Personaggi 
dell'età repubblicana

Periodo iniziale
della Repubblica
     
   **  Lucrezia
   **  Lucio Iunio Bruto
   **  Cincinnato
   **  Annibale
   **  Scipione Emiliano
   **  Catone il Censore

 

 

Tarda Repubblica

   **  Giulio Cesare
   **  Tiberio Sempronio Gracco
   **  Gaio Sempronio Gracco
   **  Caio Mario
   **  Lucio Cornelio Silla
   **  Gneo Pompeo Magno
   **  Marco Licinio Crasso
   **  Marco Tullio Cicerone
   **  Spartaco

 

  
Centro storico di Roma, 
le proprietà estraterritoriali della Santa Sede nella città e 
la Basilica di San Paolo fuori le mura 
Città del Vaticano - Italia
   
 
  
PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1980-1990
 

  

 

Lucrezia  

Lucrezia (in latino Lucretia), figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Collatino, è un figura mitica della storia di Roma legata alla cacciata dalla città dell'ultimo re Tarquinio il Superbo.

LA LEGGENDA - Secondo la versione di Livio sulla istituzione della Repubblica, l'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo aveva un figlio assolutamente sgradevole, Sesto Tarquinio.

Durante l'assedio della città di Ardea, i figli del re assieme ai nobili, per ingannare il tempo si divertivano a vedere ciò che facevano le proprie mogli durante la loro assenza, tornando nascostamente a Roma.

Collatino sapeva che nessuna moglie poteva battere la sua Lucrezia in quanto a pacatezza, laboriosità e fedeltà. Così portò con se gli altri nobili, tra cui Sesto Tarquinio, a vederla, nel pieno della notte, e poterono constatare che Lucrezia stava tranquillamente tessendo la lana, con le sue ancelle.

Sesto Tarquinio se ne innamorò, e tornò a trovarla di nascosto dal marito, ma fu da lei respinto. Per niente vinto Sesto minacciò di ucciderla e di farvi trovare accanto un corpo mutilato di uno schiavo: ciò l'avrebbe incolpata di adulterio e avrebbe messo in cattiva luce la sua casata. A questo punto Lucrezia fu costretta a cedere alle voglie del figlio del re, ma appena poté andò all'accampamento romano presso Ardea a riferire il tutto al padre ed al marito.

Il marito Collatino, il padre ed il suo grande amico Lucio Giunio Bruto decisero di vendicarla, provocando e guidando una sommossa popolare che cacciò via i Tarquini da Roma e li costrinse a rifugiarsi in Etruria. Così nacque la repubblica romana, i cui primi due consoli furono proprio Lucio Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto artefici della rivolta contro quello che poi divenne l ' ultimo re di Roma.

Lucio Iiunio Bruto

Lucio Iiunio Bruto fu il fondatore della Repubblica romana e secondo la tradizione uno dei primi consoli nel 509 a.C..

Fino ad allora Roma era stata una monarchia. Bruto guidò la sommossa che scacciò l'ultimo re, Tarquinio il Superbo, poiché il figlio di Tarquinio aveva violentato una parente di Bruto, Lucrezia.

Secondo Livio, Bruto aveva molti motivi di ostilità contro il re: fra loro era il fatto che Tarquinio aveva disposto l'omicidio del fratello, un potente senatore, che si era opposto all'assunzione del trono da parte di Tarquinio.

Bruto allora si infiltrò nella famiglia di Tarquinio impersonando la parte dello sciocco (in Latino brutus significa sciocco). Lui accompagnò i figli di Tarquinio in un viaggio all'oracolo di Delfi. I figli chiesero all'oracolo chi sarebbe stato il successivo sovrano a Roma. L'oracolo rispose che la prossima persona che avrebbe baciato sua madre sarebbe diventato re. Bruto interpretò la madre nel significato di terra, così finse di inciampare e baciò la terra. Al ritorno a Roma, Bruto dovette combattere in una delle guerre senza fine di Roma contro le tribù vicine.

Bruto tornò alla città quando venne a sapere che Lucrezia aveva subito violenza. Lucrezia, credendo di essere stata disonorata si uccise. Questo evento risultò essere la goccia che fece traboccare il vaso: Bruto allora istigò una sollevazione popolare contro la monarchia, obbligando Tarquinio a rientrare a Roma. Quando Tarquinio arrivò a Roma, lui e la sua famiglia furono cacciati in esilio e Bruto dichiarò che il potere era nelle mani del Senato.

C'è una certa confusione sui particolari della vita di Bruto. Il suo consolato, per esempio, può essere un abbellimento successivo per dare alle istituzioni repubblicane maggior legittimità associandole alla cacciata dei re. Il racconto dell'esecuzione da parte di Bruto dei propri figli per aver mancato nelle loro funzioni militari può essere stata ugualmente un'invenzione successiva. Il suo consolato termina durante una battaglia con gli Etruschi, che si erano alleati con i Tarquini per restaurare il loro potere a Roma.

Secondo la tradizione ebbe il suo consolato assieme a Lucio Tarquinio Collatino, il vedovo di Lucrezia.  

Lucio Quinzio Cincinnato 

Lucio Quinzio Cincinnato (latino Lucius Quinctius Cincinnatus), era nato prima della Repubblica Romana, intorno al 520 a.C. Fu console nel 460 a.C. e due volte dittatore, nel 458 a.C. e nel 439 a.C.. La data di nascita non è precisa ma sappiamo da Tito Livio  che aveva passato gli ottant'anni quando fu eletto dittatore per la seconda volta.

Cincinnato era un esponente di spicco della Gens Quinctia che, anche se non facente parte delle prime gentes organizzate da Romolo, era stata cooptata a Roma all'epoca della conquista e distruzione di Alba Longa da parte dei romani di Tullo Ostilio.

Della vita e della carriera politica di Cincinnato si hanno notizie soprattutto da Tito Livio che ne offre una visione abbastanza neutrale. Il primo Quinctius salito al rango di console a Roma fu Tito Quinzio Barbato negli anni 471 a.C., 468 a.C. e 465 a.C.; era il fratello di Lucio Quinzio Cincinnato. Certamente il fatto che Quinzio Barbato fosse assurto al rango consolare facilitò l'ascesa politica di Cincinnato che a sua volta fu scelto tre volte dai romani come guida dello Stato.  

La prima elezione di Cincinnato ai massimi livelli politici avvenne nel 460 a.C.. Lucio Quinzio fu eletto consul suffectus (supplente) in sostituzione del console Publio Valerio Publicola che era caduto durante la riconquista del Campidoglio occupato dai ribelli guidati da Appio Erdonio.

Secondo gli annalisti, Cincinnato si era dedicato ad una vita di agricoltura e sapeva che la sua partenza poteva rendere povera la sua famiglia se in sua assenza i raccolti non fossero stati curati. Secondo Tito Livio lo storico padovano del I secolo, viceversa, Lucio Quinzio si era visto costretto in un podere fuori Roma, perché gli erano rimaste le sole inalienabili terre di famiglia; aveva dovuto vendere tutti i suoi beni per pagare una pesante cauzione. Il figlio, Cesone Quinzio, dopo un processo per omicidio basato sulla testimonianza dell'ex Tribuno della plebe Marco Volscio Fittore aveva scelto la fuga in Etruria, con ciò costringendo il padre a risarcire i mallevadori.

La descrizione che alcuni fanno di Cincinnato come agreste coltivatore, si scontra con l'acume politico e giuridico che questi dimostra nel corso di questo suo mandato. Lucio Quinzio fu eletto suffectus nel dicembre del 458 a.C. e la maggioranza dei senatori  si era battuta per questo. I plebei erano intimoriti dal fatto di vedere al rango consolare una persona che nutriva un grande risentimento contro di loro per l'esilio di Cesone Quinzio e per la situazione finanziaria del padre Lucio. E non avevano del tutto torto; Cincinnato prese a difendere il figlio Cesone, ad attaccare i tribuni della plebe. Il tribuno della plebe Aulo Virginio, che aveva organizzato il processo a Cesone fu pesantemente attaccato e paragonato al nemico interno Appio Erdonio. Oltre a questa difesa del figlio e a questo attacco al tribuno, quasi obbligatori, Lucio Quinzio informò il popolo romano che, assieme al collega stava organizzando la guerra ai soliti nemici gli Equi e i Volsci. L'obiezione dei tribuni fu che non poteva radunare l'esercito senza il loro consenso.

Questa convocazione toglieva un'arma potente dalle mani dei tribuni della plebe. Il popolo convocato in armi per deliberare al di fuori del pomerio, costituiva i cosiddetti "comizi centuriati", un'assemblea legislativa militare con il potere di abrogare quanto in città, all'interno del pomerio, veniva deciso dal potere politico civile. I maneggi dei tribuni della plebe, che in quel periodo stavano cercando di far approvare la Lex Terentilia, si sarebbero scontrati con le decisioni prese da cittadini forzati a votare in modo non libero in quanto costretti da giuramento a seguire le leggi militari, a tutto vantaggio del patriziato che avversava l'approvazione di tale legge.

Cincinnato, alla fine "si rimise alla volontà del Senato" (cioè della "sua" parte politica) e il senato sentenziò che la legge non doveva essere votata ma che l'esercito non doveva essere convocato. In più i magistrati e i tribuni della plebe non avrebbero più potuto essere rieletti. I consoli non ripresentarono la candidatura ma i tribuni della plebe si ripresentarono fra le proteste dei patrizi che, per ripicca volevano rieleggere Cincinnato. Fu lui stesso a rifiutare con un discorso che riportava i senatori al rispetto delle decisioni prese, in contrapposizione alla malafede della plebe. Furono eletti consoli Quinto Fabio Vibuleno per la terza volta e Lucio Cornelio Maluginense; Cincinnato ritornò alle sue rurali occupazioni assieme alla moglie Racilia. L'anno seguente Roma ebbe ancora bisogno di lui.

LA PRIMA DITTATURA - Il console Lucio Minucio Esquilino Augurino era rimasto assediato all'interno del suo accampamento durante le operazioni di guerra che i romani avevano portato agli Equi. Nemmeno l'altro console, Gaio Nautio Rutilo, che pur stava vincendo contro i Sabini sembrava in grado di fronteggiare la situazione. Nei momenti di grave crisi Roma eleggeva un dittatore con pieni poteri: per unanime consenso fu deciso di eleggere Lucio Quinzio Cincinnato. Cincinnato accettò e ritornò a Roma attraversando il Tevere su una barca "noleggiata a spese dello Stato. Il neo dittatore, preceduto dai littori fu "scortato a casa" dalla folla degli amici.

Ma Cincinnato si dimostrò al di sopra di meschine ripicche. Il giorno seguente prese in mano la direzione delle operazioni e in poche ore radunò l'esercito e lo condusse con marcia forzata al soccorso dei concittadini assediati nel loro stesso accampamento. Quella stesa notte iniziò la battaglia del Monte Algido che vide gli Equi sconfitti.

Cincinnato, una volta liberato l'esercito che era assediato, distribuì il bottino e le punizioni ai soldati e al console incapace. Il bottino andò ai suoi soldati, Lucio Minucio depose la carica di console e rimase in armi al comando di Quinzio, ai soldati soccorsi non toccò nulla avendo rischiato di essere loro stessi preda. Questo non creò malumori, tanto che a Lucio Quinzio venne donata una corona d'oro da una libbra.

Cincinnato, comunque, ritorna ad arare il suo terreno e a condurre una vita fuori dall'agone politico. Nel 450 a.C. ritroviamo Lucio Quinzio con il fratello Tito che si batte inutilmente contro Appio Claudio il Decemviro il quale, giocando tra le coalizioni, fece si che non risultassero eletti i due Quinzi, Capitolino e Cincinnato

Nel 445 a.C., cinque anni dopo la liberazione di Roma dal nefasto governo dei Decemviri, Gaio Canuleio presentò la sua legge per abrogare il divieto di matrimonio fra patrizi e plebei, imposto proprio dai Decemviri con le Leggi delle XII tavole. È la famosa Lex Canuleia. Quando alla fine venne approvata i patrizi si divisero sulla soluzione del problema arrivando perfino, con Gaio Claudio, zio dell'Appio Claudio il Decemviro, a ipotizzare l'azione armata dei consoli contro i Tribuni della plebe che erano, fin dalla loro creazione, dichiarati intoccabili e protetti dagli dei. I due Quinzi, Tito Capitolino Barbato e Lucio Cincinnato si opposero al sacrilegio.

LA SECONDA DITTATURA -  Nel 439 a.C., si indicazione del fratello Tito Capitolino Barbato al suo sesto consolato, viene eletto dittatore per la seconda volta. Il presunto tentativo di Spurio Melio di farsi nominare "re" (titolo aborrito dai romani dopo la caduta dei Tarquini) richiedeva un magistrato con le mani più libere e poteri più ampi dei consoli. La nomina di Lucio Quinzio con la successiva scelta di questi di nominare Gaio Servilio Strutto Ahala magister equitum permette l'eliminazione del presunto "golpista" senza intaccare la figura pubblica del console e senza uscire dal dettato costituzionale. Gaio Servilio, inviato dal dittatore a condurre Melio al processo, lo uccide durante il tentativo di fuga dell'imputato e il patriziato romano viene liberato da un pericolo. Straordinario come dopo oltre duemila anni le motivazioni di certe morti siano ricorrenti.

Indubitabilmente l'obbedienza al dittatore dei romani doveva essere "pronta e assoluta". Questa dittatura, però, e questa decisione provocarono moti e tumulti della plebe e favorì la sempre più utilizzata elezione di Tribuni consolari al posto dei consoli veri e propri, favorì l'incremento del potere della plebe impegnata nel conflitto degli Ordini con il patriziato e la parificazione dei diritti della plebe nell'accesso alla più alta magistratura dell'Urbe.  

Appio Claudio Cieco

Patrizio romano (secc. IV-III a.C.). Percorse una brillante carriera politica: tre volte tribuno militare, questore, due volte edile curule, tre volte pretore,  censore (310 a.C.), due volte console (307 e 296 a.C.), dittatore.

Più che uomo di guerra fu un grande politico, un amministratore di somma abilità e, nel campo intellettuale, uno spirito dotato di una cultura superiore al suo tempo e al suo ambiente. Mente lungimirante, in politica mirò a conciliare gli interessi dei patrizi intransigenti con quelli dei plebei proletari, contro la nobiltà patrizio-plebea destinata quarant'anni dopo a prendere nelle mani il potere approfittando della situazione politico-militare che gli forniva l'occasione di attuare la sua grande idea.

Per far fronte agli attacchi delle coalizioni di popoli italici, Roma doveva disporre di un numero sempre maggiore di uomini e di mezzi e, per averli, bisognava legare allo Stato coloro che si erano arricchiti nel commercio e nell'industria con la concessione di diritti politici che comportassero doveri patriottici.

Egli pertanto nel corso della sua censura (312) tenne conto, nel determinare il censo, della ricchezza mobiliare e non più soltanto di quella fondiaria; sempre col medesimo intento introdusse nell'ordine senatorio uomini di bassi natali, tra cui alcuni figli di liberti, e distribuì i liberti stessi nelle tribù rustiche col permesso di iscriversi in tutte le classi dell'ordinamento centuriato.

Grazie alle sue riforme la ricchezza mobiliare fu in grado di opporre i suoi interessi a quelli dei contadini e dei proprietari fondiari. La nobiltà reagì con grande vigore al grave colpo che le veniva inflitto, ma non poté impedire che tali innovazioni democratiche vitali per l'esistenza e il progresso dello Stato romano, venissero attuate e si sviluppassero negli anni seguenti.

Il prestigio politico di Appio Claudio durò a lungo: assai vecchio e cieco (donde il soprannome), con un'orazione rimasta famosa, influì decisamente sul senato perché respingesse le proposte di pace di Pirro (280 a.C.).

Tra i molti suoi meriti si annoverano la costruzione della Via Appia, dell'acquedotto Appio (Aqua Appia), l'influsso esercitato sul suo liberto Gneo Flavio, autore della pubblicazione dei fasti e delle formule regolanti le azioni giudiziarie, e l'attività letteraria (oratoria, linguistica, gnomica) per cui è considerato la prima personalità della letteratura latina.

Annibale Barca

Annibale Barca (Barca nella lingua cartaginese significava assai probabilmente Folgore) (247 a.C. - 182 a.C.) fu un comandante militare dell'antica Cartagine.

Famosissimo per i suoi risultati nella Seconda guerra punica, da lui stesso scatenata marciando dalla Spagna, attraverso i Pirenei e le Alpi, fino in Italia dove sconfisse le legioni romane in tre battaglie principali; Battaglia della Trebbia (218 a.C.), Battaglia del Lago Trasimeno (217 a.C.), Battaglia di Canne (216 a.C.) e molteplici scontri minori. 

Dopo la Battaglia di Canne i Romani rifiutarono lo scontro diretto e gradualmente riconquistarono i territori del sud Italia di cui avevano perso il controllo. La Seconda guerra punica terminò con l'attacco romano a Cartagine che costrinse Annibale al ritorno in Africa nel 204 a.C. e con la sua definitiva sconfitta nella Battaglia di Zama nel 202 a.C..

Dopo la fine della guerra, Annibale guidò Cartagine per parecchi anni cercando di ripararne le devastazioni, fino a quando i Romani non lo forzarono all'esilio nel 195 a.C.. 

Annibale si rifugiò quindi dal re Seleucide Antioco III in Siria dove continuava a propugnare guerre contro Roma. Nel 189 a.C. Antioco III fu sconfitto dai Romani e Annibale dovette ricominciare la fuga, questa volta presso il re Prusia I in Bitinia. Quando i Romani chiesero a Prusia la sua consegna, Annibale preferì suicidarsi. Era il 182 a.C.

Publio Cornelio Scipione Africano

Uomo politico e generale romano (236-235 - Literno 183 a.C.). Appartenente alla Gens Cornelia, una delle più antiche e potenti gentes patrizie di Roma, era figlio di Publio Cornelio Scipione, che fu console nel 218 a.C. e che morì in Spagna assieme al fratello Gneo durante la Seconda guerra punica. Sposò Emilia Terza, sorella di Paolo Emilio Macedonico, e fu il padre di Cornelia, la famosa "madre dei Gracchi".

A diciassette anni, nella sfortunata battaglia del Ticino (218 a.C.), salvò la vita al padre; tribuno militare a Canne (216 a.C.), fu tra quelli che a Canusium (Canosa di Puglia) riordinarono i resti dell'esercito disfatto. 

A ventiquattro anni, dopo essere stato edile (213), per unanime consenso del senato e del popolo e contro la consuetudine (era infatti un semplice privato e, per di più, molto giovane) fu investito dell'imperium proconsulare e inviato in Spagna a ristabilire la critica situazione lasciata dalla morte del padre e dello zio. Ivi, mediante nuovi accorgimenti tattici e una strategia costantemente offensiva, traendo profitto dalle discordie dei capi cartaginesi e dalle simpatie degli indigeni, conseguì un completo successo. Dapprima conquistò Carthago Nova (Cartagena) [209 a.C.]; poi sconfisse a Becula (208 a.C.) Asdrubale Barca, che muoveva verso l'Italia in aiuto del fratello Annibale, senza però riuscire a fermarlo; distrusse quindi due armate cartaginesi a Ilipa e da ultimo ottenne l'alleanza di Cadice (206 a.C.).

Tornato quindi a Roma, Scipione, forte del favore popolare, ottenne il consolato per il 205 e come provincia la Sicilia, che nei suoi disegni avrebbe dovuto servirgli come base per portare la guerra in Africa, così da costringere Annibale a uscire dall'ltalia e da poter risolvere definitivamente il lungo conflitto. Il suo audace piano incontrò l'opposizione di Fabio Massimo e dei suoi fautori, cosicché il senato gli negò i mezzi e le truppe necessari. Ma, nonostante difficoltà e sospetti, Scipione con l'aiuto spontaneo ed entusiastico delle città italiche e italiote, allestì una flotta e un esercito agguerrito, se non molto numeroso, con il quale sbarcò in Africa presso Utica (204 a.C.).

Trovatosi di fronte a forze superiori al previsto, alternò azioni di guerra a proposte di pace, riportando, con l'aiuto del re numida Massinissa, una grande vittoria ai Campi Magni (203); poi, al ritorno di Annibale dall'ltalia, per stroncare le rinascenti velleità bellicose dei Cartaginesi, attaccò battaglia presso Naraggara (Zama) infliggendo loro la sconfitta decisiva (202) cie pose fine alla seconda guerra punica. Accolto a Roma con uno splendido trionfo (201 a.C.), a ricordo della vittoria ricevette il soprannome di Africano. 

Censore nel 199, più di una volta princeps senatus e di nuovo console nel 194, propugnò, in contrasto con Catone il Vecchio e il partito conservatore, una politica d'espansione in Oriente, cosicché, quando scoppiò la guerra con Antioco III di Siria, fece pressione perché il comando della spedizione toccasse a suo fratello Lucio e a lui fosse concesso di accompagnarlo in qualità di legato. 

Di fatto ne fu il capo, sia nella preparazione diplomatica sia nel predisporre il piano delle operazioni belliche Il successo gli arrise a Magnesia al Sipilo anche se una malattia lo tenne lontano dal campo di battaglia. Ma dalla vittoria, che con la pace di Apamea (188 a.C.) procurò a Roma il dominio in Oriente e un enorme bottino, trasse alla fine più motivo di amarezza che di compiacimento.

Al ritorno a Roma Scipione trovò gli avversari politici allarmati del crescente prestigio suo e della sua famiglia, più accaniti che mai contro di lui e desiderosi di rovinarlo, Il procedimento fu quello comune di una campagna di accuse di corruzione nei riguardi suoi e, soprattutto, del fratello Lucio, per cui avrebbero privatamente ricevuto danaro da Antioco III e non avrebbero reso conto di 500 talenti dell'indennità di guerra versata dal re. Come conseguenza si ebbero tentativi di incriminazione se non veri processi (cosiddetti « processi degli Scipioni »), sui quali la tradizione storica presenta molte lacune e punti oscuri.

E' accertato, peraltro, che negli ultimi anni della vita, sdegnato con i concittadini, egli abbandonò Roma (pronunciando, secondo Valerio Massimo, la frase « Ingrata patria non avrai le mie ossa ») per ritirarsi nella sua villa di Literno dove, cagionevole di salute, morì a circa cinquant'anni.

Grandissimo generale, a giudizio dello stesso Annibale, che lo avrebbe incontrato alla corte di Antioco III, nel campo politico, con il suo programma filoellenico ed espansionistico, non ebbe la fortuna che forse si aspettava.

Publio Cornelio Scipione Emiliano

Publio Cornelio Scipione Emiliano (189 ca. - 129 a.C.) (detto anche Africano minore), (Emiliano aveva valore di patronimico, era infatti figlio di Lucio Emilio Paolo il Giovane e fu poi adottato da Publio Cornelio Scipione, il figlio di Publio Cornelio Scipione Africano)

Generale e politico romano. Grande interprete della politica imperiale mediterranea della nobiltà romana, console nel 147 a.C., concluse vittoriosamente la terza guerra punica (149 a.C.-146 a.C.) distruggendo Cartagine (146 a.C.) e la città spagnola di Numanzia (133 a.C.).

Già da giovane, all'età di 17 anni, riusci a conseguire dei notevoli successi militari in Macedonia assieme al padre. Nel 151 a.C. divenne tribuno militare e l'anno successivo legato del console Lucullo. Nel 153 a.C. tornò in Africa, sempre nel ruolo di tribuno militare, con la quarta legione sotto il comando del console Manio Manilio. Nel 147 a.C. raggiunse la carica di console, condusse la guerra contro Cartagine e, dopo un assedio durato tre anni, la sconfisse e la rase al suolo nel 146 a.C. Successivamente riuscì ad ottenere un secondo consolato durante il quale sconfisse i Celtiberi in Spagna distruggendo la città di Numanzia nel 133 a.C. A seguito di questi successi gli furono dati gli appellativi di Africano Minore e di Numantino.

A Roma, grazie all'avvento di Tiberio Gracco, fu approvata la legge agraria, una legge che prevedeva la spartizione dei territori italici conquistati dai romani al popolo. Questi agri infatti erano passati sotto il possesso di importanti famiglie patrizie, che lasciavano il lavoro pesante per la maggior parte a schiavi. L'intenzione di Tiberio Gracco era di spartire i terreni alla Plebe, come già previsto da una antica legge in vigore a Roma ma non rispettata.

Tiberio Gracco venne assassinato lo stesso anno dell'emanazione della legge, ma i suoi seguaci si facevano sentire, specialmente tra la Plebe. Tra i Patrizi occorreva dunque una misura forte per contrastare i voleri del popolo, tanto che fu proposta una dittatura di Scipione l'Emiliano in misura straordinaria.

Le dittature erano state molto comuni nei secoli passati, e consistevano nell'affidare ad una sola persona per sei mesi un comando illimitato, ma in seguito divennero sempre più rare, prima di Silla, infatti, ci fu un periodo di quasi cent'anni senza ricorso a dittatori.

Scipione riuscì a fermare momentaneamente la legge agraria, diventando molto impopolare. Prima del suo discorso per spiegare la necessità dell'abrogazione della legge fu ritrovato morto. I motivi del suo decesso rimangono tuttora ignoti. Molti si divisero, qualcuno pensò che si fosse trattato di qualche sostenitore dei Gracchi, qualcun'altro si limitò a pensare ad una morte naturale (l'amico Lelio pensò anche ad un suicidio motivato dalle difficoltà trovate nel soddisfare le esigenze degli alleati italici e latini). Cicerone attribuisce la causa ai parenti, in particolare alla moglie Sempronia, sorella di Gaio Gracco e di Tiberio Gracco.

Marco Porcio Catone 

Marco Porcio Catone (234 a.C., Tusculum nei pressi dell'odierna Frascati - 149 a.C.) fu un uomo politico e scrittore latino romano, soprannominato "il Censore", per distinguerlo da Catone il giovane (il suo bis-nipote).

Nacque in un' antica famiglia plebea, che si era fatta notare per qualche servizio militare, ma non nobilitata dal fatto di aver rifiutato le più importanti cariche civili. Fu allevato, secondo la tradizione dei suoi antenati latini, perché divenisse agricoltore, attività alla quale egli si dedicò costantemente quando non fu impegnato nel servizio militare. Ma, avendo attirato l'attenzione di Lucio Valerio Flacco, fu condotto a Roma, e divenne successivamente questore (204), edile (199), pretore (198) e console nel 195 assieme al suo vecchio protettore; nel 184 divenne infine censore.

Nel 191 a.C. ricoprì il ruolo di tribuno militare nella guerra contro Antioco di Siria, e giocò un ruolo importante nella battaglia delle Termopili, che segnò la fine dell'invasione seleucida della Grecia.

La sua reputazione di soldato era quindi consolidata; da quel momento in poi egli preferì servire lo stato a casa, esaminando la condotta morale dei candidati alle cariche pubbliche e dei generali sul campo. Pur non essendo egli personalmente coinvolto nel processo per corruzione contro gli Scipioni (l'Africano e l'Asiatico), fu tuttavia lo spirito che animò l'attacco contro di loro. Persino Scipione l'Africano, che si rifiutò di rispondere all'accusa, trovò necessario ritirarsi, auto-esiliandosi, nella sua villa a Liternum. L'ostilità di Catone risaliva alla campagna d'Africa quando discusse con Scipione per l'eccessiva distribuzione del bottino tra le truppe, e la vita sfarzosa e stravagante che quest'ultimo conduceva.

Catone si oppose inoltre al diffondersi della cultura ellenistica, che egli riteneva minacciasse di distruggere la sobrietà dei costumi del vero romano. Fu nell'esercizio della carica di censore che questa sua determinazione fu più duramente esibita, e il motivo dal quale gli derivò il suo celebre soprannome. 

Revisionò con inflessibile severità la lista dei senatori e degli equites, cacciando da ogni ordine coloro che riteneva indegni, sia per quanto riguarda la moralità sia per la mancanza dei requisiti economici previsti. L'espulsione di Lucio Quinto Flaminio per ingiustificata crudeltà fu un esempio della sua rigida giustizia.

La sua lotta contro il lusso fu assai serrata. Impose una pesante tassa sugli abiti e gli ornamenti personali, specialmente delle donne, e sui giovani schiavi comprati come concubini o favoriti domestici (quindi superflui). 

Nel 181 a.C. appoggiò la lex Orchia (secondo altri egli prima si oppose alla sua introduzione, e successivamente alla sua abrogazione), la quale prescriveva un limite al numero di ospiti in un ricevimento, e nel 169 a.C. la lex Voconia, uno dei provvedimenti che intendevano impedire l'accumulo di un'eccessiva ricchezza nelle mani delle donne.

Riguardo le altre questioni egli fece riparare gli acquedotti, pulire le fognature, impedì a soggetti privati di deviare le acque pubbliche per il loro uso personale, ordinò la demolizione di edifici che ostruivano le vie pubbliche, e costruì la prima basilica nel foro vicino alla Curia. Aumentò inoltre la somma dovuta allo stato dai pubblicani per il diritto di riscuotere le tasse e allo stesso tempo diminuì il prezzo contrattuale per la realizzazione di lavori pubblici.

Dalla data della sua carica di censore (184 a.C.) alla sua morte nel 149 a.C., Catone non occupò nessun'altra carica pubblica, ma continuò a distinguersi in senato come tenace oppositore ad ogni nuova influenza. Fu assai disgustato, assieme a molti altri dei romani più conservatori, alla diffusione dei riti misterici dei Baccanali, che egli attribuì all'influenza negativa dei costumi greci; e perciò sollecitò con veemenza l'espulsione dei filosofi greci, che erano giunti come ambasciatori da Atene, sulla base della pericolosa influenza che avevano le idee diffuse da questi.

Catone provava ripugnanza per i medici, che erano principalmente greci. Ottenne il rilascio di Polibio, lo storico, e dei suoi compagni prigionieri, chiedendo sprezzante perché il senato non avesse niente di più importante da discutere se qualche greco doveva morire a Roma o nella loro terra. Non era ancora ottantenne che, secondo quanto dicono le fonti biografiche, ebbe il suo primo contatto con la letteratura greca, sebbene dopo aver esaminato i suoi scritti è verosimile ritenere che possa aver avuto un contatto con le opere greche per gran parte della sua vita.

Il suo ultimo impegno pubblico fu di spronare i suoi compatrioti verso la terza guerra punica e la distruzione di Cartagine. Nel 157 a.C. fu uno dei delegati mandati a Cartagine per arbitrare tra i cartaginesi e Massinissa, re di Numidia. La missione fu fallimentare e i commissari ritornarono a casa. Ma Catone fu colpito dalle prove della prosperità dei cartaginesi a tal punto da convincerlo che la sicurezza di Roma dipendesse dalla distruzione totale di Cartagine.

Per Catone la vita individuale era un continuo auto-disciplinarsi, e la vita pubblica era la disciplina dei molti. Egli riteneva il singolo pater come il principio della famiglia, e la famiglia come il principio dello stato. Attraverso una rigida organizzazione del suo tempo egli realizzò un'enorme quantità di lavoro; pretese inoltre la medesima applicazione dai suoi dipendenti, e si dimostrò un marito e un padre severo, un inflessibile e crudele padrone. Ci fu apparentemente poca differenza, nel modo in cui trattava sua moglie e i suoi schiavi; il suo orgoglio soltanto lo indusse a prestare una più calorosa attenzione verso i figli.

Catone forse merita ancora più riguardo come letterato che come statista o soldato. Egli fu un annalista, il primo prosatore romano di una qualche importanza, e il primo autore di una storia di Roma in latino. Il suo trattato sull'agricoltura è l'unico suo lavoro che è ci è pervenuto integro, anche se non c'è accordo se l'opera che possediamo è l'originale o una revisione postuma. Contiene una raccolta di regole per il buon padre di famiglia, consegnandoci molte informazioni curiose sulle abitudini domestiche dei romani della sua epoca. La sua opera più importante, le Origines, organizzata in sette libri, racconta la storia di Roma dalla fondazione fino ai suoi tempi. Fu chiamata così per il secondo e il terzo libro, che descrivono la nascita e lo sviluppo delle diverse città italiane. Alcuni sostengono che se non fosse stato per il suo impatto sulla prosa latina, la lingua latina sarebbe potuta essere sostituita da quella greca.  

Caio Giulio Cesare 

Caio Giulio Cesare, (Como, 13 luglio 100 a.C. – Nicomedia, 15 marzo 44 a.C.) è stato un politico, generale e scrittore latino nonché personalità fra le più influenti e celebri della storia al punto di essere chiamato tanto Giulio Cesare quanto semplicemente Cesare, lasciando la lettura di tutti i nomi agli altri Cesari della storia Romana.

Ebbe un ruolo cruciale nella transizione del sistema di governo dalla forma repubblicana a quella imperiale. Le sue conquiste militari in Gallia Transalpina estesero il dominio della Repubblica fino all'Atlantico e al Reno. Portò gli eserciti romani ad invadere per la prima volta la Britannia, nel 55 a.C..

La spartizione del potere con Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso (Primo Triumvirato) segnò l'inizio della sua ascesa. Alla morte di Crasso (Carre, 53 a.C.), Cesare si scontrò con Pompeo e la fazione degli Optimates per il controllo dello stato. 

Di ritorno dalla Gallia, guidando le sue legioni attraverso il Rubicone, Cesare scatenò nel 49 a.C. la guerra civile, che lo consacrò capo indiscusso di Roma: sconfisse Pompeo a Farsalo (48 a.C.) e successivamente gli altri Ottimati, tra cui Catone Uticense, in Africa e in Spagna.

Divenuto dittatore a vita, diede inizio a un processo di radicale riforma della società e del governo di Roma, riorganizzando e centralizzando la burocrazia repubblicana.

Il suo operato provocò la reazione dei conservatori, finché un gruppo di senatori capeggiati da Marco Giunio Bruto non cospirò contro di lui, uccidendolo, alle Idi di Marzo del 44 a.C.. Nel 42 a.C., appena due anni dopo il suo assassinio, il Senato lo santificò ufficialmente elevandolo a divinità. L'eredità riformatrice e storica di Cesare venne quindi raccolta da Ottaviano Augusto, suo nipote e figlio adottivo.

BIOGRAFIA - Giulio Cesare nacque a Roma da un'antichissima e nota famiglia patrizia, la Gens Julia o Iulia, figlio del principe troiano Enea, secondo il mito figlio a sua volta di Venere. Al culmine del suo potere, nel 45 a.C., Cesare per sottolineare la sua discendenza dalla dea dedicò a Venere Genitrice un tempio nel nuovo Foro da lui fatto costruire.

Nonostante le aristocratiche origini, la famiglia di Cesare non era ricca per gli standard della nobiltà romana; ciò rappresentò inizialmente un serio ostacolo alla sua carriera politica e militare; inoltre, negli anni della giovinezza di Cesare, suo zio Gaio Mario era stato dichiarato nemico della Repubblica. Suo padre era Gaio Giulio Cesare il Vecchio, la cui sorella Giulia aveva sposato Gaio Mario; la madre era Aurelia Cotta, proveniente da una notabile famiglia che aveva dato a Roma numerosi consoli. La famiglia viveva in una modesta casa nella Suburra, dove il giovane Giulio Cesare fu educato da un illustre grammatico nativo della Gallia, Marco Antonio Gnifone.

Cesare trascorse il suo periodo di formazione in un epoca tormentata da gravi disordini. Mitridate VI, Re del Ponto, minacciava le province orientali; contemporaneamente, La Guerra sociale era in corso a Roma, con la città divisa in due fazioni contrapposte: gli Optimates, favorevoli al potere aristocratico, e i Populares o democratici, che sostenevano la possibilità di rivolgersi direttamente all'elettorato. Pur se di nobili origini, fin dall'inizio della sua carriera Cesare si schierò dalla parte dei Populares, scelta sicuramente condizionata dalle convinzioni di suo zio Gaio Mario, capo dei Populares e rivale di Lucio Cornelio Silla, sostenuto da aristocrazia e Senato.

Nell'86 a.C. il padre e lo zio Gaio Mario morirono, e nell'84 Cesare ripudiò la sua promessa sposa Cossuzia per sposare Cornelia, figlia di Lucio Cornelio Cinna, alleato e amico di Gaio Mario. Il nuovo legame con una famiglia notoriamente schierata con i popolari, oltre alla parentela con Mario, causarono problemi non indifferenti al giovane Cesare negli anni della dittatura di Silla. 

Questi cercò di ostacolarne in tutti i modi le ambizioni, bloccando la sua nomina a flamen dialis; la situazione poi si aggravò quando il dittatore, avuta la meglio su Mitridate VI, rientrò in Italia e sconfisse i seguaci di Mario nella Battaglia di Porta Collina, l'82 a.C.. 

Ormai capo indiscusso di Roma, Silla si autoproclamò dittatore a vita, e iniziò ad eliminare i suoi avversari politici; ordinò a Cesare di divorziare da Cornelia, poiché non era patrizia, ma Cesare rifiutò e temendo per la sua vita lasciò Roma, prima ritirandosi in Sabina e poi, raggiunta la giusta età, partendo per il servizio militare in Asia, come legato di Marco Minucio Termo.

Fu Minucio ad ordinare al giovane legato di recarsi presso la corte di Nicomede, sovrano del piccolo stato della Bitinia. In ogni modo, come legato di Minucio durante l'assedio di Mitilene, Cesare partecipò per la prima volta ad uno scontro armato, distinguendosi per il suo coraggio, tanto che gli fu conferita la corona civica, che veniva conferita al primo che attraversasse le mura di una città in battaglia. In seguito alle riforme promulgate da Silla a chi fosse stata conferita una corona militare sarebbe stato garantito l'accesso al senato.

Rientrato a Roma Minucio, Cesare rimase in Asia Minore, partecipando come patrizio romano a diverse operazioni militari che si svolsero in quella zona, come l'azione contro i pirati sotto il comando di Servilio Isaurico.

Dopo due anni di potere assoluto, Silla si dimise da dittatore ristabilendo il governo consolare. Cesare rientrò a Roma solo quando ebbe notizia della morte di Silla (78 a.C.), e il suo ritorno coincise con il tentativo di ribellione anti-silliana capeggiato da Marco Emilio Lepido e bloccato da Gneo Pompeo. Cesare, non fidandosi delle capacità di Lepido, non partecipò alla ribellione, e iniziò invece a dedicarsi alla carriera forense come pubblico accusatore e quella politica come esponente dei popolari e nemico dichiarato degli ottimati.

Cesare sostenne l'accusa contro Gneo Cornelio Dolabella per concussione e contro Gaio Antonio Ibrida per estorsione nei confronti dei Greci; entrambi gli accusati erano membri influenti del partito degli ottimati e in entrambi i casi, anche se l'accusa fu portata con dovizia, perse le cause; tuttavia in questo modo si accreditò come importante rappresentante tra i popolari, anche se l'esito per lui negativo dei processi lo convinse a lasciare Roma una seconda volta. Mentre si recava a Rodi per i suoi studi di filosofia fu rapito dai pirati, e egli stesso convinse i rapitori a chiedere un riscatto molto alto, in modo da aumentare così il suo prestigio a Roma. Dopo la liberazione organizzò una spedizione, catturò i pirati e li fece condannare a morte per crocifissione.

Dopo aver retto la carica di questore in Spagna (69 a.C.), Cesare fu eletto edile curule nel 65 a.C., pontefice massimo nel 63 a.C. e pretore nel 62 a.C.. Aderì al programma antioligarchico di Catilina e sostenne il suo progetto di congiura, ma non ne rimase danneggiato.

Cesare era stato anche al servizio del generale Pompeo, con il quale avrebbe più tardi diviso il potere. Dopo la morte della moglie Cornelia 68 a.C., sposò Pompea, nipote di Silla, per poi divorziare da lei nel 62 a.C. in seguito a uno scandalo. Nel 61 a.C. Cesare fu governatore della provincia della Spagna ulteriore, e nel 60 a.C. fu eletto console.

Nel 59 a.C., l'anno del suo consolato, Cesare formò una alleanza strategica con due altri capi politici, Crasso e Pompeo. Crasso era l'uomo più ricco di Roma; Pompeo era in quel momento il generale con più successi alle spalle. Cesare portò al servizio dell'alleanza la sua popolarità politica e il suo prestigio. Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare. Questo accordo non ufficiale fu poi chiamato dagli storici Primo Triumvirato.

Nel 59 a.C. fu anche governatore della Gallia Narbonese, della Gallia Cisalpina e dell'Illiria. Come Proconsole in Gallia (58 a.C. - 49 a.C.) ingaggiò la guerra contro vari popoli, sconfiggendo gli Elvezi nel 58 a.C., i Belgi ed i Nervii nel 57 a.C. ed i Veneti nel 56 a.C.. Nel 55 a.C. tentò la prima invasione della Britannia, e nel 52 a.C. sconfisse una coalizione di Galli guidati da Vercingetorige. Il Comandante gallico si trovava assediato ad Alesia, capitale del suo regno, mentre Cesare lo attaccava cingendo la città con una robusta palizzata. Nel frattempo un immenso esercito gallico si era radunato e marciava su Alesia per rompere l'assedio, ma Cesare, avendolo saputo, eresse una seconda palizzata per coprirsi le spalle. I Galli attaccanti furono in questo modo duramente sconfitti e Cesare assicuro' a Roma il dominio sull'intera regione.

Dopo la morte di Crasso, ucciso nel 53 a.C. durante la guerra contro i Parti, si aprì una spaccatura fra Cesare e Pompeo, ingigantita anche dalla morte di Giulia, figlia di Cesare nonché moglie di Pompeo, in seguito al parto. Invitato nel 50 a.C. dal Senato a sciogliere il suo esercito di ritorno dalla Gallia, Cesare rifiutò provocando lo scoppio della guerra civile. Un indovino allertò Cesare sulla sua futura sorte: gli fu raccomandata prudenza sul Rubicone, il fiume che allora segnava il confine del pomerio e dei territori controllati da Roma e che un generale non poteva passare in armi.

Cesare varcò il fiume il 10 gennaio del 49 a.C., e inseguì Pompeo fino a Brindisi, sperando di poter rimettere in piedi un'alleanza ormai vecchia di dieci anni. Tuttavia Pompeo lo evitò e Cesare compì allora una sorprendente marcia di 27 giorni sino in Spagna, per incontrarvi il luogotenente di Pompeo. Successivamente si diresse di nuovo verso oriente, per sfidare Pompeo in Grecia. Il 10 luglio del 48 a.C. evitò di poco una catastrofica sconfitta a Dyrrhachium (Durazzo), mentre la battaglia decisiva ebbe luogo a Farsalo, il 9 agosto del 48: Cesare sconfisse il suo ex alleato e amico e fu quindi nominato console per 5 anni, mentre Pompeo fuggì in Egitto, dove fu poi assassinato da un sicario del re Tolomeo XIII.

Non contento del vantaggio guadagnato, Cesare si recò egli stesso in Egitto, e qui si impegnò per sostenere Cleopatra, che per la legge egiziana divenne sua moglie e dalla quale ebbe un figlio, (Cesarione, poi fatto uccidere da Ottaviano Augusto). Quindi sconfisse successivamente gli ultimi sostenitori di Pompeo a Tapso (46 a.C.) e Munda (45 a.C.).

Dopo esser stato nominato dictator per 10 anni nel 46 a.C., divenne l'anno seguente dittatore e Console a vita e fu chiamato Padre della Patria. Sempre nel 46, nella sua qualità di Pontefice Massimo, promulgò il calendario giuliano, basato sul ciclo delle stagioni ed elaborato dall'astronomo egiziano Sosigene di Alessandria. Esso fu da allora il calendario ufficiale di Roma e dei suoi domini (la Chiesa ortodossa tuttora usa il calendario giuliano come proprio calendario liturgico). Il mese di quintilis fu ribattezzato iulius in suo onore.

Furono erette sue statue a fianco di quelle degli antichi re ed ebbe un trono d'oro in Senato ed in Tribunato. Nella Vita di Augusto, Nicolao Damasceno racconta che una mattina su una di queste statue venne posto un diadema, ritenuto simbolo di regalità e di schiavitù. Due tribuni della plebe, Lucio e Gaio, sconcertati, fecero togliere il diadema e accusarono Cesare di volersi proclamare re di Roma, ma questi convocò immediatamente il Senato e accusò a sua volta i tribuni di aver posto il diadema per screditarlo: i due vennero cacciati e sostituiti.

Ancora più importante è l'episodio dei Lupercali, una festività romana durante la quale Marco Antonio mise un diadema sulla testa di Cesare. Questi lo rifiutò e lo gettò via, ma Antonio lo ripose per una seconda volta. Il popolo allora applaudì e lo salutò dicendo "Salve, re!". In risposta Cesare ordinò di mettere il diadema sulla testa di Giove Ottimo Massimo, la maggiore divinità romana.

Cesare fu assassinato in Campo Marzio nei pressi del Teatro di Pompeo, (dove si riuniva il Senato dopo che la sua sede era andata distrutta in un incendio), alle Idi di marzo (15 marzo) del 44 a.C.. Fu accoltellato da un gruppo di cospiratori nostalgici della Repubblica, che mal sopportavano il suo potere assoluto e lo accusavano di avere ambizioni monarchiche. Fra i cospiratori c'era Bruto, forse suo figlio naturale; il secondo attentatore eccellente fu Gaio Cassio Longino, altro repubblicano che come Bruto, aveva ottenuto da Cesare la grazia.

Dopo la sua morte, scoppiò una lotta fra i suoi nipoti per accaparrarsi il potere: il figlio adottivo Ottaviano, il suo luogotenente Marco Antonio, ed i suoi assassini Bruto e Cassio. Ottaviano in seguito prevalse e divenne il primo Imperatore Romano, con il nome di "Cesare Augusto".

Tiberio Sempronio Gracco    

Tiberio Sempronio Gracco (Roma, 163 a.C. - ivi 132 a.C.). Figlio maggiore dell'omonimo Tiberio Sempronio Gracco e di Cornelia, figlia di Publio Cornelio Scipione Africano.

Poco più che fanciullo fece parte dei sacerdoti Auguri grazie anche all'approvazione dell'influente senatore Appio Claudio che poco più tardi gli darà in moglie la figlia Claudia. Nel 146 a.C. all'età di diciassette anni militò in Libia sotto il comando del cognato Scipione Emiliano. Nove anni dopo al suo ritorno a Roma venne eletto questore e dovette partire per la guerra contro i Numantini sotto il comando del console Gaio Mancino.

L'esito della guerra fu disastroso e una volta messi in fuga i Romani i nemici si dichiararono disposti a trattare soltanto con Tiberio Gracco, memori delle gesta del padre che in passato era stato loro alleato. Accettò di trattare con i Numantini anche per recuperare le il diario e le tavole del suo ufficio di questore che erano state rubate nel saccheggio successivo ala fuga romana. Tornato a Roma fu accusato e biasimato per il suo gesto, ma il popolo e le famiglie dei soldati scampati al massacro lo acclamarono come un salvatore.

Fu eletto tribuno della plebe nel 133 a.C. e la sua prima vera iniziativa fu quella di compilare una legge, con l'aiuto del pontefice massimo Crasso e del console Muzio Scevola, per la ridistribuzione delle terre del suolo italico, usurpate dai ricchi ai più poveri e offerte ai forestieri per la lavorazione. La legge limitava l'occupazione delle terre dello stato a 125 ettari e riassegnava le terre eccedenti ai contadini in rovina. Una famiglia nobile poteva avere 500 iugeri di terreno, più 250 per ogni figlio, ma non più di 1000; I terreni confiscati furono distribuiti in modo che ogni famiglia della plebe contadina avesse 37 iugeri.

Il provvedimento era sostenuta dal popolo anche attraverso scritte sui maggiori monumenti e sulle pareti dei portici di Roma fu ricusata sdegnosamente dai ricchi che tentarono inutilmente di incitare una rivolta contro Tiberio.

I possidenti si appoggiarono allora ad un altro tribuno della plebe, il giovane Marco Ottavio, che accettò di porre il veto alla legge agraria. Tiberio in risposta al veto scrisse una legge ancora più restrittiva per i possidenti terrieri e iniziò così una sfida tra i due tribuni che quotidianamente si cimentavano in senato in dure sfide oratorie. Con un nuovo editto proibì ai magistrati di intraprendere affari sino alla votazione della legge e questi come risposta si dimisero dalle loro cariche arrivando anche ad assoldare sicari per far uccidere Tiberio.

Il giorno nel quale il popolo fu chiamato a votare i nemici di Tiberio asportarono le urne creando gran tumulto, ma lo scontro fu evitato anche grazie alla mediazione dei consolari Manlio e Fulvio che lo convinsero a rimettersi al senato. La discussione in assemblea fu però infruttuosa e così Tiberio fu costretto a proporre la destituzione di Ottavio che il giorno dopo fu approvata dal concilio della plebe portando così anche all'approvazione della legge; ma il clima era sempre infuocato e nonostante i gesti distensivi di Tiberio nei confronti dell'avversario, Ottavio fu a fatica sottratto dalle grinfie della folla inferocita.

Sorvegliare l'equità della divisione spettò, oltre allo stesso Tiberio, al suocero Appio Claudio e al fratello Gaio Gracco. Intanto l'opposizione dei più ricchi si faceva sempre più estenuante e andava dal rifiuto di costruire un edificio pubblico preposto alla causa della legge agraria fino all'avvelenamento di un amico di Tiberio.

alla sua morte il re di Pergamo Attalo III Filopatore lasciò in eredità le sue terre e le sue ricchezze al popolo romano. Tiberio propose che il suo patrimonio fosse destinato all'acquisto di sementi e attrezzi agricoli per i nuovoi proprietari e che le nuove terre fossero anch'esse divise tra la plebe.

Intanto i suoi amici pensarono di farlo candidare nuovamente al tribunato e perciò doveva in tutti i modi accattivarsi in maniera esponenziale i favori della plebe. Propose leggi sull'abrogazione del servizio militare per lungo tempo, sulla concessione del diritto all'appello contro tutti i magistrati e sull'ingresso in senato di un maggior numero di cavalieri.

Il giorno della votazione non disponeva però della maggioranza ed i suoi alleati fecero ostruzionismo fino al rinvio dell'assemblea al giorno dopo: Tiberio scoppiò a piangere per paura di possibili attentati alla sua persona suscitando commozione nel popolo che si offrì di sorvegliare la sua casa durante la notte.

La mattina seguente al Campidoglio, dove era radunato il popolo per votare, c'era un tale rumore che non si riusciva a parlare. Tiberio fu informato che i suoi nemici avevano un piano per uccidere il console Muzio Scevola e negli sviluppi dell'assemblea cominciò a diffondersi il panico, con i sostenitori di Tiberio che impugnarono le lance come per difendersi.

I nemici di Tiberio corsero al Senato e denunciarono il fatto: il senatore Nasica esortò i suoi a far rispettare la legge e i suoi partigiani marciarono armati fino al Campidoglio. Ne seguì una carneficina nella quale persero la vita oltre trecento cittadini romani e tra loro lo stesso Tiberio. Il suo cadavere fu gettato nel Tevere e i suoi amici condannati a morte o esiliati senza processo.

Il senato non si oppose però alla spartizione delle terre ed elesse come nuovo esecutore il suo parente Publio Crasso. Nasica fu ripetutamente offeso e minacciato ed il senato decise di mandarlo in Asia per precauzione. La sua opera sarà poi continuata dal fratello Gaio.

Gaio Sempronio Gracco  

Gaio Sempronio Gracco (154 a.C. - 121 a.C.), fratello di Tiberio, eletto tribuno della plebe, riprese l'opera di riforma sociale intrapresa dal fratello maggiore nel 123 a.C., 10 anni dopo.

Per ottenere il consenso della plebe cittadina e degli equites fece approvare alcune leggi, di cui la più importante prevedeva che lo Stato comprasse il grano dai privati per rivenderlo a prezzi minori, e per rendere possibile ciò propose di sfruttare la provincia d'Asia con addetti alla riscossione delle tasse. Concepì così una riforma di più ampio respiro proponendo leggi che prevedevano il consolidamento del potere tribunizio, l'eliminazione dei tribunali speciali, l'istituzione di colonie, la concessione della cittadinanza romana ai latini e agli italici la cittadinanza latina, le leggi frumentarie. 

Dopo esser stato rieletto nel 122 a.C. i patrizi gli contrapposero nel 121 a.C. Livio Druso che riuscì con la demagogia a sobillare il popolo provocando disordini. Grazie a questi disordini, il Senato proclamò il "Senatum Consultum Ultimum", durante il quale i magistrati potevano prendere qualsiasi decisione. Capendo che poteva essere messo a morte da un momento all'altro e non riuscendo a farsi eleggere per la terza volta tribuno, Gaio Sempronio si fece uccidere da uno schiavo nei pressi del bosco sacro della ninfa Furrina.

Caio Mario  

Mario, generale e uomo politico romano, nacque nel 157 a.C. ad Arpino nel Lazio meridionale, precisamente nella frazione che ancora oggi porta il suo nome: Casamari. 

Nato da oscura famiglia, ancora legata ai parsimoniosi e duri costumi degli agricoltori latini, Mario non ebbe modo di avvicinarsi alla cultura romana né tantomeno a quella greca. Ma il suo coraggio e le sue doti militari lo imposero all'attenzione di Scipione l'Emiliano durante il suo servizio in Spagna, che lo indicò suo degno successore. Con l'aiuto della gens Metella divenne tribuno della plebe e durante questa carica rivelò le sue simpatie per la causa popolare. 

Dapprima combatté in Spagna sotto il generale Scipione Emiliano; nel 119 a.C. diventò tribuno della plebe e si sposò con una giovane appartenente alla gens Giulia. Pretore nel 115 a.C., ritornò in Spagna per condurre una campagna contro i briganti che terrorizzavano il paese. Accompagnò poi il generale romano Quinto Cecilio Metello in Africa (109 a.C.); due anni dopo, eletto console, ebbe il comando della guerra contro Giugurta, re di Numidia, che catturò con l'aiuto del proquestore Lucio Cornelio Silla nel 106 a.C.

Dopo aver sottomesso la Numidia, Mario diventò console per la seconda volta nel 104 a.C.; ebbe poi il comando nella guerra contro le tribù germaniche dei teutoni e dei cimbri: sconfisse i primi ad Aquae Sextiae (oggi Aix-en-Provence) nel 102 a.C. e i secondi l'anno dopo presso Vercelli. Considerato il salvatore della patria, nel 100 a.C venne riconfermato nella carica di console (per la sesta volta consecutiva).

Quando a Silla, divenuto console, venne affidata la guida della guerra contro il potente re Mitridate VI il Grande nell'88 a.C., Mario, già da tempo in conflitto con il collega di rango patrizio, cercò di privarlo dell'incarico. Scoppiò allora la guerra civile che oppose le due fazioni in cui si divise l'esercito romano: quella "popolare", sostenitrice di Mario, e quella "patrizia" di Silla. In una prima fase prevalse Silla, che costrinse l'avversario a fuggire dall'Italia e gli subentrò come comandante in Asia Minore. Successivamente il conflitto volse a favore di Mario, grazie a Lucio Cornelio Cinna che si schierò con lui e organizzò tumulti a Roma. Sulla capitale si diressero le truppe di Mario e Cinna che, dopo la resa della città, massacrarono gli aristocratici della fazione di Silla. I due vincitori si proclamarono consoli (86 a.C.) ma, pochi giorni dopo, Mario morì.

Lucio Cornelio Silla  

Silla, Lucio Cornelio (Roma 138 - Cuma 78 a.C.), uomo politico e generale romano, dittatore dall'82 al 79 a.C. Membro della famiglia patrizia dei Cornelii, Silla intraprese la carriera militare nel 107 come questore di Caio Mario, nella guerra giugurtina (111-106) in Africa, riuscendo a farsi consegnare da Bocco I, re di Mauretania (che regnò dal 111 all'80), il re di Numidia, Giugurta. 

Questo episodio pose termine alla guerra, ma fece nascere una rivalità tra Mario e Silla; questi, comunque, rimase sottoposto al primo fino al 103, partecipando anche alla campagna contro i Cimbri e i Teutoni (104-101). Nel 93 divenne pretore e l'anno seguente propretore in Cilicia. Dopo aver vinto la guerra sociale (90-88) che aveva contrapposto i Romani agli alleati italici, che rivendicavano la parità giuridica, Silla divenne console; in quello stesso anno (88) fu investito del comando della guerra contro Mitridate VI, re del Ponto. 

Tuttavia Mario, che era a capo dei popolari (il partito della plebe) e da tempo nemico di Silla, capo degli ottimati (il partito degli aristocratici), cercò di privarlo del comando. Silla marciò allora su Roma dando inizio alla guerra civile. Proscritto Mario stesso, Silla partì per l'Asia Minore, dove vinse Mitridate nell'83. Ritornato a Roma, debellò la potente fazione mariana, che nel frattempo si era ricostituita: proclamatosi dittatore (82-79) fece condannare a morte o all'esilio molti sostenitori di Mario. Riformò la costituzione, restituendo il potere ai senatori e agli aristocratici, e impose severi controlli sull'operato dei tribuni e di altri magistrati. Riorganizzò i tribunali, aumentando il numero delle quaestiones perpetuae, tribunali speciali permanenti incaricati di giudicare singoli specifici delitti. Nel 79 rinunciò alla dittatura e si ritirò in Campania, dove morì.

Gneo Pompeo Magno  

Gneo Pompeo Magno è il più noto personaggio della gens Pompea (106 a.C., Picenum - 48 a.C., Egitto). Generale e politico Romano, figlio di Gneo Pompeo Strabone, fu prima alleato e poi avversario di Cesare.

Pompeo Magno nacque il 28 settembre 106 a.C., come figlio di Gneo Pompeo Strabone, un uomo estremamente ricco proveniente dal Piceno. Questo ramo della famiglia dei Pompei era tradizionalmente provinciale, il che lo sottoponeva inevitabilmente ai pregiudizi della elite Romana. La sua famiglia aveva raggiunto il consolato per la prima volta solo 35 anni prima. Di conseguenza aveva un background rispettabile ma un po' troppo provinciale, un leggero neo che lo ha segnato durante tutto la sua competizione politica con i più potenti patrizi di Roma.

Suo padre, Pompeo Strabone, era un importante generale ed il primo della famiglia a diventare senatore, essendo stato eletto console il 89 a.C.. Pompeo crebbe con il suo padre negli accampamenti militari, coinvolto con l'esercito e gli affari politici. Strabone aveva combattuto prima con Gaio Mario, poi con Silla nelle guerre civili dell'88-87 a.C.. A 17 anni, Pompeo era oramai completamente coinvolto nelle guerre di suo padre. Inoltre aveva un suo protetto, un giovane ufficiale suo coetaneo, Marco Tullio Cicerone.

Strabone morì nei conflitti tra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, lasciando al giovane Pompeo il controllo dei suoi affari e della sua fortuna. Malgrado la sua gioventù, Pompeo fu al fianco di Silla dopo il suo ritorno dalla guerra Mitridatica il 83 a.C.. A Roma, Silla prevedeva difficoltà con Cinna ed trovò il giovane 23enne, e le tre legioni di veterani di suo padre, utili. Questa alleanza politica accelerò la carriera di Pompeo a Roma. Silla, ora dittatore, con il controllo assoluto della città, forzò il divorzio dal marito di Emilia Scaura, la figliastra incinta per farle sposare il suo giovane alleato. Pompeo era semplicemente felice di divorziare da Antistia, una matrona provinciale e di prendere la patrizia Emilia.

Il giovane Pompeo era ora in un'ottima posizione nei ranghi di Silla. Durante le campagne di Silla attraverso l'Italia, Pompeo incontrò due individui che avrebbero entrambi modellato il futuro suo e di Roma: Marco Licinio Crasso e Gaio Giulio Cesare. Pompeo venne a contatto con Crasso nell'esercito. Crasso, come Pompeo, era stato lasciato con una piccola fortuna e con la forza militare di suo padre ed aveva parteggiato per Silla. I due avrebbero sviluppato una rivalità che sarebbe durata negli anni a venire. Pompeo incontrò per la prima volta Cesare quando Silla portò Cesare davanti a lui e chiese a Cesare di divorziare da sua moglie Cornelia, la figlia di Cinna. Quando Cesare rifiutò, Silla lo perdonò. Quando Pompeo encomiò l'azione, Silla rispose dicendo che desiderava lasciare alcuni nemici vivi per le avventure successive. Pompeo vide Cesare così non tanto come un nemico, ma come un ostacolo rispettato. Alcuni rapporti dell'evento suggeriscono che Pompeo fosse ispirato dal rifiuto di Cesare a divorziare da sua moglie, che gli ricordava lo stesso scenario che Pompeo aveva affrontato soltanto due anni prima.

Pompeo era un uomo molto ricco e un generale di talento con il controllo di tre legioni di veterani, era ambizioso di gloria e potere. Felice di recepire i desideri del genero e di riordinare la sua situazione come dittatore, Silla inviò Pompeo in Sicilia per recuperare dai Mariani l'isola con il suo inestimabile rifornimento di grano.

La Sicilia era strategicamente molto importante, poiché produceva la maggior parte del grano per Roma. Senza la popolazione della città avrebbe sofferto la fame e ci sarebbero certamente state delle sommosse. Pompeo si occupò della resistenza con mano dura, scacciò le forze avversarie dalla Sicilia e poi andò in Africa, in cui continuò la sua serie ininterrotta di vittorie nel 82-81 a.C. 

Il suo sterminio spietato delle forze avversarie generò un odio amaro fra i Mariani sopravvissuti. Proclamato sul campo Imperator dalle sue truppe in Africa, Pompeo richiese un trionfo per le sue vittorie africane. Pompeo rifiutò di sciogliere le sue legioni e si presentò con la sua richiesta alle porte di Roma dove, Silla consentì ad assegnargli il trionfo. È anche su questo punto che Pompeo si guadagnò il cognomen di Magno, cioè Grande.

La reputazione di Pompeo genio militare, e gli occasionali giudizi negativi, continuarono quando richiese l'imperium proconsolare per andare in Spagna e combattere contro Sertorio, un generale Mariano che continuava a governare la Spagna. 

Pompeo rifiutò di sciogliere le sue legioni fino a che la sua richiesta non fu accettata e si unì con Metello Pio contro Sertorio. La campagna contro la brillante guerriglia del generale durò dal 76 a.C. al 71 a.C.. È significativo che la guerra infine fu vinta solo grazie all'assassinio di Sertorio e non perché Pompeo o Metello Pio fossero stati in grado di ottenere una netta vittoria sul campo di battaglia.

Nei mesi successivi alla morte del Sertorio, tuttavia, Pompeo rivelò uno dei suoi talenti più significativi: il genio per l'organizzazione e la gestione di una provincia conquistata. Sistemi di governo giusti e generosi fecero estendere il suo controllo su tutta la Spagna e sulla Gallia meridionale. Fu quando Marco Licinio Crasso si trovò in difficoltà contro Spartaco alla fine della rivolta degli schiavi del 71 a.C., che Pompeo tornò in Italia con il suo esercito per mettere fine alla sommossa.

Gli avversari si lagnarono e, specialmente Crasso, sostennero che Pompeo stava sviluppando azioni per arrivare alla fine della campagna e raccogliere tutta la gloria per il successo ottenuto. Ciò avrebbe assicurato l'inimicizia perenne tra Crasso e Pompeo, che durò per più di un decennio. Tornato a Roma, Pompeo celebrò il suo secondo trionfo extralegale per le vittorie in Spagna. Gli ammiratori vedevano in Pompeo il generale più brillante dell'epoca. Il 71 a.C., a solo 35 anni, Pompeo fu eletto per la prima volta console, per il 70 a.C. come partner più giovane di Crasso, grazie all'appoggio irresistibile della popolazione romana.

Nel 69 a.C., Pompeo era il beniamino delle masse romane anche se molti Ottimati erano profondamente sospettosi delle sue intenzioni. Il suo primato nello stato fu accresciuto da due incarichi proconsolari straordinari, senza precedenti nella storia romana. Nel 67 a.C., due anni dopo il suo consolato, Pompeo fu nominato comandante di una flotta speciale per condurre una campagna contro i pirati che infestavano il Mar Mediterraneo. Questo incarico, come ogni cosa nella vita di Pompeo, fu circondato da polemiche.

A Pompeo occorsero solo pochi mesi per eliminare dal Mediterraneo il pericolo dei pirati. In tre brevi mesi le forze di Pompeo ripulirono letteralmente il Mediterraneo dai pirati, dimostrando straordinaria precisione, disciplina ed abilità organizzativa. La rapidità della campagna indicò che era un generale di talento anche in mare, con forti capacità logistiche. Pompeo era l'eroe del momento.

Fu allora incaricato di condurre la guerra mitridatica, contro Mitridate VI re del Ponto, in oriente. Questo comando affidava essenzialmente a Pompeo la conquista e la riorganizzazione dell'intero Mediterraneo orientale. Fu il secondo comando sostenuto da Cesare a favore di Pompeo. Questi condusse le campagne dal 65 a.C. al 62 a.C. con tale potenza militare e capacità amministrativa che, Roma annesse gran parte dell'Asia sotto un saldo controllo.

Pompeo non solo distrusse Mitridate, ma sconfisse anche Tigrane il grande, re di Armenia, con cui in seguito fissò dei trattati. Conquistò Antioco XIII di Siria, che annesse e mosse verso Gerusalemme, che conquistò. Pompeo impose una riorganizzazione generale ai re delle nuove province orientali, tenendo intelligentemente conto dei fattori geografici e politici connessi alla creazione di una nuova frontiera di Roma in oriente. Con tutte le sue campagne il Ponto e la Siria divennero province romane e Gerusalemme fu conquistata, tutto a nome di Roma.

Con Tigrane come nuovo amico ed alleato di Roma, la catena dei protettorati romani si estese ad est fino al Mar Nero ed al Caucaso. La quantità di tributi ed il bottino che Pompeo portò a Roma era incalcolabile, l'aumento in tasse al pubblico erario aumentò annualmente da 50 milioni a 85 milioni di dracme. Il suo genio amministrativo era tale che le sue disposizioni resisterono in gran parte identiche fino alla caduta di Roma.

Nel dicembre del 62 a.C., Pompeo infine tornò a Roma con un dilemma su cosa fare. Da una parte desiderava il suo terzo trionfo, d'altro canto desiderava candidarsi per un secondo consolato. Scelse il trionfo, ma non poté candidarsi per il consolato. Se non poteva essere scelto, almeno poteva corrompere gli elettori per scegliere il suo candidato, Affranio. 

Il suo terzo trionfo avvenne il 29 settembre del 61 a.C., celebrando le vittorie sopra i pirati e nel Medio Oriente, e doveva essere un evento indimenticabile a Roma. Due interi giorni furono previsti per l'enorme parata di prede, prigionieri, l'esercito e i vessilli che descrivevano scene di battaglia riempirono tutto la strada tra il Campo Marzio ed il tempio di Giove Ottimo Massimo. Per completare i festeggiamenti, Pompeo offrì un banchetto trionfale e fece parecchie donazioni al popolo di Roma, aumentando ulteriormente la sua popolarità.

Pompeo abilmente allontanò i suoi eserciti, disarmando le preoccupazioni che intendesse passare dalle sue conquiste al dominio di Roma come Dittatore. Tuttavia Pompeo era ancora un tattico supremo; cercò semplicemente nuovi alleati e tirò le file dietro le scene politiche. Gli Ottimati aveva combattuto di nuovo per avere il controllo di gran parte del potere reale del Senato; nonostante i suoi sforzi, Pompeo trovò che le loro azioni era contro di lui. I suoi magnifici accordo in Oriente non furono ratificati subito. Le terre pubbliche che aveva promesso ai suoi veterani non arrivavano. 

D'ora in poi, la strategia politica di Pompeo suggerisce che, anche se aveva fissato una linea prudente per evitare di offendere i conservatori, era sempre più sconcertato dalla riluttanza degli Ottimati a riconoscere i suoi solidi successi. La frustrazione e la costernazione di Pompeo lo avrebbero spinto verso alleanze politiche sconosciute.

Anche se Pompeo e Crasso non avevano stima e fiducia l'uno dell'altro, nel periodo antecedente il 61 a.C. si ritenevano entrambi ostacolati. Una tassa proposta da Crasso era stata rigettata e i veterani di Pompeo erano ignorati. Cesare, di ritorno dal servizio in Spagna e pronto per candidarsi al consolato si inserì tra i due uomini, riuscendo in qualche modo a creare un'alleanza politica sia con Pompeo che con Crasso (il cosiddetto primo triumvirato). Pompeo e Crasso lo avrebbero aiutato ad essere eletto console e lui avrebbe usato il proprio potere di console per favorire le loro leggi. Plutarco cita Catone che più tardi avrebbe affermato che la tragedia di Pompeo non era essere il nemico sconfitto di Cesare, ma essere stato, troppo a lungo amico e sostenitore di Cesare.

Il consolato tempestoso di Cesare del 59 a.C. portò a Pompeo non solo la terra e gli insediamenti che desiderava, ma anche una nuova moglie: la giovane figlia di Cesare, Giulia. Si pensa che Pompeo fosse inebriato dalla sposa. Dopo che Cesare si fu assicurato il comando proconsolare in Gallia alla fine dell'anno consolare, a Pompeo fu dato il governo della Spagna ulteriore e tuttavia gli fu consentito di rimanere a Roma a sorvegliare il rifornimento romano del grano, che era critico, esercitando il comando attraverso subalterni. Pompeo organizzò la fornitura del grano con la usuale eccellente efficienza ma il suo successo negli affari politici era meno sicuro.

Gli Ottimati non gli avevano mai perdonato di aver abbandonato Cicerone quando Publio Clodio aveva imposto il suo esilio; soltanto quando Clodio cominciò ad attaccarlo, Pompeo si persuase ad agire con altri per il richiamo di Cicerone nel 57 a.C.. Una volta che Cicerone fu tornato, la sua usuale magia vocale contribuì a migliorare in parte la posizione di Pompeo, ma molte persone ancora lo vedevano come un traditore per la sua alleanza con Cesare. Altri agitatori provarono a persuadere Pompeo che Crasso stava complottando per assassinarlo.

Cesare, nel frattempo, stava accrescendo la sua fama di genio militare. Dal 56 a.C., i legami fra i tre uomini stavano sfilacciandosi; Cesare chiamò prima Crasso, poi Pompeo, ad una riunione segreta a Lucca per ripensare sia la strategia che le tattiche. In questo momento Cesare non era più il socio sottoposto e silenzioso del trio. A Lucca fu deciso che Pompeo e Crasso avrebbero di nuovo avuto il consolato nel 55 a.C.. Alla loro elezione, il comando di Cesare in Gallia sarebbe stato prolungato per altri cinque anni, mentre Crasso avrebbe ricevuto il comando in Siria. Pompeo avrebbe continuato a governare la Spagnadopo il loro anno consolare. Questa volta, tuttavia, l'opposizione ai tre uomini era elettrica; si ricorse alla corruzione su una scala senza precedenti per assicurare l'elezione di Pompeo e di Crasso nel 55. I loro sostenitori ricevettero la maggior parte dei restanti incarichi importanti. La violenza fra Publio Clodio e le altre fazioni aumentava e l'agitazione civile stava diventando endemica.

Anche se all'inizio Pompeo aveva avuto la presunzione di poter sconfiggere Cesare ed arruolare eserciti soltanto ponendo il suo piede sul suolo dell'Italia, nella primavera del 49 a.C., quando Cesare passò il Rubicone e le sue legioni attraversavano la penisola, Pompeo ordinò di abbandonare Roma.

Gli eserciti si scontrarono nella battaglia di Farsalo nel 48 a.C.. Lo scontro fu duro per entrambi gli schieramenti ma alla fine le truppe del futuro dittatore di Roma conquistarono la vittoria, segnando così l'inequivocabile sconfitta di Pompeo. Come tutti gli altri conservatori, egli dovette fuggire per salvarsi la vita. Incontrò la moglie Cornelia e il figlio Sesto Pompeo sull'isola di Mitilene. Ricongiuntosi con la propria famiglia Pompeo si chiese quindi dove avrebbe potuto recarsi. La decisione fu di fuggire in Egitto.

Arrivato in Egitto, il destino di Pompeo fu deciso dai consiglieri del giovane re Tolomeo. Mentre Pompeo aspettava in mare aperto un accordo, essi proposero di assassinarlo, al fine di ingraziarsi Cesare già in viaggio per l'Egitto. Il 29 settembre, il giorno del suo cinquantottesimo compleanno, Pompeo Magno fu adescato col pretesto di un' udienza a bordo di una piccola barca in cui riconobbe due vecchi compagni d'arme dalle gloriose campagne militari della sua giovinezza. Erano i suoi assassini. Quando si fu seduto nella barca, studiando il suo discorso per Tolomeo, lo pugnalarono alla schiena con una spada ed un pugnale. Dopo la decapitazione, il corpo fu sprezzantemente lasciato incustodito e nudo, sulla spiaggia. Il suo liberto, Filippo, organizzò un semplice funerale e cremò il corpo su una pira del fasciame di una nave.

Cesare arrivò poco dopo. Come regalo di benvenuto ricevette la testa di Pompeo ed il suo anello in un cesto. Tuttavia, non fu contento di vedere il suo nemico, una volta suo alleato e genero, assassinato dai traditori. Depose Tolomeo, fece giustiziare Potino ed elevò Cleopatra al trono dell' Egitto. Cesare diede le ceneri di Pompeo e l'anello a Cornelia, che le portò indietro nelle sue proprietà in Italia.

Alla fine del 45 a.C., Pompeo fu deificato dal senato su richiesta di Cesare. Per ironia della sorte, Cesare fu assassinato, alle Idi di marzo del 44 a.C., nel teatro di Pompeo, ai piedi della statua del suo defunto rivale. Si dice che in punto di morte Cesare abbia rivolto preghiere al suo migliore amico, genero e maggior avversario.

Marco Licinio Crasso

Marco Licinio Crasso (Roma 114 o 115 a.C. - Carre 53 a.C.) appartenente alla gens Licinia, fu un uomo politico romano ed un valoroso generale; era figlio di Publio Licinio Crasso Muciano, faceva parte di una ricca e nobile famiglia romana.

Sfuggito alle persecuzioni di Mario e Cinna, appoggiò Silla durante la guerra civile (83 - 82 a.C.) contribuendo in maniera decisiva alla vittoria presso la porta Collina, allorquando guidò l'ala destra dell'esercito sillano. In questi anni svolse un'intensa attività di affarista e soprattutto di speculatore di beni immobili. Nel 72 a.C. fu pretore.

Volendo accrescere ancor più la sua popolarità nella vita politica di Roma, nel 71 a.C., Crasso ritenne un ottimo trampolino di lancio politico l’impresa che si preparava a compiere e vale a dire il suo intervento al comando di otto legioni contro i servi che si erano ribellati, capeggiati da un gladiatore di nome Spartaco, nella città di Capua. Con una serie di rapide azioni, al comando di un esercito numeroso e ben addestrato, riuscì in poco tempo a soffocare la rivolta servile, vincendo Spartaco in Lucania.

Dopo aver portato a termine con successo la campagna di repressione della rivolta servile, Marco Licinio Crasso ritenne opportuno costruire un alleanza insieme a Pompeo Magno; i due divennero consoli nel 70 a.C.. Entrambi, avevano minacciato il Senato di scatenare una guerra civile in caso di mancata elezione al consolato. Marco Licinio Crasso, eletto censore nel 65 a.C., nel 64 a.C. con Giulio Cesare sostenne Catilina contro Cicerone. Dopo aver revisionato la costituzione di Silla, Crasso strinse alleanza con Giulio Cesare, impegnandosi a sostenerlo per l'elezione al consolato. Una volta console, Cesare, con Crasso e Pompeo, costituì il primo triumvirato nel 60 a.C..

La vittoriosa operazione contro Spartaco e il rapporto di amicizia con Cesare, permisero a Crasso di poter emergere nel quadro politico di Roma e di entrare a far parte del famoso primo triumvirato della storia romana e cioè quello stipulato nel 60 a.C. tra Marco Licinio Crasso, Pompeo Magno e Giulio Cesare. Codesto accordo, combinato segretamente, garantiva ai tre contraenti aiuto reciproco contro il senato per ottenere consistenti vantaggi politici. Ognuno dei tre uomini aveva un suo seguito di adepti e di clienti: queste forze, da sole insufficienti, se coalizzate avrebbero garantito al triumvirato un solido predominio. A seguito di un deterioramento del triumvirato, il quale col passare del tempo aveva visto cedimenti, Cesare decise di convocare Pompeo e Crasso, affinché fosse rinsaldata l’ormai disgregata alleanza.

Nel 56 a.C., infatti i tre alleati riunitisi a Lucca arrivarono ad una conclusione molto importante. In quella sede, si decise la spartizione dell’impero Romano in tre parti che andavano sotto la giurisdizione dei rispettivi tre uomini. Crasso avrebbe ottenuto il governo della Siria, Pompeo quello della penisola Iberica e il proconsolato di Cesare in Gallia sarebbe stato prolungato per altri cinque anni.

Crasso quindi pensò di utilizzare la carica di governatore della Siria per rafforzare il suo prestigio di condottiero, che non poteva assolutamente essere paragonato a quello di Cesare e Pompeo. Decise pertanto di intraprendere una spedizione militare, che puntava all’assoggettamento del regno dei Parti, con il quale Roma aveva, da qualche tempo, rapporti difficili.

Deboli nella fanteria, i Parti potevano contare su una cavalleria molto temibile, che combatteva in modo imprevedibile e applicava una tattica militare del tipo “colpisci e scappa” (la cavalleria attaccava il nemico scagliando una raffica di frecce, evitava il contatto diretto per ritornare a scagliare nuovamente micidiali piogge di dardi).
Crasso difatti, benché avesse un esercito potentissimo, fu sorpreso dalla insolita tattica del nemico e in una pianura della Mesopotamia occidentale, nei pressi della città di Carre, nel 53 a.C. fu sconfitto e ucciso.

Si narra che durante la battaglia suo figlio Publio Licinio Crasso, avendo fallito un attacco al comando di un grossa parte dell'esercito, sia stato ucciso ed un soldato partico gli abbia troncato la testa, infitta poi su un'asta per atterrire i Romani. La disfatta di Carre, fu una delle più drammatiche catastrofi della storia militare di Roma. Con la sua fine ingloriosa, Crasso ruppe l'equilibrio del triumvirato ed aprì la strada verso una nuova guerra civile.

Marco Tullio Cicerone

Marco Tullio Cicerone (Arpino (FR), 3 gennaio 106 a.C. - Formia, 7 dicembre 43 a.C.), esponente di una agiata famiglia dell'ordine equestre, fu un celebre scrittore e filosofo latino, nonché uomo politico dell'ultimo periodo della Repubblica Romana.

Il padre Marco Tullio Cicerone il Vecchio, auspicando per i figli Marco e Quinto una carriera forense e politica, li condusse a Roma dove Marco venne introdotto nel circolo dei migliori oratori del suo tempo, Licinio Crasso e Marco Antonio, e dove poté formarsi contemporaneamente nella giurisprudenza, grazie alla guida di Quinto Mucio Scevola. A 17 anni dovette interrompere gli studi per compiere il servizio militare, che svolse agli ordini dapprima del console Gneo Pompeo Strabone e poi di Lucio Cornelio Silla.

Riprese gli studi interrotti e nell'87 a.C. conobbe il maestro di retorica Apollonio Molone, ascoltò le lezioni degli epicurei Fedro e Zenone, e dell'accademico Filone di Larissa che esercitò in lui un'influenza profonda.

L'ingresso di Cicerone nella carriera forense avvenne ufficialmente nel 81 a.C. con la sua prima orazione pubblica, la Pro Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero esordio nell'oratoria a carattere politico si ebbe con la Pro Roscio Amerino, molto concitata ed a tratti enfatica, che conserva molto di scolastico nello stile patetico ed esuberante.

Tra il 79 ed il 77 a.C. Cicerone viaggiò in Grecia ed in Asia Minore, seguendo ad Atene le lezioni di filosofia di Antioco di Ascalona; a Rodi ebbe la possibilità di conoscere lo stoico Posidonio. Tornato a Roma dopo la morte di Silla e la reazione alla sua politica, iniziò la sua vera e propria carriera politica in un ambiente sostanzialmente favorevole: nel 76 a.C. si presentò come candidato alla questura. 

Eletto alla carica, svolse il lavoro con scrupolo ed onestà tanto che cinque anni dopo i siciliani gli affidarono la causa contro il propretore Verre, reo di aver dissanguato l'isola nel triennio 73-71 a.C.. Cicerone raccolse con zelo le prove della colpevolezza, pronunciò due orazioni preliminari e l'ex governatore, oberato da prove schiaccianti, scelse l'esilio volontario. Le cinque orazioni preparate per le successive fasi del processo furono pubblicate più tardi e costituiscono una importante prova del malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme di Silla. Attaccando Verre, Cicerone attaccò la prepotenza della nobiltà corrotta ma non l'istituzione senatoria, anzi fece proprio appello alla dignità di tale ordine perché estromettesse i membri indegni.

Nel 69 a.C. venne eletto alla carica di edile, nel 66 a.C. diventò pretore con una elezione all'unanimità. Nel 64 a.C. Cicerone presentò la candidatura al consolato per l'anno successivo, e per un gioco delle classi, Cicerone risultò eletto con il voto di tutte le centurie. 

Più tardi si adoperò per far fallire una nuova candidatura al consolato di Catilina, che aveva allarmato i ceti possidenti per il suo progetto di remissione dei debiti. Cicerone alimentò voci di una congiura contro lo stato da parte di Catilina - che preparò poi un'azione rivoluzionaria sventata sempre dal console riconfermato e che costrinse lui a fuggire da Roma, mentre i capi del complotto rivoluzionario furono arrestati. 

A seguito del riemergere dei contrasti tra senatori e pubblicani, e dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni dell'oligarchia senatoria, Cicerone scivolò da parte. L'ultimo tentativo di rientrare nel gioco politico gli fu offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti uomini del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla conclusione dell'accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a Cicerone di appoggiare la legge agraria a favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente. Cicerone, tuttavia, rifiutò non solo per non apparire un traditore dell'aristocrazia, ma anche per l'attaccamento all'ordine legale e sociale di cui gli ottimati si proclamavano difensori.

Dopo questo rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, Cicerone si tenne fuori dalla politica ma questo non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro, nemico di Cicerone per un precedente processo per sacrilegio, fece approvare una legge che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un cittadino romano senza l'appello al popolo. Costretto all'esilio, Cicerone non si diede pace, implorando le sue conoscenze per il suo ritorno. Nel 57 a.C. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro, permettendo a Cicerone di tornare e ricominciare la sua lotta contro il tribuno del popolo.

Nel 56 a.C. Cicerone pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui allargava il suo precedente ideale politico: l'alleanza tra cavalieri e senatori a suo avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione politica. Occorreva quindi un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai populares. Possidenti e plebe si scontravano con l'uso di bande armate, e in uno di questi scontri Milone, organizzatore delle bande dei possidenti, uccise il tribuno Clodio. Al processo per omicidio, Cicerone difese Milone, ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso per il clamore della folla, Milone venne condannato all'esilio.

Nel 51 a.C. come proconsole si recò in Cilicia, proprio mentre i rapporti tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il soggiorno lontano da Roma, i pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia della guerra civile. Tornato in patria, non cessò di invitare le parti alla moderazione alla conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a causa del fanatismo che spingeva Pompeo all'intransigenza nei confronti delle richieste di Cesare. Dopo lo scoppio della guerra, cercò di fare ancora da moderatore, ma lasciando infine l'Italia e seguendo i pompeiani.

La speranza di Cicerone di collaborare al governo di Cesare venne frustrata dalla piega assolutistica e monarchica che prese il governo. L'oratore si ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere filosofico. A questo si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia e la morte della figlia Tullia, seguita dalla separazione dalla seconda moglie Publilia. Dopo la morte di Cesare, durante la stagione delle speranze di restaurazione repubblicana, Cicerone riprese l'attività politica attaccando Marco Antonio con veemenza, pronunciando 14 orazioni dette Filippiche, in analogia a quelle di Demostene contro Filippo II di Macedonia.

Nel tentativo di salvare la Repubblica, proprio Cicerone fu uno di quelli che nutrivano le maggiori speranze sul giovane Ottaviano, il quale, dopo aver battuto Antonio a Modena, scese con lui a patti, gettando le basi per il secondo triumvirato, a seguito del quale vennero compilate lunghe liste di proscrizione. Nonostante Ottaviano non fosse d'accordo, Antonio impose la presenza su di esse anche del nome di Cicerone, che venne ucciso dai sicari presso la sua villa di Formia, il 7 dicembre 43 a.C..

Spartaco

Spartaco (Tracia, 104 a.C. - Lucania, 71 a.C.) è stato un gladiatore romano che capeggiò una rivolta di schiavi, la più impegnativa delle guerre servili che Roma dovette affrontare: viene per questo motivo soprannominato "lo schiavo che sfidò l'impero".

Si racconta che nacque da una famiglia di pastori; intraprese la professione dei padri, ma ridotto in miseria accettò di entrare nell'esercito romano, con cui combatté in Macedonia col grado di milite ausiliario. La dura disciplina cui era obbligato e i numerosi episodi di razzismo che dovette subire all'interno della milizia lo convinsero a disertare e a scappare.

Catturato, fu bollato come un traditore e condannato prima alla schiavitù e in seguito, intorno al 75 a.C., fu destinato a fare il gladiatore. Infatti Spartaco venne venduto a Lentulo Battiato, un organizzatore di spettacoli residente a Capua. Spartaco fu obbligato a combattere contro belve feroci e contro altri gladiatori com'era in uso a quel tempo per divertire popolo e aristocrazia.

Spartaco, resosi conto delle inumani condizioni che Lentulo riservava a lui e agli altri gladiatori in suo possesso, decise di ribellarsi a questo stato di cose e nel 73 a.C. scappò dall'anfiteatro in cui era confinato. Lo seguirono 200 compagni, di cui però solo una settantina arrivarono fino al Vesuvio, la prima tappa della rivolta spartachista. Il comandante Trace, infatti, si fermò ai piedi del famoso vulcano napoletano ed attaccò le città limitrofe.  

Il governo di Roma inviò due pretori, Caio Clodio e Publio Vatinio, a Napoli nel tentativo di reprime la rivolta. Spartaco li sconfisse entrambi in quella che viene denominata "La battaglia del Vesuvio". I successi militari ottenuti da Spartaco fecero aumentare il numero degli schiavi ribelli, che crebbe a tal punto da sconfiggere per altre due volte gli eserciti romani regolari.

Infatti schiavi, braccianti, contadini poveri e pastori dei territori circostanti cominciarono ad aderire alla rivolta. Sicché la linea di blocco posta intorno al Vesuvio fu spezzata e più divisioni romane furono nettamente sconfitte in Campania.

Il successo militare più eclatante ottenuto dai rivoluzionari fu quello conseguito contro il pretore Publio Varinio ed i suoi luogotenenti: Spartaco non si limitò a sconfiggere i soldati, ma riuscì anche a impadronirsi persino dei cavalli e dei simboli littori dell'esercito. Da questa posizione egli riuscì a dominare su tutta la ricca regione campana.

A quel punto, Spartaco decise di estendere la rivolta anche a Sud della Campania, occupando quindi la Calabria e la Lucania (oggi Basilicata): in queste zone altri uomini si aggregarono alla sua comitiva, riuscendo ad armare regolarmente l'esercito nell'inverno 73-72 a.C. 

Anche un comandante celta, Crixio (detto anche Crisso), aderì alla rivolta spartachista e nel 72 a.C. egli, con 20.000 schiavi, in maggioranza celti e germanici, scese in Apulia (oggi Puglia), ma fu sconfitto dai generali romani Lucio Gellio e Gneo Cornelio Lentulo Clodiano nella "Battaglia del Gargano". L'esito fu così disastroso che Quinto Avio, il propretore di Gellio, riuscì assolutamente indisturbato ad uccidere Crixio con un pugnale.

Spartaco non si intimorì alla notizia della morte dell'alleato, ed anzi riuscì a battere nuovamente le truppe romane, attestate in due eserciti comandati dai consoli Lucio Gellio Publicola e Gneo Cornelio Lentulo Clodiano uno di qua e uno di là dell'Appennino. A quel punto decise di estendere la rivolta, arrivando con circa 150.000 uomini fino a Modena dove riuscì a sconfiggere anche il proconsole Caio Cassio Longino Varo. Era quindi praticamente riuscito nel suo intento, cioè quello di attraversare le Alpi e congiungersi con gli schiavi del Nord Europa in modo da formare un esercito più potente. Tuttavia una grande parte degli schiavi vittoriosi volle restare in Italia o al limite marciare contro Roma, approfittando del momento di debolezza dell'esercito romano.

Spartaco inizialmente non aderì a questo progetto, convinto del suo fallimento: egli avrebbe preferito arrivare fino in Gallia, in modo da avere il sostegno della popolazione locale che già da tempo mostrava una certa insofferenza verso la dominazione romana. Decise comunque di accettare la volontà della maggioranza, a patto che essi sarebbero tornati al sud in modo da avere più alleati: quindi guidò le sue truppe verso la Lucania.

Nel dicembre nel 72 a.C., proprio mentre Spartaco tornava in Basilicata, il Senato romano diede a Marco Licinio Crasso l'incarico di reprimere la rivolta. Crasso pretese il comando su otto legioni, in modo tale da avere una schiacciante superiorità in termini numerici. Con tutti questi uomini egli ordinò la creazione di una grande muraglia tesa a non fare arrivare rifornimenti di alcun genere alle truppe di Spartaco.

Spartaco, preso in controtempo da questa decisione, decise allora di sbarcare in Sicilia in modo tale da unirsi a una rivolta di schiavi, indipendente alla sua, che si stava svolgendo in quel momento in Trinacria. Tuttavia, a causa del tradimento di alcuni pirati, fu costretto a rimanere fermo. Crasso lo attaccò alle spalle, ma egli riuscì inizialmente a sconfiggerlo nella battaglia di Petilia. Tuttavia, a causa della stanchezza dei suoi uomini, Spartaco non poté sfruttare al meglio il suo successo, avvenuto nel gennaio del 71 a.C., permettendo così alle truppe di Gneo Pompeo di unirsi a quelle di Crasso: il nuovo esercito romano, numeroso e armato fino ai denti, costrinse Spartaco prima alla fuga verso Brindisi (dove due suoi ex alleati, Castro e Giaunico, vollero muovere battaglia da soli ai romani, perdendo nettamente) e poi alla ritirata, ancora verso la Lucania.

Nei pressi del fiume Sele si svolse la battaglia finale: 60.000 schiavi, tra i quali Spartaco, morirono (ma il corpo del condottiero non fu mai trovato). I romani persero solo 1.000 uomini e fecero 6.000 prigionieri, che Crasso fece crocifiggere – nudi – lungo la via Appia (che porta da Capua a Roma). Altri reparti dell'esercito ribelle, circa 5.000 uomini, tentarono la fuga verso nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo. Terminava così la rivolta di Spartaco.  

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