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PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1980-1990
 

  

 

Dalla monarchia alla repubblica

DOPO ROMOLO SUL TRONO DI ROMA SI SUCCEDONO SEI RE

Secondo la tradizione, alla morte di Romolo si sarebbero succeduti tre re, alternativamente di stirpe sabina e romana (latina), le cui figure e opere rimangono avvolte nella leggenda: Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio.

La tradizione assegnò loro una serie di iniziative, tra cui imprese militari contro altre città sia latine sia etrusche (Anco Marzio avrebbe portato Roma ad affacciarsi direttamente sul mare, fondando Ostia alla foce del Tevere), ampliamenti della città e alcune iniziative "di carattere religioso (Numa Pompilio avrebbe posto le basi per un ordinamento religioso comune alle varie genti).

Alla fine del VII secolo a.C., gli Etruschi, che allora si stavano espandendo verso la Campania, posero sotto il proprio controllo questo centro, così importante per le comunicazioni con le zone da poco conquistate. Perciò, nel VI secolo troviamo Roma sottoposta all’influenza etrusca non solo dal punto di vista commerciale ma anche da quello politico. Gli Etruschi, infatti, misero a capo della città re della loro stessa stirpe: Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo. 

La monarchia etrusca diede un vigoroso impulso alle opere pubbliche e all’organizzazione politica della città: secondo la tradizione, Tarquinio Prisco fece prosciugare le paludi nella valletta tra il Palatino e il Capitolino, ove sorse il foro, area degli scambi commerciali della città; Servio Tullio fece costruire le mura della città ed emanò ordinamenti civili e militari. 

La leggenda racconta, invece, che Tarquinio il Superbo perse il favore della popolazione a causa del suo governo crudele ed autoritario: nel 509 a.C. egli fu quindi cacciato dalla ccittà e venne sostituito da un governo aristocratico. In realtà il passaggio che portò alla costituzione di un diverso regime politico fu lento e graduale: il re, divenuto insufficiente per governare una città in continuo sviluppo, probabilmente delegò ad altri collaboratori, membri del Senato, alcune delle sue funzioni, fino a essere scalzato dall’aristocrazia.

NEL PERIODO REGIO SOLO I PATRIZI PARTECIPANO ALLA VITA POLITICA DI ROMA

L’antica monarchia romana non era assoluta: infatti il re (rex, cioè colui che regge, governa) amministrava la giustizia, era a capo dell’esercito e svolgeva i compiti di sommo sacerdote, ma era eletto e assistito nell’esercizio del potere dal Senato (dal latino senex, «anziano»), un consiglio di anziani, capi (patres) delle «genti» (gentes), ossia di gruppi di famiglie (familiae) riunite da un comune antenato illustre (eroe o divinità), che si erano imposte nell’economia locale (allora basata prevalentemente sull’agricoltura e sulla pastorizia).

Erano dunque chiamati "patrizi" tutti coloro che discendevano dai patres: essi partecipavano alla vita politica attraverso i comizi curiati, assemblee generali che venivano consultate dal re e dal Senato per le questioni più importanti. I comizi curiati comprendevano tutti i membri delle gentes, atti alle armi, divisi in 30 curie, ossia 10 curie per ciascuna delle tre tribù in cui, secondo quanto tramandato dalla tradizione, Romolo aveva suddiviso l’originario popolo romano. Anche l’esercito era formato sulla base delle curie, ciascuna delle quali forniva 100 fanti e 10 cavalieri.

II resto della popolazione era costituito dai plebèi i quali, sebbene liberi, erano esclusi dalla partecipazione al governo dello Stato. Essi disponevano di minuscoli poderi o praticavano l’artigianato, il commercio o, ancora, erano lavoratori a giornata. Esclusi dall’attività politica erano anche i clienti (clientes) stranieri o plebei in condizioni disagiate che si mettevano al servizio di patrizi, ricevendone in cambio protezione. Gli schiavi, poco numerosi nei primi secoli, erano spesso considerati beni materiali, piuttosto che persone.

I CITTADINI ROMANI SONO DIVISI IN CLASSI, A SECONDA DEL CENSO

La riforma che pose fine al privilegio politico delle famiglie gentilizie fu quella che divise i cittadini in classi, a seconda della ricchezza. La tradizione attribuiva questa riforma a Servio Tullio, che avrebbe regnato tra il 578 e il 535 a.C.: si creava così un parallelismo tra la storia romana e la storia di Atene che, con Solone, era passata da un ordinamento aristocratico a uno timocratico. 

In realtà gli storici sono concordi nel datare questa riforma all'età repubblicana, al V secolo a.C. o agli inizi del IV. La popolazione venne dunque divisa in 5 classi in base al reddito; ogni classe fu a sua volta divisa in centurie, ossia in gruppi di cento uomini atti alle armi. 

Con la divisione per censo si raggiungeva lo scopo di armare convenientemente l'esercito: infatti i cittadini - a seconda del loro reddito - dovevano procurarsi essi stessi le armi. 

Certo, il potere rimase nelle mani dei più ricchi, che più contavano nell'armare l'esercito, ma questa riforma permise a tutti i cittadini maschi in grado di armarsi di partecipare alle assemblee della città, che presero il nome di "comizi centuriati". Essi deliberavano sulla pace e sulla guerra ed eleggevano i magistrati (che a lungo furono scelti all'interno della prima classe), cui era affidato il governo della città.

NELLA ROMA REPUBBLICANA IL POTERE É AFFIDATO A PIÚ MAGISTRATI

Nel corso del V secolo a.C. si vennero progressivamente delineando le caratteristiche del nuovo ordinamento repubblicano. I romani chiamarono lo Stato "res publica", che significa "cosa pubblica", appartenente cioè a tutti i cittadini e non a uno solo o a una minoranza di potenti: a poco a poco il potere venne quindi diviso tra diversi magistrati, appartenenti però, inizialmente, solo alla classe dei patrizi.

Il potere fu affidato non più a un re ma a due consoli, eletti annualmente: a loro furono affidati il comando dell'esercito e l'amministrazione della giustizia; i consoli inoltre presiedevano le riunioni del Senato, l'assemblea patrizia, cui spettavano le più importanti decisioni politiche, economiche e militari.

In caso di gravissimo pericolo per lo Stato, veniva eletto per sei mesi un dittatore, magistrato straordinario con poteri assoluti: egli poteva, a suo arbitrio, far dimettere o tenere ai propri ordini gli altri magistrati. Al di sotto dei consoli vi erano i questori (inizialmente 3, due, poi quattro, in seguito otto), anch'essi eletti per un anno e che avevano il compito di amministrare le finanze dello Stato.

I censori, in numero di due, erano eletti ogni cinque anni e avevano il compito di redigere il censo, ossìa di registrare i nomi dei cittadini e l’ammontare delle loro ricchezze. Vi erano infine i pretori, con nomina annuale; essi esercitavano funzione di giudice nei processi.

I PLEBEI SI RIBELLANO AI PRIVILEGI POLITICI DEI PATRIZI

Nonostante partecipassero attivamente alla difesa di Roma e alla sua continua espansione, i plebei erano esclusi da una reale partecipazione alla vita politica. Proprio il servizio militare li poneva spesso in difficoltà: infatti, i patrizi durante le guerre (che nel corso del V secolo a.C. si succedettero quasi senza sosta) lasciavano la cura dei campi ai propri lavoratori dipendenti o a schiavi e alla fine di ogni guerra si accaparravano i terreni dei nemici vinti; al contrario i plebei, che già dovevano sostenere ingenti spese per l’armamento, erano costretti a lasciare incolti i loro terreni, poiché non avevano dipendenti che li lavorassero; essi inoltre non avevano diritto di utilizzare le nuove terre conquistate: a causa di tale situazione i plebei erano sempre più poveri e indebitati. Esasperati da queste ingiustizie, nel 494 a.C. i plebei si rifiutarono di prendere le armi e anzi abbandonarono la città, ritirandosi sul Monte Sacro. Subito si diedero nuove istituzioni, mostrando di non riconoscere lo Stato patrizio e anzi di opporsi a esso. 

Di fronte a questa ribellione, che comportava una notevole riduzione dell’esercito, i patrizi si trovarono costretti ad accettare l’istituzione dei tribuni della plebe. Questi magistrati, nominati dagli stessi plebei, dovevano difenderli contro gli abusi e la sopraffazione dei patrizi, grazie al diritto di veto di cui godevano. Perché fossero protetti da ogni attacco, i tribuni furono dichiarati inviolabili: non rispondevano a nessuno dei loro atti, non potevano essere trascinati in tribunale e se qualcuno avesse usato loro violenza lo aspettava una condanna a morte. 

In principio i tribuni furono due, in seguito cinque e alla fine dieci; è facile capire come l’istituzione dei tribuni della plebe costituisse una vera rivoluzione.

ALLA DIVISIONE TRA PATRIZI E PLEBEI SI SOSTITUISCE QUELLA TRA RICCHI E POVERI

All’istituzione dei tribuni della plebe seguì quella degli edili della plebe, due magistrati che avevano il compito di controllare la manutenzione di strade, templi, edifici pubblici, di sorvegliare i mercati e i prezzi, di organizzare gli spettacoli pubblici.

Un altro obiettivo dei plebei era ottenere l’uguaglianza davanti alla legge, sottraendo il verdetto all’arbitrio dei tribunali patrizi che si fondavano sulla consuetudine: furono allora introdotte, nel 451 a.C., leggi scritte, le famose «dodici favole».          

Verso la metà del V secolo a.C. fu creata  l’assemblea dei plebei, i comizi tributi, cui fu data la facoltà di votare vere e proprie leggi, i plebisciti, facoltà che nei comizi centuriati era di fatto esclusiva dei patrizi.

Via via i plebei riuscirono ad accedere a tutte le cariche pubbliche: anche il Senato, roccaforte dei patrizi, divenne accessibile ai plebei, in quanto dal III secolo a.C. vi confluirono tutti i magistrati usciti di carica. I plebei che pervenivano alle maggiori cariche erano comunque i più ricchi, che avevano il tempo e i mezzi per occuparsi della carriera politica. Abolita dunque l’antica divisione tra patrizi e plebei, ne sorse un’altra: quella tra ricchi e poveri.

IL SOLDATO ROMANO

Essere romano - secondo la tradizione - voleva dire essere guerriero, o meglio soldato, cioè non tanto un combattente avido di imprese individuali, quanto un cittadino disciplinato, inserito e inquadrato in una temibile struttura bellica, l’esercito appunto, la cui potenza derivava dalla coesione e dall’organizzazione interna. 

Proprio per mantenere la disciplina, il comandante dell'esercito infliggeva punizioni severe ma efficaci: ad esempio i soldati che si erano lasciati sopraffare e avevano abbandonato il posto di combattimento venivano fustigati e lasciati fuori dell’accampamento.

Tuttavia il soldato romano considerava la partecipazione militare non solo un dovere, ma anche un privilegio: privilegio dovuto alla ricchezza necessaria per fornirsi di un’adeguata armatura, privilegio in caso di vittoria (la spartizione del bottino), privilegio onorifico nella misura in cui l’individuo aveva l’opportunità di provare il suo coraggio e la sua devozione. 

Il soldato era infatti ciecamente devoto alla causa della patria e fermamente convinto che Roma fosse destinata a conquistare il mondo intero; si considerava pronto a servire sotto le armi pressoché per tutta la durata della sua vita attiva.

I VALORI SU CUI SI FONDA LA SOCIETÀ ROMANA SI RIFLETTONO NELLA RELIGIONE

Nei primi secoli della repubblica, i valori su cui si fondava la società romana erano il culto della famiglia e delle tradizioni degli antenati, la semplicità nei costumi, il rispetto per il lavoro contadino. L’importanza di questi valori si rifletteva anche nella vita religiosa.

Ogni anno, ad esempio, il 21 aprile, giorno leggendario della fondazione di Roma, vi era una festa dedicata a Pale, dea della pastorizia. Con questa festa si voleva propiziare fecondità al gregge, da cui si ricavano il latte per farne il cacio, alimento quotidiano dei Romani (la carne era riservata ai giorni di festa), e la lana per tessere abiti semplici.

Un’altra festa era quella dei Lupercali, celebrata a Roma il 15 febbraio. La leggenda narra che ai piedi del Palatino vi era una grotta, in cui si rifugiavano i lupi e perciò detta «Lupercale», dove Romolo e Remo sarebbero stati allattati da una lupa. Qui si riunivano i «Luperci», gli addetti al rito: essi, dopo aver sacrificato degli animali, ne indossavano le pelli e correvano attorno al colle.

Il simbolo degli affetti familiari era il focolare domestico presso il quale si onoravano le immagini degli antenati - gli iniziatori della stirpe - detti «Lari» o «Penati» o «Mani»; mantenere in vita il loro ricordo significava conservare un legame con il proprio passato e l’unità della famiglia.

Legata al culto familiare era Vesta, dea del focolare, sia di quello domestico sia di quello pubblico dello Stato; a lei era dedicato un tempio nel Foro, nel quale era custodito il fuoco perenne, simbolo della conservazione dello Stato.

Era infine venerata un’antichissima divinità italica: Giano, il cui nome derivava da «ninna», che in latino significa «porta», dio della soglia della casa. Rappresentato di solito con due volti contrapposti, e perciò chiamato «bifronte», egli presiedeva a tutti gli «inizi», sia dei tempi (come l’inizio dell’anno che da lui prese nome, ianuarius, «gennaio») sia di cose (l’apertura di una porta, sia della casa sia della città).

Giano diventerà, nell’epoca augustea (fine del I secolo a.C.), il custode della pace: le porte del suo tempio potevano esser chiuse solo in tempo di pace; le porte aperte indicavano che Roma era in guerra.

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