra coinvolse presto anche la Sicilia greca e Cartagine. Dopo alterne vicende, i Romani riuscirono alla fine a battere Pirro, costretto a lasciare definitivamente l'Italia; l'esito fu l'egemonia romana sull'intera Magna Grecia.

Dopo il superamento del pericolo costituito dalla presenza delle popolazioni galliche a Nord, temporaneamente respinte grazie alla battaglia dell'Aniene, le vittorie su Volsci ed Equi e gli accordi stipulati con Etruschi e Latini, Roma poté avviare, nella seconda metà del IV secolo a.C., un intenso processo di espansione verso il Meridione della penisola italica

La vittoria romana nelle tre guerre sannitiche (343-341326-304298-290 a.C.) e nella guerra latina (340 a.C.-338 a.C.) assicurò dunque all'Urbe il controllo di buona parte dell'Italia centro-meridionale; le strategie politiche e militari attuate da Roma - quali la fondazione di colonie di diritto latino, la deduzione di colonie romane e la costruzione della via Appia - testimoniano la potenza di tale spinta espansionistica verso Sud. L'interesse per il dominio territoriale non era infatti una semplice prerogativa di alcune famiglie aristocratiche, tra cui la gens Claudia, ma investiva tutta la scena politica romana, e a esso aderiva l'intero senato assieme alla plebe. A sollecitare l'avanzata verso Sud erano infatti interessi di tipo economico e culturale; a frenarla contribuiva invece la presenza di una civiltà, quella della Magna Grecia, ad alto livello di organizzazione, militarmente, politicamente e culturalmente capace di resistere all'espansione romana.

La strategia romana si basava dunque sulla capacità di rompere i legami di solidarietà tra popoli diversi o tra città, in modo tale da indebolire le capacità di resistenza dei nemici: a tale fine puntavano le deduzioni coloniarie in terra straniera (Luceria nel 315 o 314; Venusia nel 291 a.C.) e l'avanzamento verso Sud della via Appia. A tali processi, che non erano direttamente rivolti verso i centri della Magna Grecia, aveva contribuito in particolare l'opera di Appio Claudio Cieco, che, caratterizzato da una forte sensibilità verso la società greca, fu tra i primi ad intendere la fusione tra di essa e il mondo romano come un'occasione di profondo arricchimento per l'Urbe. Egli si era reso, in particolare, interprete delle esigenze della plebe urbana, interessata a intessere rapporti commerciali con i mercanti greci e oschi.

Durante e subito dopo le Guerre sannitiche, Roma mantenne un atteggiamento ambiguo nei confronti dei popoli italici più meridionali, i Lucani, che ora appoggiò ora osteggiò secondo le convenienze del momento. Intorno al 303 a.C. siglò un trattato con i Lucani, incoraggiandone le aspirazioni contro Taranto, salvo accordarsi anche con la stessa città greca e sostenerne indirettamente la lotta contro gli Italici. Il doppio gioco era motivato dalla volontà di includere comunque i Lucani nella propria rete diplomatica, in quel momento tutta tesa a piegare i Sanniti, ma senza che veri interessi comuni propiziassero legami più forti. Rispetto all'ordinamento che Roma stava dando alla Penisola, l'assetto dei territori occupati dai Lucani rimase in uno stato fluido, basato su semplici alleanze, fino alle guerre puniche.

Non è possibile determinare con precisione quali fossero i rapporti commerciali che univano Roma con i centri della Magna Grecia, ma risulta probabile una certa compartecipazione di interessi commerciali tra l'Urbe e le città greche della Campania, testimoniata dall'emissione, a partire dal 320 a.C., di monete romano-campane. Non è tuttavia chiaro se tali intese commerciali siano state il fattore o il prodotto delle guerre sannitiche e dell'espansione romana verso Meridione, e non è dunque possibile determinare quale sia stato l'effettivo peso dei negotiatores nella politica espansionistica, almeno fino alla seconda metà del III secolo a.C. A determinare la necessità di un'espansione territoriale verso Sud erano, però, anche le esigenze della plebe rurale, che richiedeva nuove terre coltivabili che l'espansione nell'Italia centrale e settentrionale non era bastata a procurare.

Lo sviluppo economico che interessò l'Urbe tra IV e III secolo a.C. portò, comunque, ad un progressivo avvicinamento di Roma all'area magnogreca, ed ebbe, dunque, anche pesanti ripercussioni sugli aspetti istituzionali, culturali e sociali della vita nell'Urbe. Il contesto culturale romano fu fortemente influenzato dalla penetrazione della filosofia pitagorica, presto accettata dalle élite aristocratiche, e dal contatto con la storiografia greca, che modificò profondamente la produzione storiografica romana.

Contemporaneamente, lo sviluppo economico favorì l'elevazione politica e sociale di una parte della classe plebea e portò alla scomparsa o all'attenuazione delle antiche forme di subordinazione sociale, come la schiavitù per debiti, garantendo dunque una maggiore mobilità sociale che causò la nascita del proletariato urbano: essa comportò a sua volta un forte aumento della popolazione di Roma, favorì la costruzione di nuove strutture nella città e modificò profondamente gli equilibri sociali.

Al periodo tra il IV secolo e il III secolo a.C. risalgono infine alcuni mutamenti nelle istituzioni militari: al tradizionale schieramento oplitico-falangitico basato sulla centuria, si sostituì l'ordinamento manipolare, che rendeva più agile e articolato l'impiego tattico della legione romana.

Contemporaneamente, alla suddivisione delle milizie secondo la classe di appartenenza, prevista dall'ordinamento serviano, si sostituì quella secondo il criterio dell'anzianità, e la base del reclutamento fu allargata, per la prima volta tra il 281 e il 280 a.C., anche ai proletari.

A partire dalla seconda metà del IV secolo a.C., le città della Magna Grecia cominciarono lentamente a tramontare sotto i continui attacchi delle popolazioni sabelliche di Bruzi e Lucani.

Le città più meridionali, tra cui Taranto era la più importante grazie al commercio con le popolazioni dell'entroterra e la Grecia stessa, furono più volte costrette a chiedere soccorso a condottieri provenienti dalla madrepatria greca, come Archidamo III di Sparta negli anni 342-338 a.C. o Alessandro il Molosso negli anni 335-330 a.C., per difendersi dagli attacchi dalle popolazioni italiche che, con la nuova federazione dei Lucani, alla fine del V secolo a.C. si erano espanse fino alle coste del Mar Ionio. Nel corso di queste guerre i Tarantini, nel tentativo di far valere i propri diritti sull'Apulia, stipularono un trattato con Roma, di consueto collocato nell'anno 303 a.C. ma forse risalente già al 325 a.C., secondo il quale alle navi romane non era concesso di superare ad Oriente il promontorio Lacinio (oggi capo Colonna, presso Crotone). La successiva alleanza di Roma con Napoli nel 327 a.C. e la fondazione della colonia romana di Luceria nel 314 a.C. preoccuparano non poco i Tarantini che temevano di dover rinunciare alle loro ambizioni di conquista sui territori dell'Apulia settentrionale a causa dell'avanzata romana.

Nuovi attacchi da parte dei Lucani costrinsero, ancora una volta, i Tarantini a chiedere aiuto ai mercenari della madrepatria: fu ingaggiato questa volta un certo Cleonimo di Sparta (303-302 a.C.), che fu, però, sconfitto dalle popolazioni italiche, forse sobillate dagli stessi Romani. Il successivo intervento di un altro paladino della grecità, Agatocle di Siracusa, portò di nuovo l'ordine nella regione con la sconfitta dei Bruzi (298-295 a.C.), ma la fiducia dei Greci delle piccole città dell'Italia meridionale in Taranto e Siracusa iniziò a svanire a vantaggio di Roma, che nel contempo si era alleata con i Lucani ed era risultata vittoriosa a settentrione su Sanniti, Etruschi e Celti.

Morto Agatocle di Siracusa nel 289 a.C., i Lucani, un tempo alleati di Roma, si ribellarono insieme ai Bruzi ed iniziarono ad avanzare nel territorio di Thurii devastandolo; gli abitanti della città, consci della propria debolezza inviarono due ambasciate a Roma per chiedere aiuto, la prima nel 285 a.C. e poi nel 282 a.C..

Solo in questa seconda circostanza Roma inviò il console Gaio Fabricio Luscino il quale, posta una guarnigione a Thurii, avanzò contro i Lucani sconfiggendo il loro principe Stenio Stallio, come riportano i Fasti triumphales. A seguito di questo successo, le città di ReggioLocri e Crotone chiesero di essere poste sotto la protezione di Roma la quale inviò una guarnigione di 4.000 uomini a presidio di Reggio: Roma si proiettava, ormai, verso il Meridione d'Italia.

CASUS BELLI - L'aiuto accordato da Roma a Thurii fu visto dai Tarantini come un atto compiuto in violazione dell'accordo che le due città avevano firmato diversi anni prima: sebbene le operazioni militari romane fossero state compiute per via di terra, Thurii gravitava pur sempre sul golfo di Taranto, a nord della linea di demarcazione stabilita presso il capo Lacinio; Taranto temeva dunque che il suo ruolo di patronato nei confronti delle altre città italiche venisse meno.

Roma, tuttavia, in aperta violazione degli accordi, forse per la forte pressione esercitata dai negotiatores o forse perché gli accordi stessi erano ritenuti decaduti, nell'autunno del 282 a.C. inviò una piccola flotta duumvirale composta da dieci imbarcazioni da osservazione nel golfo di Taranto che provocò i tarantini; le navi, guidate dall'ammiraglio Lucio Valerio Flacco o dall'ex console Publio Cornelio Dolabella, erano dirette a Thurii o verso la stessa Taranto, con intenzioni amichevoli. I Tarantini, che stavano celebrando in un teatro affacciato sul mare delle feste in onore del dio Dioniso, in preda all'ebbrezza, scorte le navi romane, credettero che esse stessero avanzando contro di loro e le attaccarono: ne affondarono quattro e una fu catturata, mentre cinque riuscirono a fuggire; tra i Romani catturati, alcuni furono imprigionati, altri mandati a morte.

Dopo l'attacco alla flotta romana, i Tarantini, resisi conto che la loro reazione alla provocazione romana avrebbe potuto condurre alla guerra e convinti dell'atteggiamento ostile di Roma, marciarono contro Thurii, che fu presa e saccheggiata; la guarnigione che i Romani avevano posto a tutela della città ne fu scacciata assieme agli esponenti dell'aristocrazia locale.

Gli avvenimenti subito successivi all'attacco tarantino testimoniano la cautela e l'accortezza del gruppo dirigente romano, che, pur senza sottovalutare la situazione, preferì tentare un'azione diplomatica piuttosto che muovere subito guerra a Taranto: da Roma, non appena si ebbe notizia di quanto era accaduto, si decise infatti di inviare a Taranto un'ambasceria guidata da Postumio, per chiedere la liberazione di coloro che erano stati fatti prigionieri, il rimpatrio dei cittadini aristocratici espulsi da Thurii, la restituzione dei beni a loro depredati e la consegna di coloro che erano responsabili dell'attacco alle navi romane: dal rispetto di tali condizioni sarebbe dipeso il futuro svolgimento delle relazioni tra le due potenze. 

I diplomatici romani, giunti a Taranto, furono ricevuti non senza riserve nel teatro da cui i Tarantini avevano scorto le navi attraversare il golfo; il discorso di Postumio, tuttavia, fu ascoltato con scarso interesse da parte dell'uditorio, più attento alla correttezza della lingua greca parlata dall'ambasciatore romano che alla sostanza del messaggio. 

Vittime di risate di scherno da parte dei Tarantini, che si prendevano gioco dell'eloquio scorretto e delle loro toghe dalle fasce purpuree, gli ambasciatori furono condotti fuori dal teatro; nel momento in cui ne stavano uscendo, tuttavia, un uomo chiamato Filonide, in preda all'ubriachezza, si sollevò la veste e orinò sulla toga degli ambasciatori con l'intento di oltraggiarli. 

A tale atto, che ledeva il diritto all'inviolabilità degli ambasciatori, Postumio reagì tentando di suscitare lo sdegno della folla dei Tarantini verso il concittadino; tuttavia, accortosi che tutti coloro che erano presenti nel teatro sembravano aver apprezzato l'atto di Filonide, li apostrofò, secondo Appiano di Alessandria, promettendo loro che avrebbero pulito con il sangue la toga sporcata da Filonide, o dicendo, secondo la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso, "Ridete finché potete, Tarantini, ridete! In futuro dovrete a lungo versare lacrime!". Detto ciò, gli ambasciatori lasciarono dunque la città di Taranto per rientrare in Roma, dove Postumio mostrò ai concittadini la toga sporcata da Filonide.

Gli ambasciatori giunsero a Roma, senza portare risposte, nel 281 a.C., nei giorni in cui i nuovi consoliLucio Emilio Barbula e Quinto Marcio Filippo, entravano in carica; Postumio riferì l'esito della sua ambasceria e l'offesa che aveva subito: i consoli, dunque, convocarono il senato, che si riunì per più giorni dall'alba fino al tramonto, per decidere sul da farsi. Un certo numero di senatori riteneva poco prudente intraprendere una spedizione militare contro Taranto quando le ribellioni dei popoli italici non erano ancora state del tutto sedate, ma la maggior parte preferì che la decisione di dichiarare guerra a Taranto venisse messa subito ai voti: risultarono essere in maggioranza coloro che volevano che Roma si impegnasse all'istante in un'azione militare, e la popolazione ratificò la decisione senatoria. Lo storico Marcel Le Glay pone l'accento sulle pressioni di una parte dei politici romani e delle grandi famiglie, tra cui la gens Fabia, per l'espansione territoriale di Roma verso il sud Italia.

Lucio Emilio Barbula fu dunque costretto a sospendere temporaneamente la campagna che aveva intrapreso contro i Sanniti e fu incaricato dal popolo di riproporre a Taranto, per salvare la pace, le stesse condizioni proposte da Postumio. I Tarantini, impauriti dall'arrivo dell'esercito consolare romano, si divisero tra coloro che sarebbero stati intenzionati ad accettare le condizioni di pace offerte dai Romani e coloro che avrebbero invece voluto dare inizio alle ostilità.

Barbula cominciò a devastare le campagne circostanti la città, tanto che i Tarantini, consci di non poter affrontare a lungo l'assedio romano, cercarono nuovi aiuti questa volta in Epiro, richiedendo l'intervento del re Pirro. Quest'ultimo, che aveva avuto un'educazione militare dall'allora sovrano di MacedoniaDemetrio I Poliorcete(aveva tra l'altro combattuto, assai giovane, nella battaglia di Ipso), accolta la richiesta di aiuto dei Tarantini, desideroso di ampliare il proprio regno ed incorporare nella propria sfera d'influenza la Magna Grecia, compresa la Sicilia (contesa dai Cartaginesi e dalla città greca di Siracusa) fondando uno stato nell'Italia meridionale, inviò Cinea per comunicare la sua decisione, poco prima che Taranto capitolasse. Pirro non poteva respingere la richiesta di aiuto fatta da Taranto poiché quest'ultima aveva dato un contributo importante per la conquista di Corfù e per la riconquista della Macedonia, persa nel 285 a.C.

Scullard scrive che se Pirro non avesse aderito alla richiesta dei Tarantini, il dissidio tra Taranto e Roma si sarebbe risolto facilmente e velocemente. E invece fu la guerra.

FORZE IN CAMPO - Considerando i rinforzi che Pirro ottenne, egli si pose a capo di un esercito di 31500 soldati e 22 elefanti. 3.000 uomini furono lasciati a presidio di Taranto, quindi le unità effettive che si scontrarono coi Romani nella battaglia di Eraclea, stando a Plutarco, furono 28.500 uomini e 22 elefanti.

Il re epirota sbarcò in Italia nel 280 a.C. con circa 25.500 uomini e 20 elefanti.

Tra i rinforzi inviati dall'Epiro al servizio di Pirro, secondo Plutarco ci furono 3.000 uomini erano giunti al comando di Cinea in aiuto a Taranto.

In totale le truppe al seguito di Pirro, giunte dall'Epiro, furono 28.500 uomini e 20 elefanti.  

Sappiamo che gli Italioti (ovvero i Greci della Magna Grecia, da non confondere con la Sicilia greca) conferirono a Pirro il comando supremo. Tra le promesse che adularono e convinsero il re d'Epiro a giungere in soccorso degli Italioti, fu l'offerta di porsi generale di 350.000 armati e 20.000 cavalieri.

Il re d'Egitto, Tolomeo II, inviò nel maggio del 280 a.C., in Epiro, secondo Giustino: 5.000 uomini, 400 cavalieri e 50 elefanti. Alcuni storici vedono la cifra al ribasso e credono che le reali proporzioni del contingente si limitarono a 20 elefanti di sostegno. In ogni caso Pirro, durante la sua spedizione, non poté usufruirne perché questi rinforzi restarono in Epiro per tenere sotto controllo la regione.  

Dopo aver lasciato l'Epiro, Pirro avanzò richieste di aiuti militari a vari sovrani ellenistici, in quanto l'Epiro era un regno montanaro e da solo non aveva sufficienti mezzi per condurre una lunga e dispendiosa campagna contro Roma. Chiese aiuti ad Antioco I (re del regno seleucide) e ad Antigono II Gonata (figlio di Demetrio I Poliorcete), nonché al re di Macedonia, Tolomeo Cerauno, al quale chiese sostegno finanziario e marittimo. Pirro aveva trascorso alcuni anni ad Alessandria d'Egitto con il cognato Tolomeo II, che gli promise aiuti militari. Analogamente, Pirro reclutò anche altre forze mercenarie, tra cui i cavalieri di Tessaglia e i frombolieri di Rodi. In Italia godette del supporto di Lucani, Messapi, Sanniti, Apuli e Campani.

Dopo aver atteso l'arrivo delle restanti navi, Pirro lasciò a Taranto un presidio di 3.000 uomini con il suo fidato ambasciatore Cinea e si spostò verso sud, accampandosi nei pressi di Heraclea con un esercito forte di circa 25.500 uomini.

Romani furono costretti a dividersi su due fronti, poiché la guerra etrusca a settentrione non era ancora stata portata a termine. Nel 280 a.C. l'esercito romano del fronte meridionale, schierato contro Pirro, era composto da circa 20.000 armati ed affidato al console di quell'anno Marco Valerio Levino, così suddivisi:

- 2 legioni di cittadini romani e 2 Alae di Socii (alleati italici, che erano posti alle ali dello schieramento), composte ciascuna da 4.200/5.000 fanti per un totale di 16.800 / 20.000 fanti;

- 600 cavalieri legionari e 1.800 alleati, pari a 2.400 complessivi.

A questo esercito consolare andrebbe aggiunto un contingente di 4.000 armati, inviato a Reggio nel 280 a.C., a protezione della città alleata.

Per un totale di circa 20.000 uomini, all'incirca pari all'entità dell'esercito di Pirro.

FASI DEL CONFLITTO - Si dice che i Tarantini e i loro alleati si vantassero di poter disporre di 350.000 uomini e 20.000 cavalieri reclutati tra Sanniti, Lucani e Bruzi. Nel 281 a.C. le legioni romane, al comando di Lucio Emilio Barbula, entrarono in Taranto e la conquistarono, malgrado i rinforzi dei Sanniti e dei Messapi. All'indomani della battaglia i Greci chiesero una breve tregua e la possibilità di intavolare delle trattative con i Romani.

I negoziati vennero bruscamente interrotti con l'arrivo a Taranto dell'ambasciatore Cinea che precedeva (o accompagnava) 3.000 soldati, forza d'avanguardia di Pirro posta sotto il comando del generale Milone di Taranto. Il console romano Barbula, che si era spinto nel Metapontino, si ritrovò sotto il tiro delle macchine da guerra delle navi nemiche che erano disposte lungo la costa a presidiare il golfo. Nella battaglia che ne scaturì, Barbula riuscì a subire perdite minori del previsto poiché aveva astutamente disposto sul lato destro della colonna, esposto ai colpi, i prigionieri di guerra.

Il piano di Pirro era quello di aiutare Taranto e respingere i Romani al di là del meridione italiano, per poi iniziare ad espandere la propria influenza in Sicilia e quindi attaccare Cartagine, nemica storica dei greci della Magna Grecia. Così fece nel 278 a.C. aiutando i Siracusani in guerra contro Cartagine. Ma dopo la campagna in Sicilia, fu costretto ad abbandonare il suo progetto, sia per la forte resistenza dei Cartaginesi a Lilibeo, sia perché le città greche sue alleate non riuscivano ad accordarsi fra di loro e non mandarono i contingenti promessi e sia per il malcontento che scatenò sulla popolazione del luogo per la sua avida gestione delle risorse.  

Dopo aver lasciato l'Epiro, Pirro avanzò richieste di aiuti militari a vari sovrani ellenistici, in quanto l'Epiro era un regno montanaro e da solo non aveva sufficienti mezzi per condurre una lunga e dispendiosa campagna contro Roma. Chiese aiuti ad Antioco I (re del regno seleucide) e ad Antigono II Gonata (figlio di Demetrio I Poliorcete), nonché al re di Macedonia, Tolomeo Cerauno, al quale chiese sostegno finanziario e marittimo. Il re dell'Egitto Tolomeo II promise l'invio di una forza di 4.000 soldati, 5.000 cavalieri e 50 elefanti da guerra destinata a difendere l'Epiro durante la campagna d’Italia. Analogamente, Pirro, reclutò anche altre forze mercenarie, tra cui i cavalieri di Tessaglia e i frombolieri di Rodi.

Nel 280 a.C. Pirro salpò verso le coste italiche ma, durante la traversata, fu sorpreso da una tempesta che arrecò danni alle navi e lo indusse a sbarcare le truppe, probabilmente nei pressi di Brindisi. Era a capo di 28.500 armati e 20 elefanti. Di lì proseguì via terra verso Taranto dove si acquartierò, aiutato dai Messapi.

Dopo aver atteso l'arrivo delle restanti navi, Pirro lasciò a Taranto un presidio di 3.000 uomini con il suo fidato ambasciatore Cinea e si spostò verso sud, accampandosi nei pressi di Heraclea con un esercito forte di circa 25.500 uomini.

I Romani avevano previsto l'imminente arrivo di Pirro e mobilitarono otto legioni. Queste comprendevano circa 80.000 soldati divisi in quattro armate:

- la prima armata, comandata da Barbula, si stanziò a Venosa per impedire ai Sanniti e ai Lucani di congiungersi con le truppe di Pirro;

- la seconda armata fu schierata a protezione di Roma nell'eventualità che Pirro tentasse di attaccarla;

- la terza armata, comandata dal console Tiberio Coruncanio, aveva il compito di attaccare gli Etruschi per scongiurare che si alleassero con Pirro;

- la quarta armata, comandata da Publio Valerio Levino, avrebbe dovuto attaccare Taranto ed invadere la Lucania.

Difatti, Levino invase la Lucania ed intercettò Pirro nei pressi di Heraclea, città alleata dei Tarantini, con l'intento di bloccare la sua avanzata verso sud, scongiurando in questo modo una sua alleanza con le colonie greche di Calabria. Pirro si dispose alla battaglia organizzando una "falange articolata" con divisioni di fanteria leggera fra i falangiti, per renderla più mobile sul collinoso territorio italiano, e gli elefanti a sostegno della fanteria.  

Il primo scontro tra gli Epiroti ed i Romani avvenne in Basilicata, nella piana di Eraclea (presso l'odierna Policoro), nello stesso 280 a.C. Nonostante la sorpresa di trovarsi di fronte gli elefanti, animali mai visti in precedenza, i Romani ressero bene l'urto fino a sera, anche se la battaglia alla fine si risolse con una sconfitta in cui ne morirono 7.000 (circa un terzo, dei 20.000 iniziali) e 1.800 furono fatti prigionieri. Pirro lasciò invece sul campo 4.000 armati dei 25.000 iniziali: troppe perdite per il contingente epirota, che difficilmente poteva ottenere rinforzi al contrario di Roma che poteva reclutare in fretta nuove truppe; ma, fortunatamente per Pirro, queste perdite vennero rimpiazzate dai soldati di Lucani, Bruzi e Messapi, assieme ad alcuni rinforzi mandati dalle città greche (Crotone, Locri Epizefiri) che alla notizia della vittoria decisero di unirsi a lui.  

Dopo la battaglia, sembrò finalmente cementarsi quell'intesa tra Greci ed Italici in funzione antiromana, che parte dell'aristocrazia tarentina si augurava da tempo. Rinforzi provenienti dalla Lucania e dal Sannio si unirono all'esercito di Pirro. Anche i Bruzi si ribellarono. Le città greche d'Italia si allearono con Pirro e a Locri fu cacciata la guarnigione romana. Una scelta analoga sembra si verificò nella stessa Crotone poco dopo. A Reggio, ultima posizione della costa ionica ancora controllata da Roma, il pretore campano Decio Vibellio, che comandava la guarnigione cittadina, massacrò una parte degli abitanti, cacciò i restanti e si proclamò amministratore della città, ribellandosi all'autorità di Roma.

Pirro aveva appreso che il console Levino sostava a Venosa, impegnato ad assicurare le cure ai feriti e a riorganizzare l'esercito in attesa di rinforzi, mentre il console Coruncanio era impegnato in Etruria. Pertanto avanzò verso Roma con l'intento di spingere i suoi alleati alla ribellione e di sorreggere gli Etruschi contro Coruncanio. Durante l'avanzata deviò su Napoli con l'intento di prenderla o di indurla a ribellarsi a Roma. Il tentativo fallì e comportò una perdita di tempo che giocò a vantaggio dei Romani: quando giunse a Capua la trovò già presidiata da Levino. Proseguì allora verso Roma devastando la zona del Liri e di Fregellae giungendo così ad Anagni e forse anche a Preneste. Qui ebbe sentore di una manovra a tenaglia progettata dai Romani: gli Etruschi avevano appena concluso la pace, liberando le forze di Coruncanio, che ora stavano muovendo dal nord dell'Etruria contro di lui. Consapevole di non disporre di forze sufficienti per affrontare le armate di Coruncanio, di Levino e di Barbula, decise di ritirarsi.

In seguito, Gaio Fabricio Luscino venne inviato come ambasciatore presso Pirro per trattare lo scambio dei prigionieri. Pirro fu favorevolmente attratto dalle qualità dell'ambasciatore, il quale non si piegò ad essere corrotto dal re epirota che gli offrì la quarta parte del suo regno. Il re epirota, non avendo ottenuto ciò che voleva da Fabricio, inviò a sua volta a Roma, il suo fidato consigliere, Cinea, per chiedere la pace, affidandogli anche quei soldati romani fatti prigionieri nella battaglia di Eraclea per i quali non volle alcun riscatto. L'obiettivo del re epirota era di ottenere l'assenso dal Senato romano a mantenere il dominio sui territori meridionali del suolo italico, finora conquistati. Il Senato respinse la richiesta di Pirro e considerò i prigionieri romani "infami", poiché erano stati catturati con le armi in pugno, e perciò allontanati. Questi ultimi avrebbero potuto essere reintegrati nello Stato romano solo nel caso in cui ciascuno di loro avesse consegnato le spoglie di due nemici uccisi.

Pirro, a questo punto, si trovava in seria difficoltà per gli approvvigionamenti: riceverli via mare dall'Epiro era troppo dispendioso. Prelevarli in loco dagli alleati italici gli avrebbe alienato la loro benevolenza e scatenato probabilmente qualche azione di guerriglia a vantaggio dei romani. Il re epirota si risolse così a tentare un accomodamento diplomatico col senato romano. Roma venne minacciata di occupazione se non avesse ritirato il suo esercito al di qua del fiume Garigliano e non avesse smesso di compiere sortite con azioni di guerriglia ai danni di epiroti e di tarantini. Ma l'anziano console Appio Claudio Cieco, capofila degli intransigenti, fece fallire le trattative, consapevole dell'appoggio logistico e finanziario di Cartagine, che non desiderava lo sbarco dell'esercito epirota in Sicilia, e conscio della capacità dell'esercito romano nel rimpiazzare le perdite senza problemi, a differenza dell'esercito di Pirro. A Pirro non rimaneva che cercare uno scontro decisivo che obbligasse Roma a piegarsi.

Nel corso del 279 a.C. i Romani si scontrarono con Pirro ad Ascoli di Puglia, dove furono nuovamente sconfitti (persero 6.000 uomini) infliggendo tuttavia, in proporzione, perdite talmente alte alla coalizione greco-italico-epirota (3.500 soldati) che Pirro fu costretto a ripiegare per evitare ulteriori scontri coi romani che avrebbero assottigliato ulteriormente le sue forze.

È forse in seguito a questi eventi che Romani e Cartaginesi decisero di stipulare un trattato di alleanza contro il comune nemico epirota. 

278 a.C. - Pirro ricevette due offerte allo stesso tempo: da un lato, le città greche di Sicilia gli proposero di estromettere i Cartaginesi (l'altra grande potenza del Mediterraneo occidentale) dalla metà occidentale dell'isola; dall'altro, i Macedoni gli chiesero di salire al trono di Macedonia al posto di re Tolomeo Cerauno, decapitato nell'invasione della Grecia e della Macedonia da parte dei Galli. Pirro giunse a conclusione che le opportunità maggiori venivano dall'avventura in Sicilia e decise, pertanto, di abbandonare l'Italia meridionale e andare in aiuto dell'isola, non avendo ottenuto però nessun trattato preciso dai romani. Al comando di un esercito di 37.000 uomini mosse da Agrigento verso Erice e la espugnò: caduta la città filo-cartaginese più fortificata, altre come Segesta si consegnarono all'epirota. Fu così nominato re di Sicilia, e i suoi piani prevedevano la spartizione dei territori fin lì conquistati tra i due figli, Eleno (a cui sarebbe andata la Sicilia) e Alessandro (a cui sarebbe andata l'Italia).

277 a.C. - Cartagine aveva deciso di non difendere città come Palermo ed Eraclea Minoa, ma concentrò i suoi sforzi su Lilibeo, città che veniva rifornita via mare: fu così possibile ai fenici di sostenere l'assedio posto da Pirro.

276 a.C. - Il re epirota intavolò trattative coi cartaginesi. Per quanto essi fossero già pronti a venire a patti con Pirro, e fornirgli denaro e navi quando fossero stati ripristinati rapporti amichevoli, questi richiese che tutti i cartaginesi lasciassero l'isola per fare del mare una linea di confine tra punici e greci. Al loro rifiuto seguì l'assedio infruttuoso di Lilibeo che, unito al suo comportamento dispotico nei confronti delle colonie siceliote, causò un'ondata di risentimento nei suoi confronti: Pirro fu costretto ad abbandonare la Sicilia inseguito dai Cartaginesi ed a tornare in Italia, senza fra l'altro ottenere cospicui rinforzi, perché fino a quel momento le città greche che aveva preteso di proteggere non riuscirono mai a concordarsi fra di loro per sostenere lo sforzo bellico comune. Il mancato successo finale produsse uno scollamento tra Pirro ed i sicelioti ed egli dovette tornare in Italia prendendo come pretesto la richiesta d'aiuto di Taranto.

Durante il trasferimento delle truppe, i Cartaginesi ne approfittarono per attaccarlo sul mare, così che l'esercito di Pirro, nella Battaglia dello Stretto di Messina subì gravissime perdite.  

Fine della guerra: la battaglia di Maleventum - Nel frattempo Roma, sempre rifornita abbondantemente da Cartagine, rioccupava senza colpo ferire tutto il territorio precedentemente perduto in Puglia ed in Lucania. Sedata definitivamente la ribellione degli Oschi e dei Sanniti (la componente stanziata al confine tra le attuali Campania e Puglia), arrivò nell'inverno del 276 a.C. a porre nuovamente sotto assedio Taranto, per terra e questa volta anche per mare, complice la flotta cartaginese. I tarantini invocarono nuovamente l'aiuto di Pirro, che dovette dunque abbandonare la Sicilia e sbarcare in Lucania.

275 a.C. - Lo scontro definitivo con Roma avvenne nel Sannio, a Maleventum nella tarda primavera di quest'anno. L'intento di Pirro era quello di far togliere l'assedio a Taranto minacciando direttamente Roma. Ma i romani, intuita la strategia dell'epirota, non solo non tolsero l'assedio a Taranto, bensì risposero inviandogli contro tutte le legioni stanziate in Etruria, devastando l'esercito avversario che non disponeva più degli elefanti, tutti eliminati nelle azioni di guerriglia seguite allo scontro di Ascoli, che era stato logorato da anni di guerre e che era provato nel morale per gli insuccessi strategici.

Pirro, per non cadere prigioniero dei romani, dovette far ritorno precipitosamente nel suo regno con quanto rimaneva del suo esercito.

Conseguenze - A causa della sconfitta Pirro abbandonò la campagna d'Italia e tornò in Epiro, dove, non pago del grave prezzo in uomini, denaro e mezzi della sua avventura a Occidente, due anni dopo preparò un'altra spedizione bellica contro Antigono II Gonata: il successo fu facile e Pirro tornò a sedersi sul trono macedone, dove morì di lì a poco mentre tentava di conquistare il Peloponneso. Taranto rimase sotto assedio altri tre anni, capitolando nel 272 a.C., e di lì a poco tutto il resto dell'Italia meridionale passò nell'orbita dell'Urbe (Reggio fu presa nel 271 a.C.): Roma aveva completato la sottomissione della Magna Grecia e la conquista di tutta l'Italia meridionale. In seguito alla vittoria romana la città di Maleventum divenne colonia (268 a.C.) e ribattezzata Beneventum (da cui l'odierna Benevento), nome più adeguato alla felice circostanza.

L'integrazione della Magna Grecia nel dominio della Repubblica Romana fu l'inizio di varie evoluzioni sociali per la città, che accoglieva così molti più greci con la loro cultura che avrebbe in seguito influenzato la stessa società romana. Ma mise anche Roma a diretto contatto con la Sicilia, divisa fra i greci e i cartaginesi, situazione che avrebbe in seguito condotto alle guerre puniche.

A seguito della guerra vennero fatti molti prigionieri, tra cui lo scrittore Livio Andronico, che dopo la guerra divenne schiavo di Marco Livio Salinatore.

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